Visione 2040 Ambiente

“È in atto un profondo mutamento culturale: stiamo uscendo dalla cultura antropocentrica per ritrovare il nostro posto all’interno degli ecosistemi e non più al di sopra di essi. L’Italia è un paese a consumo di suolo zero e una rete di aree protette tutela il Mediterraneo dallo sfruttamento dovuto a pesca, trivellazioni, ecc.”


Hanno contribuito: Guido Della Casa – Ecologia Profonda | Domenico Finiguerra – Salviamo il Paesaggio | Serena Maso – Greenpeace | Paolo Pileri – Politecnico di Milano e Progetto VENTO | Chiara Pirovano – WWF. Hanno facilitato: Paolo Cignini e Andrea Degl’Innocenti


SITUAZIONE ATTUALE

Quando parliamo di ambiente, di terra, di ecosistemi, stiamo parlando dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo e con cui ci laviamo, innaffiamo i terreni, del cibo che mangiamo. Tutto ciò che ci circonda è ambiente, lo siamo noi stessi, lo sono persino, in un certo senso, la plastica e i derivati del petrolio, i chip di un microprocessore e tutto il resto. La retorica che vede l’ambientalista come colui che si preoccupa di salvare gli orsi polari, o il pappagallo della foresta amazzonica – la stessa retorica che confina la questione ambientale ad una nicchia al di fuori dell’agenda politica del paese – ha segnato il suo tempo. Non è in corso nessuna battaglia per salvare la natura: la natura e il mondo sono ben più antichi del’uomo e sopravviveranno comunque. Piuttosto l’obiettivo è garantire a noi esseri umani – e contestualmente a centinaia di altre specie – la possibilità di continuare a vivere in condizioni buone su questo pianeta.

Vista da questa prospettiva la situazione ambientale in Italia e nel mondo non è delle più rassicuranti. L’impatto antropico sul pianeta ha innumerevoli sfaccettature. La più nota è il “global warming”, riscaldamento globale generato dalle emissioni di gas serra nell’amosfera, ma ve ne sono tantissimi altri. Per ovvie ragioni nel corso di questo documento spazieremo da questioni che riguardano il nostro paese a questioni che riguardano il pianeta intero: l’aria, i fiumi, le foreste infatti non hanno confini e avrebbe ben poco senso fare un’analisi delle problematiche italiane senza tener conto di questioni e trend globali.

UN MONDO SULL’ORLO DEL COLLASSO

Come prima riflessione possiamo affermare che molti degli squilibri e degli scompensi che l’uomo ha causato all’interno degli ecosistemi nascono da una filosofia antropocentrica che vede l’uomo come una figura che sta al di sopra o al di fuori dei cicli naturali. L’uomo moderno tende a vivere sulla terra come se fosse l’abitante (o spesso il padrone) di una casa, piuttosto che come parte di un organismo.

Questo vizio di fondo ha causato e continua a causare non pochi scompensi. Vi è innanzitutto un problema di sovrappopolazione umana: nel 2015 vivono sulla Terra 7,3 miliardi di persone, con un tasso di crescita di 80-90 milioni l’anno. Secondo le stime dell’Onu diventeranno 9 miliardi nel 2040, per poi iniziare una progressiva discesa. Questo dato, se combinato con la diffusione di stili di vita non sostenibili è all’origine di problematiche su larga scala. Fra queste possiamo ricordare la perdita di biodiversità (si estinguono almeno 30 specie al giorno e secondo alcuni studi come quello condotto della Stanford University siamo sull’orlo della sesta estinzione di massa), la distruzione delle foreste (nel 2014 secondo i dati  forniti dall’Università del Maryland e da Google e pubblicati dalla piattaforma Global Forest Watch sono spariti dal nostro Pianeta 18 milioni di ettari di foreste vale a dire 180.000 kmq, una superfice pari al doppio del Portogallo e uguale a quella di Paesi come Siria e Cambogia) e di altri ecosistemi (paludi, praterie, ecosistemi acquatici, barriere coralline), l’alterazione dell’atmosfera terrestre, il consumo di territorio (vedi paragrafo dedicato); l’enorme produzione di rifiuti.

