Visione 2040 Lavoro

“Lavoriamo di meno e facciamo lavori più soddisfacenti. In molti autoproducono parte di ciò che gli serve per vivere e sono aumentate le economie informali e di comunità. Non esiste più il lavoro fine a se stesso, inutile o tantomeno dannoso: oggi il lavoro si basa su utilità sociale, relazioni, realizzazione personale, dignità ed etica.


Hanno contribuito: Alessandro Cascini – Movimento Decrescita Felice | Daniele Forte – Etinomia | Barbara Gallizioli – La terza Piuma | Katia Prati – Ecovillaggio Tempo di Vivere | Stefania Rossini – blogger e scrittrice “scollocata”| Nicola Savio – blogger “scollocato”. Ha facilitato: Andrea Degl’Innocenti


SITUAZIONE ATTUALE

Il lavoro è da sempre al centro del dibattito politico e sociale nel nostro paese. Scatena polemiche, fa alzare immediate levate di scudi, riempie le piazze. Tuttavia manca all’interno del dibattito una riflessione su cosa sia il lavoro: un diritto o una maledizione? Qualcosa che si fa per passione e vocazione oppure uno strumento che ci fornisce il substrato economico su cui coltivare le nostre passioni? E ancora, lavoriamo troppo o troppo poco? Si lavora per vivere o si vive per lavorare? Il lavoro è soltanto quello retribuito?

UN PO’ DI DATI

La situazione del lavoro in Italia può essere esaminata da vari punti di vista. Analizzarla dal punto di vista classico, basato su un approccio strumentale e quantitativo al lavoro, per quanto ci porti per molti aspetti lontano dalla visione di questo tavolo di lavoro, ci fornisce comunque una base di dati oggettiva da cui muovere le nostre riflessioni.

Oggi, chi lavora, lavora di più e guadagna meno. Il divario tra le differenti fasce lavorative nel nostro paese è aumentato a dismisura: secondo il rapporto redatto dall’Osservatorio di JobPricing chi occupa una posizione dirigenziale guadagna oltre quattro volte un operaio, oltre tre volte un impiegato e due volte un quadro. Il divario si allarga ulteriormente tenendo conto del “multiplo retributivo“, cioè l’indicatore che mette a confronto la fascia più bassa di stipendi operai con quella più alta per le retribuzioni degli amministratori delegati: si passa da 18mila a 210mila euro, con una differenza pari appunto a 11,2 volte.

Le pensioni continuano ad essere riformate di anno in anno: dal 2016 si andrà in pensione a 66 anni e 7 mesi. Il sistema pensionistico non riesce più a reggere i colpi incrociati di un’aspettativa di vita aumentata, un minor numero di contribuenti e un quadro generale di politiche di austerità.

E che dire della disoccupazione? In Italia nel 2015 oscilla fra il 12 e il 13% (nel 2008 era fra il 5 e il 6%). Sono quasi 3,5 milioni i disoccupati in Italia: molti di essi vivono in condizioni drammatiche e al di sotto della soglia di povertà.La disoccupazione giovanile, poi, è secondo l’Ocse al 47%, dato che colloca l’Italia al penultimo posto in Europa. Il tasso di occupazione tra i 15 e i 29 anni è sceso infatti di quasi 12 punti percentuali tra il 2007 e il 2013, passando dal 64,33 al 52,79 per cento, il secondo peggior dato tra i Paesi Ocse, dietro ad Atene(48,49 per cento).. Il dato interessante riguardo a quest’ultima è quello relativo ai cosiddetti Neet (not in Education, Employment or Training), ovvero quei giovani che non sembrano interessati a cercare lavoro, né a studiare o formarsi. In Italia i giovani ‘Neet’, non occupati né iscritti a scuola o in apprendistato, sono il 26 per cento degli under 30, quarto dato più elevato tra i Paesi Ocse. Il dato è indice di un disagio e di una sfiducia altissimi.

In generale il lavoro, come altri aspetti della vita sociale, è andato incontro ad un’erosione dei diritti conquistati nel corso degli anni nel nome delle politiche liberiste basate sulla flessibilità.

LA CRISI DI UN MODELLO

Di fronte a questi dati una reazione piuttosto comune è quella di pretendere, attraverso un’azione politica, una riappropriazione dei diritti andati perduti. Tuttavia ad un’analisi più approfondita una pretesa del genere appare irrealizzabile e persino controproducente, in quanto rimane legata ad un modello di “lavoro come diritto”. Tale concetto nasce a braccetto con quello di “lavoro salariato”, sviluppatosi nelle fabbriche Fordiste negli Stati Uniti per garantire agli operai di poter comprare le macchine che costruivano. Prima di allora l’idea di retribuire il lavoro non esisteva: ciò che si retribuiva era la merce, il risultato del lavoro, materiale o immateriale che fosse. Dunque a ben vedere, il modello su cui si basa il “lavoro come diritto” è un tipo di società in cui i cittadini devono lavorare e consumare il più possibile massimizzando la circolazione di denaro, con lo Stato che redistribuisce in parte le ricchezze attraverso un sistema di tassazione che reinveste in welfare e i servizi.

