“Nell’Italia del 2040 le persone sono in grado di guardarsi l’un l’altra a prescindere da pregiudizi e discriminazione. Oggi possiamo promuovere reali azioni di pari opportunità, uscire da ruoli stereotipati e da un mentalità che vede nell’altr* una minaccia qualora esca dagli schemi.”
Hanno contribuito: Irene Biemmi – Università di Firenze | Riccardo Guercio, Désirée Olianas – Nuovo Maschile | Carlotta Monti – Casa della Donna Pisa, Arcilesbica Pisa | Giulia Rosoni – AIED | Rossana Scaricabarozzi – Actionaid | Lorella Zanardo – Il corpo delle donne, Nuovi occhi per i media Ha facilitato: Giulia Rosoni
Nonostante negli ultimi anni l’attenzione nei confronti delle disuguaglianze di genere e dei fenomeni di violenza sulle donne e di stampo omotrans-omofobico sia cresciuta significativamente, tanto da apparire come un fenomeno stabile anche a livello mediatico, le misure politiche, economiche e sociali si sono rivelate finora insufficienti per garantire l’uguaglianza di genere, la parità di accesso alle possibilità e una piena cittadinanza di genere.
Il lavoro delle associazioni, delle reti informali di donne, delle singole cittadine in contesti istituzionali e non istituzionali è stato incessante e ha portato ad alcuni cambiamenti concreti: lo rivela la classifica Global Gender Gap Report 2014, in cui l’Italia occupa il 69 posto con un punteggio da 0 a 1 di 0,697 (dove 0 è la totale disparità e 1 l’uguaglianza) e un incremento di 11 posti dal 2012. Questo dato, che ci può apparire freddo, dimostra come sia stato possibile qualche cambiamento. Tuttavia il nostro paese è ancora molto distanti dal traguardo della completa parità; inoltre va specificato che ciò che ha maggiormente contribuito a alzatre il punteggio dell’Italia rispetto al 2012 è stata la composizione del Governo con un maggior numero di donne presenti nell’esecutivo Renzi rispetto ai precedenti, il che ridimensiona i molto il risultato. Sui 142 Paesi considerati l’Italia è “ultimo in Europa, 114esimo nella classifica generale, 129esimo per quanto riguarda l’uguaglianza salariale a parità di mansioni e con raggiungimento della piena parità solo, forse, tra 81 anni” (ovvero nel 2095).
Parlare di tematiche di genere è dunque indispensabile per proseguire il lavoro e renderlo sistematico e capillare, per costruire strumenti di empowerment delle donne e di uguali opportunità, per contrastare la violenza sessista e trans-omofobica e, come ultima e più importante conseguenza, per creare i fondamenti per una società più libera e giusta.
Ulteriori elementi di criticità sociale si profilano all’orizzonte: il diffondersi di sessismo e omofobia organizzati in movimenti come quello di Manif por tous e delle Sentinelle in piedi, o ancora il Movimento Pro-Vita che mettono in discussione la possibilità di cambiamento verso una società in cui la comunità LGBTIQ trovi strumenti di garanzia e tutela e una maggiore agibilità politica e sociale, ma anche le conquiste degli anni ’70 in tema di diritto alla salute riproduttiva e all’autodeterminazione delle donne.
Il nostro lavoro ha preso l’avvio dall’analisi delle criticità attuali che sono state suddivise in cinque aree di intervento: Violenza, Diritti sessuali e riproduttivi, Economia/welfare, Educazione, Media e rappresentazione.
Dal punto di vista metodologico, il lavoro è stato svolto con una prima indagine delle criticità attuali e dei punti di forza per ogni singola area e con un’ipotesi di problem solving con proposte concrete in macro e micro-azioni da svolgere per risolvere il problema iniziale.
Quando i media parlano di violenza spesso associano questa parola a contesti degradati, di strada, alla presenza di immigrati o rom. Eppure i dati Istat 2015 parlano chiaro: le forme più gravi di violenza fisica o sessuale sono esercitate da compagni, familiari o amici (75,7% dei casi) e tre donne su dieci, tra i 16 e i 70 anni, hanno subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale, da una persona che conoscevano benissimo.
La violenza legata al genere è uno dei problemi più sottostimati del nostro paese. Una prima criticità è rappresentata dalla mancanza di rilevazioni statistiche sistematiche e di un osservatorio nazionale sulla violenza, con relativa assenza di dati inerenti la violenza domestica nelle coppie omosessuali ed una scarsa attenzione alle violenze che impattano sulle donne migranti (mutilazioni genitali, matrimoni forzati).
Vi è inoltre un problema di fondo, concettuale e di approccio: la violenza viene affrontata dalla società nostrana come problema di ordine pubblico e non come violazione di diritto; viene trattata come un problema sanitario e non socio-culturale e strutturale. Manca del tutto una adeguata strategia di prevenzione.
