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Lavoro, s.m [dal latino labor] designa l’ambito delle attività umane volte alla produzione di beni, di ricchezza, di merci da immettere nel mercato. Nella sua declinazione singolare, significa esercizio di un mestiere, di una professione, e negli ultimi decenni, la società del lavorismo – che ha reso il lavoro un totem da adorare, un valore indiscutibile, un diritto da difendere e un fine da perseguire ad ogni costo – ha finito per restringere il suo campo semantico definendolo come gesto, o come un insieme di gesti, che serve a produrre della merce, e a cui corrisponde un salario.
A ben vedere, però, invece di glorificarlo, il lavoro andrebbe allontanato il più possibile dalla vita quotidiana, dal momento che serve solo ad affliggere l’uomo, causandogli sofferenze fisiche e morali. Può esserci, certo, un lavoro utile volto a produrre beni, ma non potrà darsi mai un lavoro buono: il lavoro è sfiancante anche quando è utile. E allora credo sia giunto il momento di dire che, di per sé, il lavoro è una pratica odiosa e annichilente, altro che un diritto da difendere.
Si ha diritto a qualcosa di vitale, di positivo, di sostanziale; si ha diritto a ciò di cui non si può fare a meno per vivere, o la cui sottrazione svilirebbe l’umanità della singola persona. Si ha dunque diritto al non-lavoro perché di per sé il lavoro è contrario all’essenza dell’uomo, a quell’essenza ch’è tesa al gioco e all’ozio contemplativo. L’uomo, d’altronde, non è nato per lavorare, ma per contemplare la natura, la vita e la bellezza circostante.
Queste considerazioni, del tutto ovvie, sembrano provocatorie e paradossali solo a chi ha ormai smarrito il senso etimologico del termine «lavoro», che deriva dal latino labor, e che si riferisce unicamente al lavoro faticoso che richiede un notevole travaglio: questo significato – smarrito del tutto nella lingua italiana – è ancora ben presente nel francese travail, nello spagnolo trabajo, nel portoghese trabalho, nel catalano treball, nel galiziano traballo, così come anche in alcuni dialetti italiani, quale ad esempio il siciliano, che al lavorare preferisce travagghiare.
Il termine travaglio deriva da tripalium, strumento di tortura a tre pali. Il lavoro produce allora un travaglio e il lavorare è uno sforzo, un affanno continuo: per questo motivo l’atto con cui ci si sfianca dalla fatica viene anche messo in relazione col verbo labi (labor -eris lapsus sum labi), che significa cadere, scivolare, lasciarsi andare, ma anche tramontare, declinare, venir meno fino a morire. Questo tendere allo sfinimento rende il labor una disgrazia, una sventura che fa diventare deboli, tremanti e fa vacillare. Ma trema e vacilla ciò che è destinato a una rapida scomparsa, e che è quindi labile: questo termine, dal latino tardo labilis-e, deriva proprio da labi.
È interessante notare che i vocaboli labor e labilis sono entrambi connessi al verbo labi. Il lavoro, allora, rende labili, fuggevoli, passeggeri, perché sfinisce fino a distruggere, fino a far morire il lavoratore curvato dalla fatica.
Da ciò si evince che il lavoro è sempre nocivo. Non esistono lavori buoni, e non può essere considerato lavoro ciò che non produce sfiancamento e sofferenza fisica. Il lavoro è una tortura, mai una vocazione cui anelare o un’arte da alimentare. Per i latini, infatti, quello che noi chiamiamo comunemente «lavoro intellettuale» non era un labor, ma opus ingenii, così come il lavoro mentale era agitatio mentis. Ciò sta anche a significare che nel contesto linguistico latino non sarebbe mai potuta avvenire la divinizzazione del lavoro a cui assistiamo, basiti, nella società tecnologico-capitalista dei nostri giorni.
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