Secondo uno studio condotto dalle Nazioni Unite, nella situazione mondiale la maggior parte delle emissioni di CO2 proviene dall’uso dei combustibili fossili (57%) e dalla deforestazione (17%). Deforestazione che aggrava ulteriormente la situazione per la distruzione dei vegetali in grado di assorbire la CO2 e restituire ossigeno con la funzione clorofilliana.

IN ITALIA

Fatte le debite proporzioni, la situazione italiana risente di tutti i fattori sopra elencati, con particolare attenzione ad alcuni punti che nel nostro paese rappresentano delle particolari criticità. L’Italia è il 43esimo Stato al modo per densità di popolazionecon circa 200 ab/Kmq, per un totale di 60 milioni persone. Una valutazione grossolana della densità di popolazione sostenibile dal nostro territorio con un livello di consumi inferiore a quello attuale e un’alimentazione semi-vegetariana porta a un valore di circa 20 milioni di persone. La crescita demografica si è arrestata ma è compensata dall’immigrazione.

A causa della storia urbanistica italiana, fortemente condizionata dalle scelte politiche ed economiche del Paese nel Dopoguerra, le nostre città sono cresciute privilegiando l’automobile ai mezzi pubblici e la crescita del settore delle costruzioni alla tutela dell’ambiente e della qualità spaziale. Oggi ci troviamo di fronte a città in forti difficoltà in termini di qualità dell’aria, di consumi energetici, di gestione dei rifiuti, ma anche e soprattutto di gestione dell’ambiente urbano e delle risorse pubbliche per migliorarlo. Nell’ultimo decennio sono stati condotti vari studi relativi agli indicatori sopra citati – redatti da ISTAT, CRESME, ISPRA, WWF, Legambiente, Siemens – Piepoli, Cittalia, etc.- e tutti mettono in evidenza un forte stato di criticità delle nostre città in termini di sostenibilità urbana. La buona notizia è che qualcosa si sta attivando e, tra le tante fotografie in bianco e nero, stanno cominciando ad emergere foto a colori.

Il consumo di combustibili fossili (soprattutto petrolio e gas naturale) è elevatissimo. Molta energia finisce inoltre sprecata per via della mancata efficientazione degli edifici: le perdite di calore attraverso i tetti, le pareti e le aperture sono enormi, rispetto alle possibilità di contenimento reali. Il consumo energetico negli edifici ad uso civile, per il riscaldamento, raffrescamento e l’acqua calda sanitaria, è pari a 29,0 Mtep (milioni di tonnellate di petrolio equivalente), ovvero oltre il 20% del consumo totale (CNAPPC). I collettori solari termici potrebbero contribuire notevolmente al riscaldamento di ambienti e alla produzione di acqua calda sanitaria ma sono ancora oggi poco utilizzati.

Per quanto riguarda l’alimentazone, anche in Italia si rileva un consumo di carne troppo elevato. E che dire poi della produzione dei rifiuti? Un concetto come quello di rifiuto, inesistente in natura, è diventato per l’uomo contemporaneo uno dei più grossi problemi da risolvere. Nel nostro Paese, anche se negli ultimi anni sono stati fatti dei passi avanti, solo il 30% dei rifiuti viene raccolto e avviato al riciclo, infrangendo le prime tre R e allontanandoci dagli obiettivi fissati a livello comunitario. In Italia le discariche costituiscono ancora la via principale per smaltire i rifiuti, modalità che alimenta affari illeciti e impedisce lo sviluppo di un ciclo virtuoso fondato su riciclaggio e prevenzione oltre ad essere una pericolosa fonte di inquinamento per la salute dei territori, delle persone (Legambiente).