In questo modello il lavoro ha un valore a prescindere in quanto è lo strumento che consente all’individuo di guadagnare a sufficienza per garantire la sua sussistenza attraverso l’acquisto e il consumo di beni prodotti da altri. Dunque è pressoché ininfluente se ciò che facciamo ci appassiona o ci disgusta, se arricchisce la nostra comunità o la deruba, se ci fa ammalare, ci rende depressi o stressati. Il lavoro ha in sé un valore incontestabile.

Questo modello, pur rimanendo concettualmente invariato fino ad oggi, è entrato in profonda crisi man mano che il comparto pubblico ha diminuito la propria presenza in una società colonizzata da politiche di stampo liberista. Oggi il lavoro non è più, nei fatti, un diritto, anzi è assimilato ad una merce ed in tal senso lasciato alla regolamentazione del mercato. E assieme al lavoro, tutto il modello sociale su cui poggiava il “lavoro come diritto” è andato in crisi: i servizi al cittadino sono spesso scadenti, il sistema previdenziale barcolla. Solo le tasse permangono (e persino aumentano per far fronte alla diminuzione dei contrinuenti), ma se prima finanziavano welfare e servizi oggi finiscono nei circuiti finanziari, per ripagare il debito pubblico dello Stato e delle amministrazioni.

UN CONCETTO DA RIDEFINIRE

Dunque cosa è oggi il lavoro? Spesso con il termine lavoro intendiamo quello che più precisamente andrebbe chiamato occupazione, ovvero il lavoro retribuito. Lavoro è in realtà un concetto molto più ampio, che include l’insieme di attività svolte non solo per una remunerazione ma anche per un servizio (sociale, alla famiglia, alle persone, all’ambiente). Questo fraintendimento di fondo crea una serie di incongruenze. Nascono così, ad esempio, i concetti di “volontariato” e “hobby”, ovvero impiegare il tempo residuo in ciò che amiano, che riteniamo utile per la comunità. La retorica del “lavoro in quanto tale” è talmente pervasiva che quando si fa di una passione un lavoro tendiamo a considerare “inadeguato” farsi pagare.

Il lavoro in senso classico è anche qualcosa che si fa in determinati limiti di tempo (8 ore al giorno) e di spazio (l’ufficio). Ci sentiamo riconosciuti “socialmente” solo se ci si sposta da casa per recarci in una struttura chiusa riconosciuta come posto di lavoro, non importa se si spende di più in trasporto, mantenimento dell’ufficio ecc.

Esso è infine qualcosa di talmente preponderante nella nostra vita che spesso nel presentarci diciamo: “sono un avvocato, sono un medico, sono un insegnante”, piuttosto che “faccio il medico, ecc”; come se la nostra occupazione fosse ciò che più ci caratterizza, un continuo della nostra persona.

CAMBIARE E’ DIFFICILE

E’ evidente che questo sistema – pur con tutte le sue contraddizioni intrinseche – può reggere finché il lavoro resta un diritto per tutti. Nel momento in cui questo diritto cessa di esistere, le ripercussioni psicologiche, sociali, economiche sono enormi. In questo contesto si assiste al cosiddetto “ricatto occupazionale”, una sorta di “guerra tra poveri”, in cui chi non ha lavoro compete (al ribasso) per accedere al diritto negato oppure, se intende aprire una sua attività, deve affrontare difficoltà economiche e burocratiche spesso scoraggianti, mentre chi un lavoro ce l’ha è disposto a sottostare a condizioni di sfruttamento pur di non perdere il posto.

La situazione è resa spesso più drammatica dal fatto che la rete di sostegno a situazioni di emergenza privata e pubblica non riesce più a contenere il fenomeno, complice la mancanza di collaborazione tra i soggetti coinvolti (comuni, associazioni, fondazioni, istituzioni religiose).

COWORKING, FABLAB, AUTOPRODUZIONE

Nonostante la crisi del modello del “lavoro come diritto” permane un’abitudine diffusa a vedere questo tipo di lavoro come unica possibilità, e una ricerca continua di assistenzialismo. In una società sempre più fluida si cercano ancoraggi e si percepisce il cambiamento come fonte di insicurezza. Tuttavia va registrata una netta crescita quantitativa e qualitativa delle esperienze che mettono in discussione tale modello e propongono alternative percorribili. La diffusione di spazi di co-working testimonia lo sviluppo di un approccio diverso al lavoro, basato sulle relazioni e la condivisione. A questi spazio spesso sono associati Fablab e Makerspace, laboratori di artigianato digitale in cui si realizzano oggetti attraverso nuove tecnologie come le stampanti 3D. Dal censimento realizzato dalla Fondazione Make in Italy Cdb risultano oltre 70 laboratori, che coinvolgono più di 3000 utenti: l’Italia è la seconda nazione al mondo per numero di Laboratori di fabbricazione digitale. In netta crescita anche il fenomeno dell’autoproduzione, soprattutto alimentare.

