23 Lug 2018

Plastica: riciclare non basta. Che fare allora?

Scritto da: Ezio Maisto

L’uscita del rapporto Greenpeace sulla plastica è l’occasione per fare il punto sulla più grande fonte di inquinamento dei nostri tempi. Davvero può bastare il riciclaggio? E soprattutto, qual è il contributo che ciascuno di noi può dare per ridurre il danno? Ecco dieci azioni quotidiane che tutti noi possiamo mettere in pratica ogni giorno.

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“Sì, compro bottiglie di plastica. Ma faccio la differenziata”. Quante volte ho sentito questa frase quando facevo notare – ahi, quanto sono pedante – che le nostre azioni di acquisto e consumo hanno sempre una conseguenza diretta sul degrado e l’inquinamento che vediamo nei nostri mari e nelle nostre città. Siamo onesti. Quella della separazione della spazzatura per consentirne il riciclaggio è la consolazione di molti di noi, sensibili ai temi ambientali ma non abbastanza focalizzati da farli diventare una priorità nella nostra vita quotidiana. La verità è che il riciclo non è la soluzione per combattere l’inquinamento da plastica, ossia l’emergenza ambientale col maggior tasso di incremento del decennio.

 

Non lo dicono soltanto la logica e l’osservazione di ciò che ci circonda, ma anche i risultati del nuovo rapporto “Plastica: il riciclo non basta. Produzione, immissione al consumo e riciclo della plastica in Italia” redatto dalla Scuola Agraria del Parco di Monza. Nel documento, commissionato all’istituto di ricerca da Greenpeace, viene analizzata – fra le altre cose – la capacità dei sistemi di riciclo della plastica presenti in Italia, comparandola con la sua produzione, distribuzione e consumo effettivi.

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In particolare, nel rapporto si nota come la forte crescita della produzione globale di plastica usa e getta – che raddoppierà i volumi attuali entro il 2025 – rende le capacità attuali e potenziali di riciclo alla stregua di un semplice palliativo. Facciamo un esempio sugli imballaggi, che sono una voce molto  importante sul totale (40% del totale plastica prodotta in Italia). Sebbene gli imballaggi riciclati siano passati dal 38% al 43% negli ultimi 4 anni, la quantità di quelli non riciclati nel nostro Paese è rimasta praticamente invariata nello stesso periodo (da 1,29 a 1,28 milioni di tonnellate). In altre parole, su 10 imballaggi prodotti, solo 4 vengono effettivamente riciclati; altri 4 invece vengono bruciati negli inceneritori e i restanti 2 dispersi nell’ambiente.

 
Insomma, riciclare è da un lato un gesto importante, perché la sua diffusione significa aumento della sensibilità ambientale, ma dall’altro può essere addirittura dannoso se iniziamo a credere che possa essere sufficiente. Ma allora qual è la soluzione? L’unica possibile è ridurre a monte, e drasticamente, i quantitativi di oggetti prodotti per il monouso, rimodulando totalmente sia il sistema di imballaggio dei prodotti sia la loro progettazione intrinseca, in maniera che vengano fabbricati per essere riutilizzati il più a lungo possibile.

 
Una soluzione che, tuttavia, presenta due problemi. Il primo, ben descritto nel rapporto, è di ordine economico. Se l’obiettivo dei governi, i cui provvedimenti regolano le leggi del commercio, sono i livelli occupazionali, e se l’obiettivo delle aziende che producono e utilizzano plastica monouso è il profitto, quale governo interverrà nell’obbligare queste imprese a prendere provvedimenti – Responsabilità Estesa del Produttore (EPR), incentivi e disincentivi fiscali,  ecc. – che ne aumentino i costi e quindi ne limitino i profitti, rischiando che vadano a investire altrove?

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 L’altro problema, non sottolineato dal rapporto ma sul quale puntiamo noi l’attenzione, è di ordine culturale. Da più di 50 anni siamo stati abituati a moltiplicare le nostre esigenze fino a far diventare indispensabile la più superflua delle merci, la cui durata prima di trasformarsi in rifiuto diventa sempre più breve. Come possono le imprese – ammesso che improvvisamente decidano di aumentare la propria attenzione alla responsabilità sociale – cambiare atteggiamento quando i propri clienti non mostrano un’esponenziale crescita di sensibilità sulla questione?

 
Come spesso capita in questi casi, bisogna intervenire su più di un elemento fra quelli che governano il sistema. Se Greenpeace nei mesi scorsi ha lanciato una petizione  – sottoscritta finora da più di un milione di persone in tutto il mondo – in cui si chiede a grandi marchi come Coca-Cola, Pepsi, Nestlé, Unilever, Procter & Gamble, McDonald’s e Starbucks di ridurre l’utilizzo della plastica monouso, anche noi, da semplici consumatori, dobbiamo fare di più.

 

Dobbiamo farlo perché il nostro comportamento da cittadini può influenzare in maniera più incisiva sia la politica, che regola il commercio attraverso le leggi, sia le imprese stesse, alle quali va fatto capire che se non soddisfano anche le nostre esigenze di rispetto dell’ambiente, perderanno quote di mercato. L’esperienza di Ekoplaza, il primo supermercato senza plastica del mondo, ci insegna che le imprese sanno adattarsi molto bene alle esigenze espresse con chiarezza da consumatori evoluti.