Fenomeni come la caccia (750.000 cacciatori in Italia nel 2007, fenomeno in calo) e la pesca intensiva sono un ulteriore fonte di riduzione della biodiversità. I mari in particolar modo sono ipersfruttati e corrono il gravissimo pericolo di una ripresa su larga scala delle estrazioni di petrolio e gas.

Anche la mobilità presenta gravi problematiche, con una diffusione eccessiva dei mezzi privati e individuali rispetto a sistemi di spostamento pubblici o condivisi. L’Italia con 792,5 veicoli ogni 1000 abitanti detiene infatti, a livello europeo, il tasso di motorizzazione maggiore. Ci sono 130 auto per ogni Kmq di territorio, con una media di 1,2 persone per macchina (il che significa che quotidianamente spostiamo 800 Kg di ferraglia per muovere gli 80 Kg di una persona). Inoltre i normali automezzi a motore a scoppio hanno un rendimento che non supera il 30%. Secondo il Rapporto “Mobilità sostenibile in Italia: indagine sulle principali 50 città“ (elaborato da Euromobility con il Patrocinio del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del Mare), rispetto al 2014, in ben 37 città su 50 si è registrata una riduzione dell’offerta di trasporto pubblico. Dal rapporto emerge un’Italia a due velocità: da un parte il Nord, orientato ad una mobilità sempre più sostenibile, con i servizi di bike sharing e car sharing in crescita in tutte le maggiori città, dall’altra il Sud, con ritardi ed inefficienze ormai croniche soprattutto in relazione alle piste ciclabili e le aree pedonali.

La qualità dell’aria è in netto peggioramento, almeno nei centri urbani. Dal monitoraggio fatto dalla campagna di Legambiente “PM10 ti tengo d’occhio” nel 2014 sono risultati ben 33 su 88 capoluoghi (il 37% di quelli monitorati) in cui almeno una centralina di monitoraggio urbana ha superato il limite di 35 giorni oltre la soglia massima ammissibile per il PM10. Al primo posto Frosinone con 110 giorni di superamento, seguito da Alessandria (85) e al terzo posto a pari merito Torino, Vicenza e Benevento (77). L’Italia rappresenta una delle situazioni più critiche anche a livello europeo, soprattutto per quanto riguarda il PM10, il PM2,5 e l’ozono, come si evince dai dati dell’ultimo “Rapporto sulla Qualità dell’aria 2014” redatto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente. Il nostro è il Paese con il più alto numero di morti premature dovute all’inquinamento da ozono: con circa 3.400 vittime all’anno (dato relativo al 2011) precede la Germania, la Francia e la Spagna. Per quanto riguarda le morti premature dovute alle polveri sottili (PM2,5), nello stesso anno l’Italia si attesta al secondo posto con circa 64.000 vittime, dietro solo alla Germania.

La quantità di verde urbano pro capite nelle città italiane è di circa 94 mq (ISTAT), ed è in crescita negli ultimi anni. Il problema rilevato è nell’uso degli strumenti di pianificazione e gestione del verde urbano da parte delle amministrazioni (meno di un quinto dei comuni ha approvato il Piano del verde, e il 45,7% ha adottato un Regolamento del verde) e nella manutenzione del verde esistente (non sufficienti i fondi messi a disposizione).

Fatta questa panoramica generale vogliamo soffermarci su tre aspetti che rappresentano forse le maggiori criticità attuali nel nostro paese, ma anche ciò su cui si può fare molto fin da ora.

UN PAESAGGIO DA SALVARE

In buona parte del mondo l’economia dell’industrializzazione, dei consumi e della crescita infinita ha indotto una politica di sfruttamento del territorio e delle risorse che non ha messo limite alle trasformazioni dello spazio fisico, né ha composto per esso credibili scenari a medio lungo termine. Questa modalità di trasformazione del territorio ha degradato il paesaggio, ne ha dequalificato il valore, lo ha privatizzato. La concentrazione delle produzioni e della commercializzazione proprie del modello globale, ha ulteriormente incrementato i processi di dismissione e contemporaneamente consumato ulteriore  territorio per l’insediamento di strutture consone ai nuovi modelli produttivi e commerciali. L’insieme di questi fattori ha profondamente modificato i sistemi naturali delle terre emerse ed è divenuto una delle principali cause della perdita di biodiversità, minando processi e funzioni dei sistemi naturali del Pianeta, sottraendo risorse e contribuendo alla riduzione del benessere delle comunità.

