L’Ucraina, l’Italia e l’informazione malata. Intervista alla giornalista ucraina Olga Tokariuk
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È fine maggio. Il parco della Caffarella, a Roma, è invaso dai conigli. Hanno fatto le tane fra i rovi e gli arbusti secchi e assolati, da cui rotolano fuori placidi; ce ne sono di ogni taglia e colore e sembrano quasi indifferenti alla presenza umana. Ogni tanto un rumore improvviso o qualche cane curioso li manda in allarme: scattano allora in gruppo sollevando soffici nuvole di polvere. Alle nove del mattino la giornata è già torrida.
Olga Tokariuk arriva con sua figlia che subito, piena di stupore, si mette a giocare con i conigli. Sono a Roma per qualche giorno di vacanza per staccare la spina dalla situazione angosciante in cui versa il loro paese, l’Ucraina, a partire dal 24 febbraio, giorno in cui ha avuto inizio l’invasione da parte dell’esercito russo.
Olga di mestiere fa la giornalista. In passato ha collaborato con Rai News 24, Radio 3, Ansa, Ispi. Ha scritto e scrive della guerra sul Washington Post, su Time e su tantissime altre testate internazionali. Quasi mezzo milione di follower su Twitter ne fa una delle giornaliste ucraine più seguite in assoluto.
Ci ha rilasciato questa intervista per amicizia nei confronti di Selena Meli, colonna di Sicilia che Cambia e vicepresidente della nostra neonata cooperativa. Ma è un’eccezione, uno strappo alla regola. Nonostante parli fluentemente italiano – ha vissuto qualche anno fra Firenze e Forlì –, Olga non rilascia quasi mai interviste ai nostri giornali e rifiuta i numerosi inviti che le arrivano dai nostri talk show. È arrabbiata per il modo in cui i media italiani fanno informazione – o più spesso disinformazione, come afferma – sull’Ucraina.
IL CASO DEI MEDIA ITALIANI
Secondo la giornalista, in generale i media occidentali non hanno raccontato – o lo hanno fatto male – la grande trasformazione che ha cambiato il volto dell’Ucraina negli ultimi anni, con il paese che si è avvicinato sempre di più al modello europeo per quanto riguarda il sistema politico, gli standard di vita, il sistema economico, il sentire stesso delle persone.
Il sistema mediatico italiano però ha delle “colpe” più specifiche. «Facendo il lavoro di giornalista ho cercato di raccontare l’Ucraina così com’è, ma ho visto anche la disinformazione diffondersi sempre di più in questi otto anni, dalla rivoluzione di Euromaidan in poi. Se in molti paesi è rimasto confinato a pochi giornali “di nicchia”, in Italia ha coinvolto anche molti media mainstream».
Dalle parole della giornalista emergono come in un specchio i grandi problemi dell’informazione nostrana: un mix di interessi politici ed economici cui si affiancano la tendenza al sensazionalismo e alla spettacolarizzazione e un ribaltamento del rapporto fra fatti e opinioni. «L’Italia è un caso unico – spiega Olga –, alcuni esperti italiani che conosco la definiscono il ventre molle dell’occidente se parliamo di interferenze e disinformazione russe».
Ciò è dovuto a vari fattori: il legame storico fra il Partito Comunista italiano – il più grande d’Europa – e l’Unione Sovietica, una certa fascinazione storico-culturale, i forti legami commerciali – dal gas ai possedimenti degli oligarchi –, fino ai casi di vera e propria corruzione politica. Il Corriere della Sera riassume i legami fra la politica italiana e la Russia in un articolo del 22 febbraio scorso, appena due giorni prima dell’invasione, che mostra come questi legami attraversino l’intero spettro politico, dalla Lega alla sinistra radicale, passando per Forza Italia, M5S, Pd.
Tutte queste ingerenze hanno un impatto notevole sull’informazione che nel nostro paese subisce più che altrove l’influenza della politica. Ma un ruolo non indifferente lo giocano anche altri due fattori accennati sopra: la spettacolarizzazione dell’informazione – «i veri esperti non vengono invitati a parlare, si privilegiano persone che fanno discutere», accusa Olga – e il predominio delle opinioni sui fatti – «in Italia vengono invitati a parlare dei cosiddetti esperti, che non sanno niente della situazione, non sono mai stati in Ucraina né in Russia, non conoscono né riportano i fatti ma forniscono la loro opinione. Basata su cosa?».
