“La Salute è riconosciuta come il naturale percorso di conoscenza e consapevolezza di ciascuno di noi in relazione alla propria comunità e all’ambiente in cui viviamo. Abbiamo attivato centri di cultura e supporto alla Salute locali e partecipati dove possiamo informarci, praticare attività e incontrare i professionisti scelti dalla stessa comunità.”
Hanno contribuito: Rossana Becarelli – Policlinico di Torino | Annalisa Jannone – Italia che Cambia | Massimo Mangialavori – Omeopata | Ekaterina Motta – Metodo alla Salute | Valerio Pignatta – Macro Edizioni | Michel Cardito – Rete sostenibilità e salute Ha facilitato: Annalisa Jannone
Spesso sembriamo interrogarci sul senso della “salute” solo sulla spinta del suo venir meno. Sembriamo non avere coscienza della salute nelle sue espressioni di “intero, integrità” come la sua radice sanscrita “sarvas” sta a ricordare, né ci sentiamo capaci di quel “sentire” e “sentirci” innati in noi ma decisamente poco considerati dalla scienza e dalla medicina ufficiale. La salute “ufficiale” è l’assenza di malattie: un concetto definito per contrapposizione che si porta dietro un bagaglio notevole di ansie e paure.
Ci sentiamo frammentati, incapaci di trasformare il nostro vivere in espressione di intero, integro, originario, di coniugare fra loro il razionale, l’emotivo, il corporeo, lo spirituale, l’esistenziale. Questa frammentazione interna si traduce in una frammentazione sociale, nella disgregazione della comunità. Dunque, da dove cominciare? Prima di analizzare, dati alla mano, la situazione della salute nel nostro paese è necessario fare una riflessione più profonda sul concetto stesso di salute per capire come questo concetto sia cambiato nei secoli fino a divenire espressione della società contemporanea.
Innanzitutto possiamo provare a partire dall’etimologia delle parole, cercare il futuro nelle origini, per resuscitare (inteso nella doppia accezione di “suscitare nuovamente” e “ridare vita”) sensazioni e significati. Un’etimologia che potremmo definire “postuma”, che riconosca la necessità di far morire i concetti nella loro accezione attuale per dar loro una nuova vita, più vicina a quella originale. L’arcaico può dunque coincidere con un “dopo di noi” capace di restituire quelle sfumature di significato che il presente non riesce del tutto a legittimare.
Ora, se far parlare le origini delle parole forse non ci aiuta a capire cosa è un bene o un male rispetto alla tutela della salute, sicuramente ci rende evidente quanto un concetto sia rimasto fedele o si sia distaccato dalle proprie origini. L’etimologia di “salute”, come già accennato, viene dal sanscrito “sarvas” che significa “intero, integro”. Abbiamo dunque a che fare con un concetto di salute presanitario, espressione di una coerenza interiore che riflette un equilibrio e un’armonia fra le parti, che considera l’uomo come specchio della natura e del naturale a cui tornare. Ciò è collegabile ad un tempo più naturale e ciclico, alla lentezza, al concetto di ascoltarsi, fare vuoto senza avere paura del vuoto. Svuotarsi di un vivere consumistico, anche nei confronti del tempo.
Dunque l’etimologia di salute ci indirizza verso una vecchia-nuova cultura e “coltura” della salute che ci aiuta a naturalizzare ciò che forse abbiamo troppo a lungo delegato all’esterno e ci mette di fronte a importanti quesiti: quanto la malattia e i sintomi, il dolore e le sofferenze, il “disagio diffuso” (così definito dall’epistemologo Mariano Loiacono) e il malessere sono anche rappresentazione di un altro e un oltre rispetto alla “curomania” medica? Quanto e quando un problema può essere considerato come un’occasione per un percorso evolutivo personale? E cosa accade quando non si ha la possibilità di darsi un tempo perché presi dalla fretta di darsi una soluzione?
Il concetto di tempo è centrale nella definizione che vogliamo dare di salute. Un tempo più femminile, più vicino ad una visione ciclica della vita, che permetta anche al dolore di essere accettato nel suo ciclo fisiologico, elaborato, compreso nelle sue concause (tanto esterne quanto interne-emotive e relazionali) e non essere investito solo “dall’abito del male”, la cosiddetta “malattia”.