Pur trattandosi di un fenomeno che riguarda quasi tutte le aree del pianeta industrializzate e i paesi in via di sviluppo, il consumo di suolo (soil sealing) in Italia ha avuto accelerazioni molto significative, portando il nostro paese a percentuali di occupazione del suolo superiori al tasso medio europeo. Secondo Ispra nel 2015 vengono cementificati 7mq al secondo, 50/60 ettari al giorno. Negli ultimi 50 anni è stata registrata una conversione urbana media del  suolo di quasi 90 ettari al giorno, una urbanizzazione lineare della costa adriatica di quasi 10 km all’anno e già oggi non è possibile tracciare in Italia un cerchio del diametro di 10 km senza intercettare un insediamento urbano (fonte: WWF e FAI, Dossier TerraRubata, 2011). Nel 2015 il 7% della superficie italiana (pari a circa 21 mila chilometri quadrati) è cementificato, asfaltato, impermeabilizzato per la costruzione di edifici e di infrastrutture e non risulta più disponibile per l’agricoltura o per la crescita dell’erba e degli alberi. Negli anni ’50 era il 2,7%, nel 1998 il 5,8%. Si tratta di un percentuale addirittura quasi doppia rispetto alla media europea. L’Italia è il primo produttore di cemento e il primo cementificatore d’Europa. Il fenomeno dell’abusivismo edilizio dal 1948 ad oggi ha ferito il territorio con 4,5 milioni di abusi edilizi (75 mila l’anno, 207 al giorno), favoriti da sciagurati condoni edilizi che hanno fatto incassare allo Stato l’equivalente di 15 miliardi di euro d’oggi per poi doverne spenderne 45 in oneri d’urbanizzazione.

Ma quali sono i rischi della cementificazone? Allo stato attuale, in Italia questa relazione tra cementificazione e dissesto idrogeologico è diventata una evidenza macroscopica che assurge a primo problema in ambito paesaggistico. In Italia infatti, dove iI rischio frane e alluvioni è diffuso in modo capillare, la cementificazione diventa un ulteriore e gravissimo attentato alla sicurezza: è il caso ad esempio di aree sovrastanti falde acquifere superficiali, zone franose o a rischio di smottamento o zone ad elevato rischio sismico. Il rischio idrogeologico interessa praticamente tutto il territorio nazionale: sono 5.581 i comuni a rischio idrogeologico, il 70% del totale dei comuni italiani, di cui 1.700 a rischio frana; 1.285 a rischio alluvione; e 2.596 a rischio sia di frana che di alluvione. Sette comuni su dieci si trovano nelle cosiddette zone rosse. 6 milioni di italiani convivono con il rischio idrogeologico (CRESME- Fedecostruzioni 2012). Questa situazione, se sommata agli impatti attesi dai cambiamenti climatici in termini di aumenti di fenomeni metereologici estremi, fa del nostro paese una bomba ad orologeria.

Cementificare significa anche consumare suolo e rinunciare a produzione agricola. Nel decennio dei Novanta le costruzioni hanno sottratto all’agricoltura circa 2.800.000 ettari di suolo (dati Eurostat), con importanti impatti sull’ambiente (riduzione del patrimonio vegetale, modificazione dei processi di percolazione delle acque nel sottosuolo, alterazione degli ecosistemi naturali locali, ecc.). Consumare 50/60 ettari di suolo al giorno, come aviene oggi, significa togliere potenziale nutrimento a 300 cittadini ogni giorno, causando un problema di sicurezza alimentare che ci costringerà, se continuiamo di questo passo, a ricorrere a fonti esterne.