Persino trasmissioni attendibili rischiano di cadere nella trappola della disinformazione, a detta di Olga Tokariuk. È il caso di Report: «Quando Report ha fatto il suo reportage da Mariupol, il giornalista ha intervistato gli abitanti davanti ai militari russi. Che risposte sperava di ottenere? Gli intervistati sapevano benissimo che rischiavano la vita, la loro e quella delle loro famiglie, a dire quello che pensavano davvero. Il giornalista di Report avrebbe perlomeno dovuto dichiarare la situazione, invece non lo ha fatto».
RUSSIA-UCRAINA, UNA RELAZIONE COMPLICATA DA SEMPRE
Sul finire della nostra chiacchierata abbiamo affrontato anche la questione della guerra più in generale, toccando temi caldi come l’invio delle armi in Ucraina, le possibili risoluzioni del conflitto, la necessità o meno di giungere a un cessate il fuoco. Anche qui, Olga ci ha fatto una doverosa premessa sulle relazioni storicamente complicate fra Ucraina e Russia. Un elemento che spesso manca nelle analisi superficiali dei fatti.
«Il nostro paese – ci ha spiegato – ha una storia molto antica. Kiev fu fondata 1500 anni fa, ben prima di Mosca. L’Ucraina moderna, come stato indipendente, ha solo 31 anni, ma quando la Russia nega l’esistenza dello stato Ucraino dice una cosa falsa. Gli ucraini hanno lottato per secoli per la propria indipendenza. Solo nel ventesimo secolo ci sono stati cinque tentativi di proclamare l’indipendenza, soffocati dai sovietici».
In questo senso la lotta ucraina può essere vista come una lotta anticoloniale, contro l’imperialismo russo. «Si pensa sempre – continua Olga Tokariuk – all’imperialismo occidentale, mentre pochissima attenzione è dedicata anche negli studi accademici all’imperialismo russo, che per secoli ha oppresso non solo l’Ucraina ma anche altri popoli ed etnie. Anche in quest’ottica andrebbe raccontata questa invasione, come un altro tentativo di cancellare la cultura e la lingua ucraina».
Venendo alla situazione attuale l’espressione di Olga si fa dura, le sue parole affilate e taglienti. Ci confida che le fa molto male sentir dire, con leggerezza e superficialità, che l’Ucraina dovrebbe arrendersi, cedere i territori, che dobbiamo “salvare la faccia a Putin”, trovare un compromesso. «Io so cosa succede nei luoghi occupati dall’esercito russo», spiega.
«I russi stanno cambiando tutti i nomi delle strade dall’ucraino al russo, vogliono cancellare la nostra lingua, stanno cambiando i curriculum nelle scuole. Gli alunni a Mariupol non avranno le vacanze estive perché durante l’estate gli occupanti russi faranno loro imparare la storia della Russia. Questo è imperialismo, è cancellazione della cultura. Nei territori occupati sono arrivati ad arrestare le persone che parlano l’ucraino». E non si tratta solo di cancellazione culturale: le aree occupate sono anche – drammaticamente – caratterizzate da rapimenti, stupri, torture su vasta scala.
Per questi motivi, secondo Olga, «per gli ucraini non sono accettabili le richieste di arrendersi, né di cedere pezzi del proprio territorio. Anche perché, fra l’altro, non finirebbe comunque la guerra. Potrebbe essere congelata, ma la Russia userebbe questo tempo per riarmarsi e ripartire, come successo dopo il 2014». Quindi come ne usciamo? Anche qui Olga non usa mezzi termini: «L’unica soluzione accettabile per noi è una sconfitta militare della Russia. Perciò abbiamo bisogno di armi. Non chiediamo che vengano inviate truppe, ma armi sì».