 
Certo non tutti siamo in grado di fare come la blogger statunitense Lauren Singer, che dal 2012 vive con l’obiettivo di promuovere nel mondo la riduzione dei rifiuti non compostabili di ciascuno. Sul suo blog Trash is for tossers (in italiano, “la spazzatura è per gli stronzi”), Lauren è arrivata a postare le foto di minuscole ampolle di rifiuti non compostabili etichettate come propria produzione mensile. 

 

Esistono però anche casi più semplici da imitare. Chi vi scrive, per esempio, sta sperimentando da qualche anno – con un certo divertimento – uno stile di vita che, se non può ancora essere definito a rifiuti zero, è quantomeno a marcata riduzione dei rifiuti. Come faccio? Semplice. Poche regole personali a costo zero che mi sono dato e che, se volete, potete considerare piccoli spunti anche per voi. Vi riporto quelli relativi al solo cibo:

 

1) Vado sempre in giro con una borraccia  che riempio ogni volta dal rubinetto di casa, dei bar o delle fontane pubbliche. E casomai qualcuno osasse contestarvi che l’acqua del rubinetto è meno sicura di quella in bottiglia, spammategli pure ovunque possiate The story of bottled water.

 

2)   Al bar, concludo sempre un ordine con la frase “senza cannuccia, per favore”. Nel caso mi chiedessero perché, gli mostro una foto dei veri utilizzatori finali di questo “indispensabile” strumento, senza il quale – com’è noto – non potremmo bere…

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3)  In gelateria preferisco sempre il cono alla coppetta. Anche perché il sapore della coppetta non è tra i miei preferiti.

 

4)  Al ristorante, prima di ordinare acqua o bibite, chiedo ai camerieri se le bottiglie sono in vetro. Nel caso fossero in plastica, chiedo una brocca d’acqua del rubinetto. Lo faccio con gentilezza e ad alta voce, dicendo che soffro di intolleranza alla plastica usa e getta e sperando che mi sentano non solo gli altri clienti, ma soprattutto il proprietario del ristorante.

 

5)  Se organizzo un pasto conviviale con amici a casa, apparecchio il buffet con bicchieri di vetro e piatti di ceramica, accanto ai quali metto un pennarello e del nastro adesivo sul quale scrivere il proprio nome. Poi ricordo a tutti che la mia casa è allergica alla plastica e che quindi il cibo che ciascuno porta preferirei sia trasportato in contenitori riutilizzabili (da restituire a fine serata: non vorrete mica riempirmi la cucina di tupperwere?).

 

6)  Faccio la spesa ai mercati rionali, invece che al supermercato, portando con me non solo una sporta riutilizzabile all’infinito, ma anche una decina di buste di carta da pane. In questo modo evito non solo gli imballaggi inutili, ma diminuisco anche il cibo industriale in favore di quello fresco. La mia salute ringrazia.

 

7)  Quando posso, acquisto il cibo fresco presso un GAS-Gruppo di Acquisto Solidale, dove il cibo è anche biologico e posso guardare i produttori negli occhi. Se vivete in una città di media grandezza è molto probabile che ce ne sia uno anche vicino a voi. Nel caso cercatelo su www.economiasolidale.net/.

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8)  Le poche volte in cui vado al supermercato per acquistare ciò che non posso trovare al mercato o al GAS, porto anche lì la mia sporta con le buste di carta riutilizzate. A quel punto peso il solo cibo fresco sulla bilancia, senza buste di plastica e senza toccare quegli stupidi guanti usa e getta  con i quali vorrebbero farci credere di trovarci in un ambiente asettico, e attacco l’etichetta adesiva con il prezzo direttamente sulla sporta. L’unica volta che una cassiera ha tentato di dirmi che non potevo evitare le buste monouso, ho risposto con fermezza: “La prego, mi faccia una multa per aver tentato di ridurre i rifiuti; stavo appunto pensando di sostituire la mia faccia su Facebook con qualcosa di cui andare più fiero”. 

 

9)  Se in un negozio tentano di darmi una busta di plastica, rifiuto con gentilezza mostrando la mia sporta oppure lo zainetto da città che porto sempre con me e nel quale metto anche la mia bellissima borraccia vintage.

 

10) Nel caso fossi proprio costretto ad adattarmi alle circostanze e, ad esempio, a non poter rifiutare una bevanda versata in un bicchiere di plastica, non ne faccio un dramma. Un paio d’anni fa, durante un  viaggio in bicicletta di cui abbiamo già parlato, ho imparato che, se anche esistesse davvero, la coerenza perfetta alzerebbe muri più che ispirare emulazione. 

 

Bene. Questo era il mio mini decalogo senza troppe pretese. Ora tocca a voi, quando commenterete questo articolo sulla nostra pagina Facebook, dirci quali sono le vostre piccole regole per ridurre di almeno un po’ il vostro contributo inquinante all’era della plastica. Chissà che, facendo circolare quelle di ciascuno, non ne ricaviamo, tutti, nuove idee per rispettare di più l’ambiente che ci ha regalato la vita.

 

 

 

 

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