Bisogna inoltre specificare che quello di cementificazione è un processo non facilmente reversibile: ogni volta che cementifichiamo è molto difficile tornare indietro: il suolo è un corpo vivo, che non si puo mettere in cantina per poi essere recuperato. Nel momento della cementificazione  il suolo perde la sua vitalità e la riacquista solo con molta difficoltà e a distanza di diversi anni dall’eventuale riconversione.

Ciononostante ancora oggi il paesaggio, un po’ come l’ambiente in generale, viene considerato dalla politica una questione marginale. Chi si oppone alle grandi opere o critica la cementificazione viene presto bollato come retrogrado, o nella migliore delle ipotesi come un romantico idealista. In pochi sembrano rendersi conto dell’incredibile ricchezza che il paesaggio rappresenta in Italia e dell’enorme sperpero di denaro pubblico che comporta la sua distruzione. Il cemento infatti causa un aumento non solo della bruttezza e dei problemi ambientali ma anche della spesa pubblica. Si calcola che dovremmo spendere 7-14 miliardi di euro per gestire le aree urbanizzate perché non finiscano sott’acqua a causa delle sempre più frequenti inondazioni. Ogni ettaro non cementificato è una spugna che trattiene 300 milioni di mq di acqua, mentre per ogni ettaro cementificato è necessario spendere per gestire la rete delle acque. Un suolo libero fa servizi ecosistemici che niente al mondo è in grado di fare.

Tutto ciò per realizzare un’edilizia di cui non abbiamo bisogno: esistono in Italia piu di 2 milioni di appartamenti liberi che nessuno compra (dati: Agenzia delle Entrate 2012) grazie ai quali sarebbe già possibile soddisfare ogni aspettativa di domicilio, anche a seguito dei flussi migratori. Il settore edilizio potrebbe sopravvivere e persino prosperare attraverso riqualificazioni degli edifici esistenti: infatti nelle città italiane esiste un patrimonio di circa 90 milioni di vani costruiti negli ultimi 60 anni, che presto sarà inadeguato e dovrà essere riutilizzato (CNAPPC) a cui si aggiunge un patrimonio di circa 30 milioni di vani, realizzati in oltre 3.000 anni di storia e che costituiscono l’identità stessa della civiltà italiana, da considerare un “bene unico e irriproducibile” da rivitalizzare, rifunzionalizzare e riattrezzare.

IN UN MARE DI GUAI

Il mar Mediterraneo è un mare ricco di biodiversità, ma al tempo stesso fragile. Esso rappresenta meno dell’1% dei mari del pianeta, ma ospita circa il 9% degli organismi marini noti. Tra le cause di questa ricchezza anche il relativo isolamento del Mediterraneo che impiega circa 70 anni per uno scambio completo delle sue acque con l’Atlantico: questo isolamento amplifica gli impatti di una popolazione crescente su risorse ormai sovrasfruttate. Il rapporto di Greenpeace “Riserve marine per il Mediterraneo” segnala numerosi esempi del degrado delle risorse del Mediterraneo, con il rischio di danni irreversibili.

Una prima problematica è rappresentata dalla pesca eccessiva: circa 1.500 tonnellate l’anno (trend in calo), con una gestione decisamente scadente: circa l’80% delle specie ittiche di interesse commerciale non ha una valutazione adeguata della sua popolazione e dove tale valutazione esiste risulta che il 60% della delle popolazioniè pescata al di là dei limiti di sicurezza. La pesca intensiva e incondizionata produce uno sforzo eccessivo su esemplari di taglia piccola; inoltre la pesca a strascico produce una percentuale di catture accessorie che va dal 20 al 70% (ributtate in mare morte). La pesca pirata con le spadare in Italia continua nonostante il Piano d’Azione della Fao che ne prevedeva l’eliminazione.