Tutto ciò ci porta a contemplare la salute da un punto di vista antropologico, dunque a tutelarla nella sua complessità enorme, che va al di là della persona e comprende anche il suo ambiente. Ciascun ambiente, con i diversi modus-vivendi ad esso connaturati, traccia anche una geografia della salute che evidenzia come in Italia, da regione a regione, si riscontrino diversi fattori che danno o non danno salute. Da questo si può evincere che la salute si muove a partire da un tessuto storico-culturale che diventa distintivo. Per tale ragione “desanitarizzare” i problemi antropologici ci aiuta a collegare la salute ad altri fattori (quali la personalità) e ad un contesto interno-interiore quanto esterno-esteriore. E’ il contesto di senso, del simbolico socioculturale che fa della salute un problema o un’opportunità. Ad esempio, il provare dolore fisico, il senso di morte, la morte stessa: quante modalità sono rimaste per condividere la sofferenza? I riti in origine naturalizzavano la sofferenza condividendola, significandola, mettendola “a conoscenza” per far prendere coscienza. Attraverso i riti la morte aveva la sua salute e anche il dolore poteva avere il significato trasformativo di condurre alla salute stessa. Anche la morte ha una sua salute.
Ritornare responsabili della propria vita attraverso una gestione responsabile della salute, che vede nella salute non una risposta alla malattia ma a se stessi, alle proprie intime verità e al personale modo di dirsele, per condividerle in una più rassicurante socialità. Stare in salute è frutto di una scelta individuale e non di un sapere passivo, eterodiretto; è un contemplare una natura alternativa agli approcci tradizionali, è darsi la possibilità di conoscere più punti di vista e metodi nel rispetto della propria soggettività e del modo originale che ognuno ha di riconoscere le risorse dentro di sé, per tornare a vivere in salute.
Quanto il cosiddetto paziente è pronto a recepire un messaggio diverso rispetto alle versioni ufficiali? Quanto i medici, le istituzioni, i cittadini sono attrezzati e pronti ad accettare un’ottica rivolta alla complessità? Di certo la libertà di scelta terapeutica non esiste se non si hanno i mezzi per scegliere. E allora come attrezzarci? La libertà è sia il desiderio di conoscere “altro”, sia il coraggio di svuotarsi dalle dicotomie e accettare la complessità degli intrecci (cum-plècto), la natura destabilizzante quanto vitale all’inizio di ogni cambiamento che se raccolto con fiducia è già espressione di evoluzione.
La salute in Italia è oggi teatro di profondi cambiamenti e sconvolgimenti intestini, solo in parte visibili dall’esterno. Da un lato si assiste al declino del modello di sanità pubblica tradizionale, affossato dalla mancanza di finanziamenti (andamento collocabile in un più ampio arretramento del settore pubblico a favore del privato). Dall’altro, complice la crisi del modello di salute “ospedaliero” sul quale la sanità pubblica si è appiattita, si registra la crescita di approcci alternativi alla salute. Prima di analizzare più a fondo queste tendenze, è il caso di fare un rapido panorama dello stato della salute nel nostro paese, muovendoci a partire dalle categorie tipiche dell’approccio classico (l’unico in grado di fornirci dati e ricerche aggiornate).
Secondo i dati OCSE, l’Italia vanta la mortalità più bassa della UE, una mortalità infantile fra le più basse d’Europa, un’aspettativa di vita (82.3 anni) che è la quinta più alta tra i paesi OCSE. L’andamento recente della mortalità registra una riduzione dei tassi (- 6% fra 2006 e 2012) unito ad un aumento del numero di decessi (+7%) per effetto dell’invecchiamento della popolazione totale. Le principali cause di morte in ordine decrescente sono: ischemia cardiaca, malattie cerebrovascolari, altre malattie del cuore, tumori maligni delle vie respiratorie, demenza e Alzheimer.
Combinando i dati con il genere emerge che le donne muoiono di più per ipertensione, demenze e Alzheimer, mentre gli uomini per tumori ai polmoni. Combinandoli con l’età, nei pochissimi decessi dei bambini prevalgono le malformazioni congenite e le leucemie, negli adolescenti gli incidenti della strada e i suicidi. Nelle fasce di età centrali della vita (25-64 anni), i tumori maligni sono la principale causa di morte, seguiti da morte violenta (uomini) e malattie cardiovascolari (donne).