A complicare ulteriormente la situazione sono arrivati numerosi tagli di fondi ai centri antiviolenza e la scarsa destinazione di fondi dedicati oltre alla scarsa trasparenza nella destinazione dei fondi. Infine si registrano una mancanza di strumenti legislativi in materia di omo-lesbo-transfobia ed una inadeguatezza della formazione del personale che si interfaccia con i fenomeni di violenza (es. personale sanitario, forze dell’ordine, avvocatura. etc.) risulta spesso inadeguata.
I punti di forza sono invece rappresentati dalla nascita anche in Italia dei primi Centri di Ascolto per uomini maltrattanti, dalla presenza del Network europeo (Wave), nazionale (D.i.re. Contro la violenza) e regionale (Tosca) per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere e dalla sottoscrizione di protocolli nazionali e internazionali come la Convenzione di Istanbul.
Il sesso è ancora un tabù nel nostro paese e tutti gli argomenti ad esso collegati non riescono a trovare uno spazio adeguato all’interno della società italiana. Le campagne di sensibilizzazione sulle malattie sessualmente trasmissibili sono poche e poco efficaci e manca un comitato di controllo in materia di diritto all’applicazione delle leggi di tutela e di garanzia della salute sessuale e riproduttiva. Manca il sostegno all’omogenitorialità.
Anche il corpo normativo che nel nostro paese regola i diritti sessuali e riproduttivi è controverso ed incompleto. La legge 194 del 1978 sull’aborto viene spesso disattesa e l’obiezione di coscienza (che secondo la legge “esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”) viene applicata spesso in maniera vasta e indiscriminata. La legge 40/04 sulla fecondazione eterologa presenta limiti evidenti, e, nel nome della “tutela dell’embrione”, fà divieto di eseguire accertamenti diagnostici preimpianto, di accertare cioè se gli embrioni da trasferire nell’utero della donna che si sottoponga a PMA siano affetti da malattie genetiche.
Il numero di consultori in relazione all’utenza è inadeguato e risente della mancanza di finanziamenti e del processo di aziendalizzazione delle USL. Ciò causa una limitata accessibilità ai consultori per via delle liste d’attesa interminabili.
D’altra parte, la presenza stessa dei consultori, tutt’altro che scontata, è di per sé un punto di forza. Al loro interno la competenza e professionalità è spesso molto alta. Altro aspetto positivo è l’associazionismo di donne e uomini in rete che offrono un valido sostegno alla salute sessuale e riproduttiva. Inoltre vanno registrati alcuni interventi (spot ma presenti) di educazione e sensibilizzazione su queste tematiche nelle scuole.
L’economia è uno degli aspetti della vita sociale dove sono più evidenti le disparità di sesso e genere. Vi sono disparità nella rappresentanza politica e contrattuale, disparità di salario; disparità di pensioni, mancanza di interventi adeguati per ridistribuire più equamente tra donne e uomini il carico di cura.
Il famoso “soffitto di cristallo” rispetto al salario e al ruolo impedisce alle donne di occupare ruoli dirigenziali e percepire stipendi paragonabili a quelli degli uomini.
Vi è una generale mancanza di tutele di gran parte del personale impiegato nel settore della cura, in particolare lavoratori/trici domestici/che e assistenti domiciliari, perlopiù donne migranti (tuttavia pare che il lavoro di cura sarà inserito nella prossima agenda globale per lo sviluppo con adozione in sede ONU a settembre). L’intero settore della cura non è sufficientemente valorizzato.
La gravidanza e la genitorialità non godono del sostegno e delle tutele necessari. Fenomeni come il rientro forzato a lavoro dopo la gravidanza e le dimissioni in bianco (pratica diffusa che consiste nel far firmare al lavoratore o alla lavoratrice le proprie dimissioni in anticipo, al momento dell’assunzione per completarle in caso di malattia, infortunio, comportamento sgradito, o più spesso gravidanza) sono molto frequenti. Secondo l’indagine multiscopo Istat su “Uso del tempo”, oltre la metà delle interruzioni dell’attività lavorativa per la nascita di un figlio non è il risultato di una libera scelta da parte delle donne e circa l’8,7 per cento delle madri che lavorano o hanno lavorato hanno affrontato un problema del genere.
Sono pressoché scomparsi gli ammortizzatori sociali, al punto che la famiglia stessa col proprio risparmio privato è diventata un ammortizzatore sociale soprattutto per le generazioni dei più giovani e dei più anziani, che non godono di servizi di sostegno sufficienti.
