Wakhan, il corridoio che collega Cina e Afghanistan dove le minoranze vengono sacrificate
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Sarà capitato a chiunque abbia fatto scorrere l’occhio su una mappa geografica dell’Asia centrale di scorgere – pendice nord orientale dell’Afghanistan – una sottile striscia di terra protesa verso la sconfinata Cina: si tratta del Corridoio del Wakhan, affascinante passaggio naturale adagiato sulle potenti alture dal Pamir.
Regione geograficamente isolata, ai limiti dell’inaccessibilità, il corridoio ha storicamente suscitato interessi non certo corrispondenti al suo peculiare isolamento: dal celebre great game con cui spie ed esploratori europei si contendevano nel XIX secolo il controllo di questa regione, al rinnovato intrico di interessi geostrategici delle grandi potenze regionali, il Wakhan è oggi territorio ambito e lusingato, con buona pace dei suoi miti e ospitali abitanti, appartenenti all’antichissima etnia wakhi, popolazione nomade di grande tempra.
L’importanza strategica del Wakhan non è certo una scoperta recente: era il 1271 quando Marco Polo, percorrendo una delle ramificazioni della Via della Seta, nel calpestava la terra in direzione del Celeste Impero. L’isolamento geografico non è stato sufficiente neanche a preservare l’altopiano dall’ingerenza dei Talebani, che nella loro recente riconquista hanno preso il controllo anche di questa remota regione – l’aggressivo radicalismo sunnita dei Taliban rappresenta una temibile minaccia per i moderati ismailiti wakhi.
La predetta importanza strategica del Corridoio induce però interessi ben più consistenti della semplice intromissione repressiva dei Talebani. Lo sviluppo della Nuova Via della Seta e un complesso sistema di progetti e alleanze complementari impegnano infatti la Cina da più di dieci anni e il controllo del dito afghano è un obiettivo di importanza decisiva per Pechino. Esso rappresenta il collegamento naturale fra il comparto mediorientale e centro asiatico e lo Xinjiang, vastissima regione di confine della Cina occidentale.
Il celebre pragmatismo cinese è stato recentemente esibito una volta di più in occasione dell’importante accordo bilaterale fra Pechino e Kabul per la costruzione di una strada di collegamento transitante per l’appunto dal Wakhan – sostanziale la differenza fra il fallimentare militarismo statunitense e il cinico senso pratico cinese, benchè entrambi finalizzati al controllo dell’Afghanistan.
L’impegno economico del Governo talebano per la realizzazione dell’infrastruttura è marginale rispetto al contributo cinese, ma la prospettiva dello sfruttamento logistico e minerario del territorio afghano sarebbe per Pechino un successo straordinario. La Cina infatti è già concessionaria di diverse miniere di rame, ma il potenziale estrattivo del Paese è infinitamente maggiore ed estremamente allettante.
Oltre a costituire una delle principali direttrici della nuova Via della Seta, il Wakhan avrebbe un ruolo di assoluto rilievo anche nella messa a punto di una fondamentale via commerciale marittima, che attraversando il Pakistan – suo fedelissimo alleato regionale – unirebbe la Cina al porto pakistano di Gwadar, oggetto di ingenti investimenti cinesi negli ultimi anni e importantissima via di accesso all’Oceano Indiano.
I progetti commerciali di Pechino sono dunque il contesto principale in cui si sviluppa l’attrattiva nei confronti del Corridoio del Wakhan, ma non sono l’unico. La nuova ascesa talebana ha infatti nuovamente attualizzato una potenziale situazione di pericolo per il Governo cinese, ovvero la possibilità di contatto fra il radicale regime afghano e la minoranza turcofona musulmana dei uiguri, localizzata nell’area sud occidentale dello Xinjiang e separata dall’Afghanistan proprio dal Corridoio del Wakhan.
In verità gli uiguri rappresentano una semplice e innocua componente etnica della grande nazione cinese, ma Pechino diffida profondamente e ostilmente da essi, per motivi etnici – si ricordi che la vulgata considera veri cinesi solo gli appartenenti alla largamente maggioritaria etnia Han – e religiosi – la repressione di qualsivoglia forma di fede è una storica cifra della gestione degli affari interni nella Cina comunista.
Classificati come terroristi dal Governo centrale, gli uiguri sono stati oggetto di una politica repressiva di estrema gravità, di una sistematica violazione di basilari diritti umani e di un brutale sistema di controllo delle nascite. L’importanza del controllo del Corridoio del Wakhan ha dunque inasprito questa politica violentemente repressiva, al fine di ridurre a un sottomesso controllo la minoranza entro il cui territorio sbocca la preziosissima via commerciale afghana.
E un delitto senza vittime ma non meno grave si prospetta l’antropizzazione della regione del Wakhan, trecento chilometri di natura incontaminata incorniciata dalle severe vette del Pamir e dell’Hindu Kush, naturale protezione per un patrimonio culturale, folkloristico e linguistico unici, uno scorcio quasi medievale ormai tanto raro quanto prezioso. Custodi di queste gemme di storia sono i membri del popolo dei wakhi, nomadi pastori abitanti delle valli, divisi fra una larga maggioranza afghana e una piccola minoranza chirghisa.
La minaccia talebana cavalca l’onda del fanatismo religioso e della repressione culturale, al punto da spingere la minoranza chirghisa a una drammatica migrazione attraverso ardui valichi innevati in direzione del Tagikistan, salvo vedersi negata l’accoglienza, benchè identificati come profughi – ha tuonato Biden alcuni mesi fa, tentando di imporre una quota di migranti a ognuno dei paesi dell’Asia centrale, in vista del previsto esodo dall’Afghanistan.
La minaccia cinese veste invece i panni dello sfruttamento commerciale, dell’invasione antropica e innaturale di uno dei pochi recessi incontaminati del pianeta, del sacrificio dell’identità sull’altare del profitto. La storia ci dirà dunque se l’isolamento del Wakhan sarà, ancora una volta, sufficiente a proteggere la sue terra e le sue genti da tutto ciò che le minaccia.
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