Per quanto riguarda i grandi migratori come il tonno rosso (si veda a riguardo lacampagna di Greenpeace del 2006), la loro popolazione è ormai decimata e gli allevamenti intensivi, spesso presentati come soluzione, spesso creano nuovi problemi: l’allevamento intensivo dei tonni, ad esempio, è del tutto insostenibile, dato che per ingrassare un tonno di 1kg servono 20-25 kg di pesci (di solito pesce azzurro) ridotto in farina, e che l’importazione della farina di pesce per il mangime comporta il rischio di introdurre nel mediterraneo patologie infettive nuove

Anche l’acquacoltura rischia di apportare più danni che benefini, perchè compete per l’assegnazione delle poche aree di qualità rimaste (es. prateria di posidonia) ed è causa di sprechi e introduzione di patogeni e specie aliene.

Un altro gravissimo fattore di rischio per il Mediterraneo è rappresentato dall’estrazione e il trasporto del petrolio. In ogni momento circolano sul Mediterraneo circa 2000 navi, 300 delle quali sono petroliere o trasportano idrocarburi. In un bacino che rappresenta lo 0,7% della superficie degli oceani transita il 20% della produzione petrolifera mondiale (370 milioni di tonnellate di petrolio/anno). Questo traffico è alla base dell’elevato numero di incidenti che secondo l’UNEP hanno causato lo sversamento di 55.000 tonnellate di idrocarburi nel Mediterraneo negli ultimi 15 anni.

In generale l’inquinamento da attività indiustriali, agricole e dagli insediamenti abitati è uno dei principali problemi. L’isolamento del mediterraneo amplifica questi fenomeni e alle fonti di inquinamento lungo le coste si aggiungono quelle dell’entroterra che comunque scaricano nei fiumi che si versano nel mediterraneo. A fronte di una popolazione crescente i centri urbani costieri depurano pochissimo dei loro reflui: delle 601 città costiere con oltre 10.000 abitanti (popolazione complessiva di 58,7 milioni) solo il 69% ha qualche impianto di depurazione, la cui efficienza secondo l’EEA è “piuttosto bassa ed inadeguata”.

Anche il turismo ha avuto un ruolo notevole nel degrado delle zone costiere, per via di uno sviluppo urbano rapido e incontrollato e la stagionalità dei flussi turistici che produce picchi di produzione di rifiuti; inoltre il turismo si concentra in zone di interesse paesaggistico causando una seria minaccia per l’habitat delle specie a rischio (es. foca monaca e tartarughe marine).

Anche il cambiamento climatico, con conseguente innalzamento del livello del mare, avrà effetti sul mare in quanto potrebbe produrre allagamenti, aumento dell’erosione costiera e salinizzazione degli estuari e delle falde acquifere. Infine gli ecosistemi sono messi costantemente a repentaglio dalla introduzione di specie aliene o esotiche.za intesa come copro sociale a cui appartengono tutti, politici, amministratori, cittadini, tecnici, turisti.


VISIONE 2040

Così come oggigiorno molte delle problematiche ambientali hanno origini globali, anche nel 2040, perché la situazione nel nostro paese sia diversa, occorrono alcuni mutamenti a livello mondiale. Nel 2040 che immaginiamo si sarà consolidato un profondo mutamento culturale (in parte già in atto), che ci permetterà di uscire dalla cultura antropocentrica per ritrovare finalmente il nostro posto all’interno degli ecosistemi (e non più al di sopra di essi). Si saranno sviluppate una cultura di simbiosi con il nostro Pianeta Vivente e un’etica di tutte le entità naturali, considerate per il loro valore intrinseco e non solo in relazione all’uomo.

