Lunedì è uscita la terza e ultima parte del sesto rapporto dell’Ipcc sul cambiamento climatico. Fra poco vediamo che cosa dice, intanto facciamo un po’ di cornice. L’Ipcc, immagino lo sappiate ma non diamo niente per scontato, è l’Intergovernative panel on climate change, ovvero un foro scientifico nato nel 1988 in seno alle Nazioni unite per studiare i cambiamenti climatici.
L’Ipcc è un organismo scientifico, ma anche politico, perché è emanazione dei vari governi mondiali, e dovrebbe indicare ai governi stessi le politiche da seguire in ambito climatico. Come indica queste politiche? Principalmente attraverso dei rapporti periodici, che escono all’incirca ogni 5-6 anni, perlomeno quelli principali, chiamati assessment report (poi ce ne sono alcuni speciali).
I report sono divisi in tre parti, che sono ciascuna il frutto del lavoro di un gruppo di lavoro. C’è una prima parte legata agli studi scientifici sui cambiamenti climatici, che quindi aggiorna il mondo su come sta evolvendo lo studio del problema, quali aspetti nuovi conosciamo, quali dati, se questi dati confermano o smentiscono quello che sapevamo già, quanto è grave la situazione e così via.
C’è un secondo gruppo che lavora invece sugli impatti dei cambiamenti climatici sulle società umane, quali sono le aree più sensibili, come le società possono adattarsi per evitare le conseguenze peggiori di quelli che sono i cambiamenti climatici considerati inevitabili, quali le principali vulnerabilità.
Infine una terza parte che è quella sulla mitigazione, ovvero cosa possiamo fare per fermare il fenomeno del cambiamento climatico prima che vada completamente fuori controllo.
Ecco quella uscita all’inizio di questa settimana è la terza parte, quella sulla mitigazione, del sesto rapporto dell’IPCC. Poi a settembre uscirà la sintesi delle tre parti.
Ora, la prima parte del sesto report, quella sulla situazione dal punto di vista del problema in sé, avvertiva che ci sono vari indicatori che sembrano dirci che siamo molto vicini a dei punti critici di non ritorno, superati i quali, possiamo salutare il clima terrestre per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi 12mila anni.
La seconda parte ci diceva che gli impatti sulle società umane dei cambiamenti climatici rischiano di essere devastanti, con milioni di persone costrette a migrare e buona parte del mondo che diventerà inabitabile, se non agiamo immediatamente.
Eccoci quindi a questa terza parte. Che cosa dice? Riprendendo quanto scrive il Guardian, la sintesi è che “Il mondo ha solo una piccola possibilità di limitare il riscaldamento globale a 1.5C sopra i livelli pre-industriali, e sta rimanendo molto indietro nel fare i cambiamenti necessari per trasformare l’economia globale in una base a basse emissioni di carbonio.” Vi ricordo che 1,5°C – ovvero l’innalzamento delle temperature medie globali di 1,5° rispetto all’epoca preindustriale, che è la soglia che gli studiosi considerano ancora accettabile, nel senso che continueremo ad avere un pianeta diverso, ma abitabile – è l’obiettivo che le nazioni del mondo si sono date durante la Cop 21 di Parigi nell’Accordo di Parigi.
Il superamento di 1,5C è considerato “quasi inevitabile” dagli scienziati dell’Ipcc, ma – questa è la buona notizia – questo superamento potrebbe anche essere temporaneo e le temperature potrebbero essere riportate a +1,5 C entro la fine di questo secolo se si verificano due condizioni:
- i paesi riducono drasticamente le emissioni di gas serra in questo decennio.
- vengono preservati gli ecosistemi
- vengono implementate tecnologie per sottrarre la CO2 in eccesso dall’atmosfera
Il primo punto è la conditio sine qua non. Dobbiamo smettere subito di bruciare combustibili fossili e immettere gas climalternati in atmosfera. Gli scienziati si dicono molto preoccupati per le troppe nuove centrali elettriche a carbone, impianti a gas e altre infrastrutture a combustibili fossili che sono via di progettazione e realizzazione nel mondo e che rendono difficile immaginare di rimanere entro i budget di carbonio necessari per raggiungere l’obiettivo di 1,5C.
