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Dopo 1000 km percorsi e sei regioni attraversate si può iniziare a stendere un primo bilancio del viaggio 2 Ruote di Resistenza a partire dal mezzo di trasporto scelto: la bicicletta.
L’Italia non è un paese per bici. O almeno non più, o forse, speriamo, non ancora. Vogliamo essere ottimisti nonostante il nostro viaggio ne avrebbe da dire. E allora ne diciamo!
Fino ai fatidici anni ’60, epoca della motorizzazione di massa, del trionfo dell’auto privata, la bicicletta scandiva le vite quotidiane della popolazione, accompagnava generazioni di lavoratori. Oggi nel migliore dei casi è vista come un mezzo per poveracci, oppure, paradossalmente, come un lusso, costantemente accompagnato dal mantra: “Andate a lavorare!”
Abbiamo impostato il nostro viaggio fin dall’inizio come un percorso di resistenza: #2RR non è solo il titolo del progetto ma anche la metafora della resistenza fisica e psicologica necessarie per sostenere un itinerario di media lunghezza nella giungla stradale del nostro Belpaese.
E della resistenza e resilienza necessarie per intraprendere un’attività che si curi più dell’ambiente e della comunità che del guadagno immediato.
Crediamo, e ne stiamo avendo conferma, che la bicicletta ci aiuti a sentirci emotivamente più vicini alle storie che incontriamo: arrivare ad un appuntamento dopo aver affrontato una serie di salite, presentarsi sudati e accaldati e, a volte, non poter neppure fare una doccia subito, è il modo più discreto di creare una buona sintonia con chi ci ospita e ci dà fiducia.
Le prime domande a cui spesso rispondiamo sono: “Ma quanti km avete fatto oggi?”. “Quanto pesano le bici, e le borse?”. E anche: “Ma chi ve lo fa fare!!”.
Non mancano neppure le istintive riflessioni di gente che incontriamo per strada e che, piuttosto che darci le indicazioni richieste, si fa due conti e ci dice: “Sarete disoccupati, altrimenti come fareste ad avere tutto questo tempo per fare la vacanza in bici?!”
Non siamo disoccupati, solo precari, ma soprattutto non stiamo facendo propriamente una vacanza!
Se così fosse, potremmo avvalerci dei diritti e doveri del cicloviaggiatore e fermarci quando ci aggrada. Viceversa stiamo raccogliendo le esperienze di persone che, nel loro piccolo, tentano prima di tutto di cambiare il proprio approccio alla vita attivandosi per renderla sostenibile, poi di trasferire la medesima volontà alle realtà circostanti per far sì che davvero le cose possano cambiare.
E nel fare ciò vorremmo dimostrare che questo viaggio è alla portata di tutti, basta essere dotati di tanta buona volontà e pazienza. Pazienza, ecco.
Una delle parole chiave del tour che vorremmo raccogliere in un glossario è intermodalità. Uso combinato di più mezzi di trasporto. Nel nostro caso bici + treno.
Confortati dalle cifre sapevamo che l’Italia è un Paese di piccoli comuni, di piccole imprese che tutte le analisi vedono come la parte più vitale e produttiva della nazione. E allora perché tenerla in costante e anzi crescente isolamento? Perché continuare a buttare soldi in un’Alta Velocità che unisce 4 città in croce mentre la quasi totalità della nazione è costretta a ricorrere all’auto privata, con enorme spreco di risorse e rischi personali?
Si fa fatica a finanziare progetti di basso costo e sicura resa come Ven.To ma non si rinuncia a sostenere bretelle autostradali dai costi sproporzionati dedicate ad aree industriali ormai lontane dai giorni migliori.
Come abbiamo già avuto modo di rilevare, in Italia solo sui treni Regionali è ammesso il trasporto bici, purché, recita il regolamento, il mezzo non sia superiore a 2 metri e dietro pagamento del supplemento di € 3,50; non bisogna superare nemmeno il numero di 10 persone in gruppo con bici, altrimenti tocca fare una richiesta almeno 7 giorni prima. Il passeggero si assume la responsabilità del trasporto del mezzo e se arreca fastidio può essere fatto scendere in qualsiasi momento.