In definitiva la situazione del lavoro in Italia resta drammatica per quell’ampia fetta di popolazione ancorata ad un concetto classico. Il tramonto del modello socio-economico che aveva partorito tale concetto rischia di causare dolore e sofferenza. Tuttavia si intrave, dalle tendenze in atto, un cambiamento di approccio al lavoro, per ora confinato in delle nicchie ma con ampie possibilità di estendersi.


VISIONE 2040

  1. Utilità sociale: dunque è lavoro ciò che la società o la propria comunità di riferimento ritiene utile, non lo è ciò che è inutile o addirittura dannoso, inquinante, nocivo;
  2. Relazioni: il lavoro è tale se si basa sulle relazioni interpersonali, vero capitale del lavoro del futuro.
  3. Realizzazione personale: il lavoro sarà uno strumento di realizzazione personale, non più un semplice mezzo.
  4. Dignità: l’attuale “diritto al lavoro” muterà in un ben più ampio “diritto alla dignità”, intesa in riferimento alla qualità della vita, in una sua definizione “minima”, come base di partenza per superare l’angoscia della sopravvivenza [Riflessione sulla dignità, vedi azioni]
  5. Etica: il lavoro in tutte le sue forme avverrà nel rispetto dell’etica condivisa

Il lavoro dunque non sarà misurato e definito in base alla retribuzione, bensì in base ai criteri sopra elencati. Complice una complessiva riorganizzazione della società su più piccola scala, si assisterà al proliferare di lavori informali, agli scambi, al baratto, all’autoproduzione, si perderà la distinzione fra lavoro retribuito e non retribuito: potranno esistere lavori non retribuiti ma riconosciuti tali in quanto portatori di ricchezza e valore alla società o alla comunità di riferimento (per garantire una sostenibilità a questo genere di lavoro non retribuito uno strumento utile potrà essere il reddito di esistenza, si veda al paragrafo dedicato).

MENO LAVORO, PIU’ UTILE

Verranno messi al primo posto i bisogni reali della popolazione, per arrivare al conseguimento del benessere. Il tutto bilanciato da una forma di economia di mercato che sia regolamentata fermamente per impedire che assuma l’attuale preponderanza e condizioni l’apparato politico, rendendo possibile, alla luce del sole, forme di sfruttamento e prevaricazione tra cittadini.

Lavoreremo meno dedicando più tempo alle relazioni e a noi stessi e in generale le ore lavorative saranno distribuite equamente sulla popolazione.A fianco del lavoro online, che proseguirà la sua crescita, si assisterà al rifiorire dei mestieri manuali. Il lavoro sarà l’espressione delle capacità, potenzialità e competenze dell’individuo (o del gruppo di individui che perseguono uno specifico obbiettivo). Potrà anche non essere individuabile con una professione specifica.

MECCANISMI DI REDISTRIBUZIONE E SOLIDARIETA’

Il declino del modello del lavoro come diritto avviene nell’ambito più ampio del declino di un sistema in cui era lo stato a garantire i diritti al cittadino. Dunque come saranno garantiti i diritti degli esseri umani degli anni Quaranta del nuovo millennio? Sicuramente esisteranno reti di scambio e supporto dal basso, in cui ognuno (su piccola scala di comunità, paese, quartiere) metterà a disposizione dell’altro le proprie competenze mettendo in atto un mutuo supporto nei bisogni fisici, pratici ed emotivi.

A fianco a questa rete di solidarietà “spontanea”, è necessario immaginare anche forme di aiuto sociale e redistribuzione più organizzate. Possiamo fare riferimento a due differenti modelli: uno pubblico, sullo stile del modello sociale inglese e tedesco, con lo stato che continua ad essere l’organismo che ha il compito di redistribuire le ricchezze e livellare le disparità sociali; l’altro privato, sul modello delle Società del mutuo soccorso italiane dell’Ottocento e primi del Novecento, fondate sulla mutualità, sulla solidarietà e sullo stretto legame col territorio in cui per sopperire alle carenze dello stato sociale erano i cittadini stessi a mettere in comune parte dei loro averi.

Ovviamente le due opzioni dipendono in gran parte dalla configurazione che la società assumerà da qui al 2040 e dal permanere o meno dello Stato come ente regolatore.

REDDITO DI ESISTENZA

Altro strumento utile è il reddito di esistenza. Tale strumento potrebbe essere una base di partenza per garantire  la dignità di ogni essere umano e superare l’angoscia della sopravvivenza. Tale reddito potrebbe essere erogato secondo due diverse modalità:

A margine di questo reddito garantito a tutti resta la possibilità della libera azione economica (purché etica e sostenibile) per chi non si accontenta o per svolgere lavori meno ambiti. Esistono molti modelli di reddito di esistenza (chiamato anche, con lievi sfumature, reddito di cittadinanza), e anche in questo caso resta aperta la domanda su chi erogherà questo reddito di esistenza: lo Stato, il comune, la comunità stessa?

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RIFERIMENTI

BIBLIOGRAFIA
SITOGRAFIA

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