Altra priorità deve essere preservare quegli ecosistemi che naturalmente assorbono CO2, tipo le foreste, le torbiere e altri cosiddetti serbatoi di carbonio naturali. E sarà anche necessario riforestare, ripristinare i suoli e i paesaggi. Ma, si ribadisce, nessuna quantità di alberi piantati sarà sufficiente a cancellare gli effetti delle continue emissioni di combustibili fossili. Da lì non si scappa.
Poi vengono passate in rassegna le varie tecnologie in grado di rimuovere e stoccare la CO2 in eccesso presente in atmosfera tipo il Carbon capture and storage (CCS) che però è una tecnologia studiata da molti anni che fin qui non ha dato i frutti sperati, o il i sistemi ancora sperimentali di rimozione chimica.
Poiché l’IPCC ha trovato che il superamento di 1,5C è “quasi inevitabile”, queste tecnologie di “emissioni negative” sono probabilmente necessarie per garantire che qualsiasi superamento della temperatura sia temporaneo. Ma l’IPCC è stato anche chiaro, anche qui, che non possono sostituire la fine della nostra dipendenza dai combustibili fossili ora.
Altro aspetto importante, quello sugli stili di vita. Il report parla chiaro: dovremo cambiarli profondamente. Tutto dovrà cambiare: energia, edifici, trasporti, cibo e industria. Ciò dignifica anche che dovremo ridurre la domanda di “beni ad alta intensità energetica”. Saranno necessari cambiamenti dietetici, in particolare mangiare meno carne, per ridurre il metano in particolare. E c’è una fetta di popolazione globale, circa il 10%, che rappresenta una quantità sproporzionata di emissioni globali (tra il 34 e il 45%) e che dovrà cambiare più degli altri.
L’aspetto positivo è che il costo della maggior parte delle tecnologie chiave necessarie è crollato negli ultimi anni, addirittura dell’85% per le energie rinnovabili. Insomma, dal punto di vista tecnologico avremmo probabilmente tutto il necessario per riprogettare sistemi sociali sostenibili e soddisfacenti. Il problema principale non sono le soluzioni tecnologiche, ma il cambiamento delle dinamiche del sistema e degli atteggiamenti delle persone che lo compongono.
Interessante notare che anche in questa terza ed ultima parte, iniziano a fare capolino i concetti di decrescita, post-crescita, e economia della ciambella, che a una mia rapida conta compaiono circa una cinquantina di volte, complessivamente.
UE, LA MODA È GREEN
Cambiamo argomento. L’Unione europea si prepara, forse, alla svolta sostenibile per quanto riguarda l’industria della moda. Riporta Agi che una settimana fa, il 30 Marzo, Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo della Commissione europea con delega per il Green Deal, ha dichiarato: “È ora di porre fine al modello del “prendere, creare, utilizzare e gettare via” che è così dannoso per il nostro pianeta, la nostra salute e la nostra economia”.
Facendo seguito a quanto avviato l’11 Marzo del 2020 con l’emanazione dell’Action plan per il passaggio a un’economia circolare per i tessili, la Commissione Europea ha deciso di accelerare l’attuazione di tale programma mediante un pacchetto di iniziative da realizzare entro il 2030 per rendere il settore tessile più sostenibile.
Nel comunicato stampa, riporta L’Indipendente, viene specificato come l’obiettivo sia quello di allontanarsi dal consueto modello “prendere-fare-usare-smaltire”, con l’obiettivo di rendere il mondo del tessile ecosostenibile entro il 2030, tramite due direttrici: riciclaggio innovativo con rifiuti ridotti al minimo e prodotti di qualità sempre più duraturi.
Secondo la nuova strategia legislativa i capi dovranno essere privi di qualsiasi sostanza pericolosa per la salute umana e l’ambiente, realizzati con fibre riciclate e il più possibile resistenti. Le norme sui rifiuti tessili saranno contenute nella revisione della direttiva quadro sui rifiuti, prevista per il prossimo anno. Alcune delle principali regole riguarderanno la divulgazione del numero di tessuti invenduti scartati, il divieto di distruzione dei tessuti invenduti, la lotta all’inquinamento da microplastiche, la raccolta differenziata, la diffusione di informazioni più chiare, con tanto di passaporto digitale dei prodotti e un regime obbligatorio di responsabilità estesa del produttore dell’Ue. Un capitolo della strategia è dedicato al tema della fast fashion, invitando le aziende a ridurre il numero di collezioni all’anno e prevedendo misure fiscali favorevoli per il settore del riutilizzo e della riparazione.