Trenitalia, insomma, ha paura dei ciclisti: vacilla comunque la logica di questi divieti categorici, dal momento che vengono infranti molto più spesso di quel che si creda, con l’aiuto del buon senso e della buona volontà del capotreno di turno. Ma perché TUTTI i servizi pubblici devono essere gestiti in questa maniera: lasciati andare a catafascio e affidati alla buona volontà dei singoli “militanti”, che non sono certo quelli che fanno carriera all’interno dell’apparato?
- Il servizio di trasporto bici sui treni è demandato alla Regioni e ogni Regione ha facoltà di decidere per sé. Solo la Liguria, ad esempio, fornisce gratuitamente il servizio bici su treno, ma entro certi limiti come avevamo già avuto modo di notare;
- Perché il deposito-bagagli delle stazioni non può fare il semplice sforzo di accogliere anche le bici?
- Per arrivare al binario generalmente mancano ascensori o almeno rampe;
- Il vagone adibito è IN TEORIA situato in coda. Ma a seconda della motrice potrebbe trovarsi in testa! Impossibile saperlo per tempo;
- Non tutti i treni che ammettono bici sono adeguatamente attrezzati: o mancano i ganci o i fermi o le panche sono montate al contrario;
- Spesso i vagoni-bici hanno gradini alti quanto gli altri, non proprio il massimo quando si ha 18 Kg di carico sulla bici. Fa eccezione il Minuetto. Peccato che porti solo due bici contro le 8 dei vecchi vagoni, e che la rastrelliera sia del tipo ammazza-raggi;
- In sintesi, anche sul treno la bici è vista più che altro come ingombro.
Una volta scaricate le bici dal treno (con non pochi urti e danni indebiti: chiedete ai raggi della ruota posteriore di Daniele) non ci sarebbe tanto bisogno di “strade secondarie” per raggiungere la maggior parte delle destinazioni. E neanche di itinerari protetti. L’esperienza nel ciclismo urbano ci ha insegnato come sia inutile costruire km di piste -magari facendole finire nel nulla, poco invidiabile specialità torinese- senza un piano organico, e soprattutto senza educare il popolo dell’automobile alla convivenza con i mezzi di trasporto leggeri! Infatti nel nostro viaggio i tratti coperti in pista ciclabile sono stati ben pochi. Li possiamo indicare su richiesta.
Linee ferroviarie dismesse da anni potrebbero con poca spesa trasformarsi in piste ciclabili di qualità (primi esempi la Eboli-Lagonegro o le mitiche Ferrovie Reali Sarde a scartamento ridotto) e permettere ai sempre più numerosi cicloturisti stranieri di raggiungere agevolmente località ricercate come Pompei o riscoprire tesori nascosti. Ma attenzione: le piste ciclabili ricavate da ex-ferrovie non devono diventare un pretesto per uccidere ulteriormente la rete ferroviaria! Vietato infierire sui cadaveri ancora caldi di gloriose linee di pendolari, assurdamente chiamate “rami secchi”, per trasformarle in attrazione turistica. Confermando in tal modo il luogo comune che vuole il ciclista sfaccendato e poco addentro ai problemi del lavoro!
A chi vede la bici associata unicamente al cicloturismo diciamo che non è poi così romantico pedalare in un Paese cosi pervicacemente affezionato all’automobile, che lascia pochissimo spazio alle piste ciclabili, quanto meno a quelle realmente utilizzabili. E un turismo “sano” come il cicloturismo mal dovrebbe tollerare un cambio di destinazione d’uso così poco rispettoso della memoria dei luoghi.
Più il viaggio di #2RR continua più aumenta la percezione dell’Italia come scrigno di meraviglie nascoste, poco valorizzate o boicottate tout court.
Daniele Contardo e Nica Mammì
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