La maggior parte dei decessi avviene fra i 65 e 84 anni per cardiopatie ischemiche e malattie cerebrovascolari, seguite dai tumori. Oltre gli 85 anni gli incidenti vascolari sono la prima causa di morte fra gli uomini, l’Alzheimer fra le donne.
La spesa sanitaria pro capite è molto contenuta ($ 3.027 in confronto a $ 4.650 della Germania, $ 4.593 dell’Austria, $ 4.121 della Francia). Bassa anche la spesa pro capite per la sanità privata. Il numero dei posti letto ospedalieri è fra i più bassi in Europa (3,4/1000 ab). Molto buono appare il livello delle cure primarie, alto livello delle cure ospedaliere, soddisfacente il livello di gradimento dei pazienti.
Il livello di obesità (10,3% della popolazione) è il più basso in Europa, il numero dei fumatori e dei consumatori di alcool mostra un trend in calo, si rileva un aumento della propensione alla pratica sportiva continuativa.
I tagli in atto alla spesa sanitaria rischiano di pregiudicare già nel breve e medio termine i buoni dati attuali.[2] La già alta differenza di performance sanitaria fra le regioni italiane tende ad aumentare con i tagli alla spesa sanitaria. Risulta scarso l’investimento sulla formazione continua del personale sanitario e insufficienti i meccanismi di promozione del personale su criteri meritocratici. Insufficiente anche l’infrastruttura di collegamento informatico per la condivisione e la disponibilità dei dati sanitari. Inesistente la rilevazione della qualità di esito, della qualità ed efficacia delle cure (anche per singolo operatore). Insufficiente l’investimento delle Regioni sulle politiche di governance della sanità. Si registra inoltre un continuo decremento del personale sanitario e un conseguente alto livello di disagio psico-fisico fra gli addetti (sindrome del burn out).[3]
La modifica del Tit. V della Costituzione, che affida alle Regioni i poteri in merito alla gestione della sanità, ha creato vistose disparità di trattamento fra i cittadini secondo la regione geografica di appartenenza. I prossimi passaggi legislativi dell’attuale Governo Renzi, tesi a omogeneizzare il ruolo delle Regioni ricentralizzando in pare i poteri in materia sanitaria, tuttavia, non paiono garantire una inversione di questa tendenza. Come ha recentemente affermato Nino Cartabellotta, Presidente del Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze (Gimbe), “Con l’attuale formulazione dell’articolo 117 del Titolo V – approvata in prima lettura alla Camera – lo Stato non recupera affatto il diritto a esercitare i poteri sostitutivi nei confronti delle Regioni inadempienti nell’attuazione dei Lea, sia perché la legislazione esclusiva riguarda solo la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali – ma non quelli sanitari – che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, sia perché la clausola di salvaguardia non include la tutela della salute. Se l’articolo 32 affida alla Repubblica la tutela del diritto fondamentale alla salute, ecco perché il conflitto istituzionale Stato-Regioni, non ha solo paralizzato il Patto per la salute, ma ha reso sempre più evanescente il concetto di Repubblica, a dispetto delle rassicuranti parole pronunciate dal Presidente Mattarella il giorno del suo insediamento.”[4]
Nella descrizione della situazione attuale della salute della popolazione non manca di sorprendere che il quadro si disegni a partire dai dati “negativi”: andamento della mortalità, incidenza e prevalenza delle patologie, tassi di ospedalizzazione, disponibilità di posti letto, numero di addetti in sanità totale e per professioni, campagne di prevenzione (screenings).
Quando parliamo di “salute”, la rappresentazione collettiva corrente ci presenta immediatamente la “perdita di salute” e, nella migliore delle ipotesi, la capacità di farvi fronte in termini “riparativi”. Ancor più sorprendente è che il più grande indicatore di “guadagno di salute” – l’allungamento della vita umana che in Occidente è quasi raddoppiata negli ultimi cinquanta anni – non sia stato ancora mai messo in relazione con l’aumento degli stati depressivi, degli stati d’ansia e di panico (come mostra l’incremento di consumi di psicofarmaci minori e maggiori e di ansiolitici). Vivere più a lungo per il momento non pare abbia reso gli uomini più felici. Se la condizione oggettiva di una vita più lunga va di pari passo con un grave peggioramento della salute e della sua percezione, con una progressiva perdita di capacità e autosufficienza occorre porsi qualche domanda: abbiamo davvero un’idea, un’immagine, o una prova oggettiva (“evidenza scientifica” per usare un’espressione rassicurante) di cosa sia la salute e di come possa essere mantenuta e migliorata.