D’altra parte si registrano una sempre maggiore attenzione da parte degli organismi internazionali all’ingiustizia economica (vedi ultimo rapporto delle Nazioni Unite Women) e la ratifica in Italia della convenzione ILO su domestic workers.
L’educazione è uno dei campi che negli anni è riuscito ad evolvere di più, ma anche dove i margini di miglioramento sono più ampi. Ad oggi ci sono picchi di eccellenza, con scuole che sono verie propri laboratori di valorizzazione delle differenze, anche di genere oltre a progetti inerenti le pari opportunità e la cittadinanza di genere nell’offerta formativa scolastica. Tuttavia nella maggiornaza dei casi permangono ancora una scarsa formazione e poca sensibilità del corpo docente alle tematiche inerenti al genere e all’orientamento, che determinano una differenziazione del percorso formativo in base al genere e una riproposizione a livello scolastico di stereotipi di genere, sessisti e omofobi. Inoltre molti dei progetti virtuosi portati avanti all’interno delle scuole dipendono da finanziamenti esterni, oppure sono “spot”, e non sono inseriti nei programmi scolastici.
I libri di testo sono spesso stereotipati, poco attenti alle differenze di genere, di etnia e di orientamento e in essi si trova la riproduzione di una società patriarcale e sessista, nonostante l’introduzione del codice POLITE (Pari Opportunità nei LIbri di TEsto) stia apportando cambiamenti significativi.
Inoltre è fenomeno piuttosto diffuso il contrasto all’educazione affettiva e sessuale e l’obiezione di coscienza alla partecipazione di alunn* e studenti ai programmi di educazione affettiva, sessuale e alle differenze.
I media contribuiscono in maniera essenziale alla nostra rappresentazione della realtà, dunque in un certo senso a crearla. Dei media che rappresentano ripetutamente degli stereotipi faranno sì che quelli stereotipi continuino a vivere e anzi si rafforzino.
I media italiani oggi contengono una serie di messaggi ricorrenti che, soprattutto sui più giovani, possono avere effetti devastanti: la donna viene rappresentata attraverso un unico modello, che prevede l’oggettivazione del corpo femminile. Vi è una rappresentazione stereotipata della comunità LGBTIQ e un linguaggio non inclusivo rispetto al genere e all’orientamento. Infine una rappresentazione distorta della violenza. Il tutto amplificato da uno scarso controllo sui contenuti trasmessi a livello mediatico.
Un’opera fondamentale è diffondere la media education nelle scuole, creando così soprattutto nei più giovani la consapevolezza necessaria per comprendere i messaggi (soprattutto non verbali) dei media e non esserne solo fruitori passivi.
Auspichiamo che nel 2040 sarà avvenuto un radicale cambiamento culturale ed educativo, volto al superamento di una mentalità ancora oggi ancorata a ruoli legati al sesso e all’identità sessuale. Vi sarà un mutamento radicale in campo educativo, un cambiamento che riguarda sì la scuola, ma anche la famiglia e la comunità.
Nell’Italia del 2040 le persone saranno in grado di guardarsi l’un l’altra a prescindere da pregiudizi e discriminazione. Potremo promuovere reali azioni di pari opportunità; uscire da ruoli stereotipati e da un mentalità che vede nell’altr* una minaccia qualora esca dagli schemi. Avremo combattuto in modo radicale il fenomeno della violenza di genere, di stampo trans-omofobico ma anche razzista.
Il “punto zero” di tutto ciò dovrà essere l’introduzione un modello educativo paritario che ponga l’attenzione a non veicolare stereotipi, fin dalle scuole d’infanzia. E’ necessario introdurre una formazione specifica per i docenti – uomini e donne – che promuova realmente più equi modelli educativi e permetta di superare gli stereotipi sessisti che oggi limitano fortemente le scelte dei ragazzi e delle ragazze verso mete tradizionali. Saranno predisposti percorsi di orientamento di genere volti ad incoraggiare la diversificazione delle scelte formative e professionali di entrambi i sessi, rendendole il più possibile autentiche, ancorate a reali passioni e interessi, anziché ad un dover-essere socialmente imposto.
Nel 2040, anche all’interno dei media, la rappresentanza sia femminile che maschile promuoverà merito e competenza a prescindere dal sesso; il sistema mediatico conoscerà e utilizzerà il linguaggio di genere e riuscirà a rappresentare in maniera realistica e non stereotipata la realtà LGBT*QI.
Sarà realtà il totale superamento delle diseguaglianze nel mondo del lavoro, la piena possibilità per chiunque di accedervi e di determinarsi attraverso la propria professione, nonché il riconoscimento reale dell’importantissimo lavoro di cura. L’autodeterminazione sarà un diritto imprescindibile e non costantemente minato e minacciato da movimenti e obiettori di coscienza.
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