Le chiediamo se ritiene realistico un cambiamento interno alla Russia. Risponde che lo è solo in una prospettiva di lungo termine. «C’è stata una finestra dopo la caduta del muro di Berlino, che però si è chiusa con l’ascesa al potere di Putin. Il cambiamento deve arrivare dall’interno del paese, in questi vent’anni i tentativi di proteste sono stati soppresse con sempre più forze. Pensate a Navalny, che è in prigione e non uscirà finché Putin sarà al potere».
Tuttavia, per adesso, un cambiamento non sembra alle porte e a detta della giornalista lo spirito prevalente in Russia è quello di disperazione. «Non credono nel cambiamento, né che la loro voce possa essere sentita. Ciò è frutto della propaganda e delle repressioni sempre più forti di questi vent’anni. Servirebbe un nuovo leader eletto democraticamente e poi un processo lungo. Un po’ come avvenuto con la Germania dopo la seconda guerra mondiale. Servirebbe una presa di coscienza e una condanna dei crimini commessi anche dentro il paese. Però per adesso questo in Russia non lo vedo».
Prima di congedarsi, Olga si lascia andare a un piccolo sfogo, che ci tocca molto da vicino. «Siete talmente abituati alla libertà di stampa, alla libertà di parola, alle elezioni libere, al diritto a manifestare, protestare – ci dice – che non vi rendete nemmeno più conto di quanto tutto ciò sia importante e prezioso». Alle sue spalle, sua figlia continua a rincorrere i conigli, immersa in un’atmosfera di pace bucolica che stride in maniera quasi violenta con quanto Olga ha appena finito di raccontarci.
QUALCHE RIFLESSIONE FINALE
Finita l’intervista sono rientrato a casa per proseguire il mio lavoro. Nel pomeriggio sono andato a ritirare la spesa al gruppo d’acquisto e poi ho giocato con mio figlio Elio. E lo stesso ho fatto nei giorni successivi. Olga invece, assieme a sua figlia, è rientrata in Ucraina, dove ha continuato a vivere e raccontare la guerra.
Ho pensato a lungo a questa differenza di contesto quasi invalicabile. Nelle puntate di Io Non Mi Rassegno, la rubrica di rassegna stampa commentata che curo qui su Italia che Cambia, ho criticato spesso l’invio di armi all’Ucraina. E dalla prospettiva esterna con cui continuiamo a guardare il conflitto credo ancora che questo abbia un senso. Ciononostante mi sono chiesto: «E se ci fossi stato io là? Se mi fossi trovato con la mia famiglia a essere invaso da persone sconosciute che vogliono impormi di parlare una lingua diversa, che mi vietano di esprimere le mie opinioni, cosa vorrei?» Non posso darlo per certo, ma è probabile che le vorrei anche io, le armi.
Quindi? Dov’è la verità? Qual è la cosa giusta da fare? Difficile a dirsi. Credo che esistano diverse prospettive da cui si può osservare la situazione, ognuna con le sue specifiche verità. Se osservassimo il tutto con gli occhi di un alieno di passaggio nei pressi del nostro pianeta con la sua astronave, probabilmente considereremmo tutto questo come normale: un gruppo di animali poco svegli, confinati su un sassolino blu e verde ai confini dell’universo, che continuano ad azzuffarsi fra loro e fanno di tutto per estinguersi.
Se ci poniamo a una distanza intermedia, possiamo tirare in ballo ragionamenti geopolitici, cercare cause e conseguenze del conflitto, osservare il rischio di un’escalation, valutare con attenzione le contromosse a livello internazionale. Se infine osserviamo il conflitto dall’altezza del suolo invece, vediamo la sofferenza di chi questa guerra la sta subendo sulla sua pelle. Sentiamo l’odore del sangue e della paura.
Non credo che esista un punto di vista migliore degli altri. Ciascuno ci porta informazioni, sensazioni e una consapevolezza diverse. Per quanto ci riguarda, credo che la cosa più sensata che possiamo fare, oltre a portare in modi diversi il nostro aiuto alla popolazione ucraina, sia approfittare delle libertà di cui ancora godiamo per costruire una reale cultura della pace, a partire da noi, dalle relazioni che intessiamo con gli altri e dalle interconnessioni con il resto degli ecosistemi.
Ascolta l’audio integrale dell’intervista
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