Questa rappresentazione in negativo alimenta in ciascuno di noi una paura – esplicita o recondita – in merito al proprio stato di salute e determina inoltre una “paralisi ideativa” rispetto alla possibilità di costruire nonché di godere della felicità. Quanto non abbiamo i mezzi per familiarizzare… anche con la paura?
Poiché oggi è ormai noto quanto la paura (ovvero un’aspettativa negativa rispetto al proprio stato o alla performance) peggiori radicalmente le proprie “chanches” di farcela (PNEI)[6], dobbiamo riforgiare interamente la rappresentazione collettiva di salute e sostenere quelli che identificheremo essere i veri determinanti della salute.
Parlare di salute significa dunque rovesciare upside-down l’immagine che abbiamo dentro di noi e che è diventata purtroppo parte integrante del nostro “stare al mondo”.
Il primo aspetto che emerge nella rappresentazione attuale di “Salute” è l’atteggiamento passivo e deresponsabilizzante di delega che emerge sia nelle cause che nel trattamento della malattia.
Quanto alle cause (eziopatogenesi), il modello corrente di medicina propugna l’idea di un agente patogeno quasi sempre esterno all’individuo (virus, batteri, agenti tossici, nocivi, cibo, radiazioni, aria che respiriamo, qualità delle relazioni, etc.). Se è interno, allora non si sa bene cosa sia né perché lo abbiamo prodotto (malattie idiopatiche ovvero malattie autoimmuni).
Si carica sull’individuo un pesante senso di colpa ma non si pone mai l’accento sull’integrale responsabilità di ognuno rispetto alla propria vita in quanto ciascuno determina l’andamento del proprio destino, nel male ma soprattutto nel bene.
Il secondo aspetto della delega, dopo quello della causa, è di aver affidato ogni rimedio e riparazione del danno biologico a qualcun altro diverso da noi stessi, spesso rifugiandoci nell’alibi dell’expertise.
La medicina occidentale, facendo leva sull’ideologia (pseudo)scientifica, si è appropriata quasi di ogni ambito e competenza della vita, medicalizzando i settori che prima appartenevano ai singoli e alla comunità (parto, morte, disagio psichico e sociale, uso delle erbe officinali, dei rimedi popolari); poco alla volta ha sottratto all’individuo ogni potere /responsabilità, e anche fiducia nella sapienza del corpo, nelle sue capacità di auto-guarigione. È riuscita così ad apparire sempre più onnipotente, suscitando una serie di (eccessive) aspettative nei curati e di immanenti frustrazioni nei curanti.
Un nuovo progetto di salute globale, individuale e di comunità, dovrà dunque integrare i concetti di “conoscenza” interiore ed esteriore e “responsabilità” verso di sé e verso tutto il complesso ambiente-ecosistema-comunità degli esseri senzienti. Per raggiungere questa finalità occorre procedere a una “maieutica della etimologia postuma”, cioè del dopo, dell’oltre, del futuro, per intrecciare l’oggi alle radici e al futuro. Si vuole promuovere un percorso dialettico di scoperta del sè attraverso il riconoscimento dei riflessi del proprio intimo passato che ridefinisce simultaneamente il proprio futuro. Ripartendo dalla responsabilità e dalle potenzialità individuali, oggi latenti e sopite, possiamo trarre da altri sistemi di salute le condizioni e perfino gli strumenti per mantenerci sani e quindi anche felici oppure felici e quindi anche sani?
L’Occidente ha un pensiero visivo. Diversamente, il vuoto in Oriente ha più nomi…
Corpo, mente e spirito, dissociati dalla medicina occidentale, vanno riunificati e integrati con l’ambiente esterno, perché noi siamo parte di una rete coerente che include ogni singolo componente dell’ecosistema in senso globale. Il corpo ha una profonda saggezza interiore che ci permette la guarigione e che soprattutto fa emergere attraverso il sintomo la manifestazione di un disagio eluso e trascurato o rimosso.