La popolazione globale, coerentemente con la diffusione di questo cambiamento culturale, avrà dapprima rallentato la crescita, si sarà fermata ed avrà iniziato il proprio calo graduale; nel 2040 potrà essere all’incirca uguale a quella attuale, ma con un trend negativo. Si saranno dunque gettate le basi per un Pianeta meno popolato, in cui tutti abbiano accesso al proprio fabbisogno di cibo, acqua, energia, ecc. Resta aperta l’eterna domanda su quale sia il numero di esseri umani sostenibile per il pianeta: in vari hanno provato a dare una risposta ma ad oggi non esiste una stima comunemente accettata. Come riporta il rapporto delle nazioni unite “One Planet. How many People?” gli studi in merito variano di svariati miliardi di persone: c’è chi sostiene che il range sia fra i 500 milioni e il miliardo e chi si spinge oltre i 10 miliardi.

D’altronde il numero di abitanti sostenibile dipende anche dall’impronta ecologica di ciascuno. Il giusto equilibrio dunque sarà un risultato della graduale diminuzione della popolazione e di pari passo della riduzione dell’impronta ecologica pro capite. Nell’ottica di una diminuzione dell’impronta ecologica di ciascuno si andranno modificando molti comportamenti e abitudini oggi ben affermati. L’alimentazione sarà più sostenibile, con una netta riduzione del consumo di carne e un utilizzo preponderante di prodotti locali e di stagione. Andranno scomparendo i concetti di risorsa/rifiuto (attraverso la chiusura di tutti i cicli di produzione/consumo); verranno introdotti in maniera sistematica i principi della permacultura nella coltivazione dei terreni (e nelle relazioni). Sarà raggiunta la massima efficienza energetica attraverso reti di produzione/distribuzione locali, l’abolizione dei grandi impianti, l’utilizzo di pannelli solari termici e mini-idroelettrica, la massima coibentazione edifici. La ricerca ed estrazione dei combustibili fossili (carbone, metano, petrolio) sarà interrotta perché non più necessaria, né conveniente dal punto di vista economico.

Una società più locale vedrà anche una netta riduzione dei trasporti, l’abolizione dei grandi impianti industriali in favore di piccoli impianti locali sostenibili e in generale un progressivo abbandono delle logiche di competizione economica, globalizzazione, crescita, mercato, consumi, pubblicità.

IN ITALIA

Tali cambiamenti avverranno presumibilmente con tempistiche differenti nei diversi paesi e continenti, in dipendenza da svariati fattori fra cui la volontà politica dei governi, degli organi sovranazionali, delle amministrazioni locali, dal livello culturale e dal grado di consapevolezza ambientale delle popolazioni e da molte altre variabili difficili da prevedere. In Italia già oggi si assiste ad un notevole aumento del tasso di interesse generale per le tematiche ambientali e i modelli di vita sostenibile. E’ in crescita un sentire comune che abbraccia tutti gli aspetti della vita, dal cibo, alla salute, ai beni comuni, al consumo di risorse ed energia. Ne sono testimonianza le sempre più numerose battaglie vinte in difesa dei territori, lo storico risultato dei referendum sull’acqua pubblica del 2011, la crescita – in controtendenza rispetto al settore alimentare – del biologico (che ormai occupa il 60% del mercato agroalimentare – dati Nomisma) e del chilometro zero.

D’altro canto la sensibilità e reattività della classe politica alle stesse tematiche rimane molto bassa, eccezion fatta per alcune eccellenze rappresentate da amministrazioni locali all’avanguardia sulle tematiche della sostenibilità ambientale (un esempio su tutti, le amministrazioni facenti parte dell’Associazione dei Comuni Virtuosi). Se le tendenze dal basso si saranno definitivamente affermate, nel 2040 un cambiamento della classe politica e delle normative sarà stato inevitabile con ripercussioni benefiche sulla gestione del paesaggio e del mare.

CONSAPEVOLI DELLA PROPRIA RICCHEZZA

Nel 2040 sarà ormai convinzione diffusa che il paesaggio (assieme ad arte e cultura) è uno degli elementi che contribuisce in maggior misura alla ricchezza, al benessere e alla qualità della vita nel nostro Paese. I cittadini italiani, complice una serie di azioni culturali, politiche e pedagogiche, saranno consapevoli del valore assoluto dalla terra fertile e della bellezza, decisi a tutelarli per le future generazioni.