In noi agiscono continuamente forze vitali potenti che vanno ri/conosciute e potenziate: le sapienze e i saperi delle medicine orientali e tradizionali sanno come agire per sostenere queste forze attraverso alimentazione, movimento, spiritualità. Così pure ci sono in noi principi ugualmente attivi che contrastano la nostra aspirazione alla salute/felicità. La medicina tibetana riconosce in tre principali determinanti interiori la causa di ogni infelicità e quindi di ogni malattia [7]:
Questi tre motori sempre accesi ostano al raggiungimento/conservazione della nostra salute (oltre che della nostra felicità). Conoscersi è premessa di salute, felicità, evoluzione: questo concetto appartiene ed è alla base di ogni sistema di cura (compreso quello occidentale). I modi per “conoscerci” e “riconoscerci” vanno dall’introspezione all’occidentale e, nella sua migliore espressione, non pregiudiziale (psicologia, psicologia del profondo, autocoscienza, etc.), alle neuroscienze che stanno rivoluzionando il paradigma scientifico svelandoci sempre meglio i complessi e sottili meccanismi che modellano il nostro cervello ma che ancora non incuriosiscono abbastanza l’autoreferenziale medicina accademica.
Ricchissime e potenti sono anche le tecniche di consapevolezza sviluppate dalle medicine orientali:
NON È IMPORTANTE CIÒ CHE SI FA MA “COME” LO SI FA
Legami affettivi o percorsi lavorativi “sbagliati” possono minare la salute, ma quando siano vissuti consapevolmente contengono in se’ istruzioni importanti per il riconoscimento della propria felicità. La grande “disciplina” delle arti marziali orientali non è tesa all’ottimizzazione performativa, ma all’annullamento delle insidie del mentale. Tutte le discipline mistiche, ascetiche o cosiddette “mente-corpo” come anche quelle di addestramento alla meditazione, si basano su una pratica tecnica che allena a tenere saldamente sotto controllo la mente e le sue pericolose insidie.
Il messaggio che vorremmo dare è quello del cambio di paradigma. Le persone e anche i “professionisti” dovrebbero uscire dal loro ruolo preconfezionato previsto dal sistema “sanitario” attuale. Se non impariamo a riconoscere di nuovo l’interazione che unisce i viventi (tutte le specie), il senso della benedizione, dell’eguaglianza originaria ecc. non ne usciamo. In pratica suggeriremmo un non-fare (o meglio un taoistico wu wei) a livello concreto (nell’ambito sanità), un boicottare piuttosto che un riformare, un ricreare da un’altra parte che non un ricostruire dall’interno di ciò che c’è. A livello di salute c’è invece bisogno di una “conversione”, un rivolgimento totale. Forse questo potrebbe permettere di sganciarsi un po’ dalla paura (che riempie gli studi medici anche a sproposito), dall’abuso di cibo (industriale che crea malattia), dalle malattie dell’anima (rabbia, frustrazione, ecc. che poi si riversano sul corpo…).
Proponiamo per il 2040 un uomo/donna nuovi. La salute è anche una sorta di risultato dell’innamoramento della propria vita, un appuntamento con la vita. Proporre alle persone di iniziare un percorso di salute (come prima azione da domani) facendo quello che amano fare ossia il loro o uno dei loro piccoli o grandi sogni che coltivano da tempo e che però sino ad ora non hanno avuto forza/coraggio di mettere in moto.
Chi ha problemi di salute seri e ben presenti ha forse l’esigenza nell’immediato di affidarsi con fiducia ad un professionista della salute che lo porti per mano a conoscersi meglio, ad approfondire le proprie intime e concrete necessità per avere a disposizione la più ampia gamma possibile di percorsi da intraprendere.
Dalla Carta di Bologna:
“La salute si fonda sul mantenimento del naturale stato fisiologico di benessere e sulla coscienza e il potenziamento delle capacità di di autoguarigione piuttosto che non (come avviene oggi con la sanità) sulla riparazione dall’esterno di un guasto che si è prodotto nell’organismo biologico.
La salute è il risultato di un armonioso sviluppo dell’individuo all’interno della sua comunità di appartenenza a partire dalla tutela dell’ambiente e della Natura, da una agricoltura naturale che produca materie prime sane e di qualità, da un’economia civile e non predatoria, da relazioni umane solidali, da ritmi di lavoro sostenibili e non schiavistici per massimizzare i profitti.”
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