Saranno stati approvati leggi e regolamenti stringenti che impediranno l’ulteriore cementificazione del territorio italiano e in molte zone sarà stato intrapreso un percorso di riconversione delle aree cementificate in aree verdi. Sarà stata approvata una legge che sancisca l’inviolabilità dei suoli agricoli e che rafforzi la tutela del paesaggio e del patrimoni storico e artistico della nazione prevista dalla costituzione. Ogni regione avrà inoltre attivato una banca della terra per affidare a giovani agricoltori la gestione di terre a vocazione agricola incolte o inutilizzate

Entro il 2040 il paese raggiungerà la crescita zero. In sinergia con un piano nazionale, ogni comune si sarà dotato di un’apposita mappatura delle aree dismesse e degli immobili sfitti, abbandonati o inutilizzati. Prima di costruire qualsiasi edificio nuovo sarà necessario che tutto l’esistente sia utilizzato. Il suolo consumato dalle (poche) nuove costruzioni sarà compensato da quello liberato dai processi di riconversione verde. Tuttavia va tenuto presente (come già precedentemente ricordato) che occorrono svariati anni perché un suolo precedentemente cementificato riprenda la sua naturale vitalità (e le sue funzioni ecosistemiche).

L’intero comparto edilizio si sarà concentrato sul patrimonio da rinnovare, rifunzionalizzare. La riconversione energetica degli edifici, agevolata da detrazioni fiscali e incentivi, riguarderà quasi la totalità del patrimonio edilizio del paese e ancora nel 2040 l’opera non sarà completata.

UNA RETE DI AREE PROTETTE

Il Mediterraneo per le sue caratteristiche di “oceano in miniatura” è uno dei bacini maggiormente sensibili alle problematiche connesse ai cambiamenti climatici e al riscaldamento del bacino. Nel 2040 gli impatti sulla biodiversità, già oggi visibili, avranno aumentato la propria portata. Nel quadro generale degli effetti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi marini appare di particolare importanza il processo di progressiva diminuzione dei valori di pH del mare (altrimenti noto come “acidificazione marina”).

Tuttavia ci sono molte misure che si possono prendere per mitigare o prevenire gli effetti dei mutamenti climatici e porre rimedio alle altre criticità evidenziate in precedenza. Innanzituto i prossimi anni dovranno segnare il passaggio dalle politiche di tutela delle “singole specie” alle politiche di tutela dell’ecosistema nella sua interezza. Politiche che, per garantire una gestione efficace del mare, dovranno vedere la cooperazione di tutti gli Stati del Meditarraneo e la partecipazione delle comunità rivierasche.

Più nello specifico, entro il 2020 dovrà essere allestita una rete di Aree Marine Protete (AMP) anche di ampia dimensione e strategicamente di opportuna collocazione geografica, che includano riserve a protezione integrale. Una rete di AMP è necessaria per combattere gli effetti deleteri di impatti a larga scala sugli oceani, inclusi quelli generati dai cambiamenti climatici globali. Un aumento della resistenza e della resilienza a scala locale, quale prodotto delle AMP, può aiutare a combattere impatti rilevanti come quelli connessi al clima. Ne consegue che aumentare la resistenza attraverso la rimozione o la diminuzione di disturbi locali può fornire ai popolamenti una migliore opportunità di rispondere ai cambiamenti climatici.

Aumentare il numero di AMP ed il livello di connettanza tra loro, in un’ottica di network, includendo quelle aree dove le anomalie termiche avvengono più frequentemente, potrebbe essere un’azione vincente. In tal senso, si ritiene che l’Adriatico, per precipua caratteristica di bassa profondità, stia anticipando i cambiamenti che interesseranno il Mediterraneo nella sua completezza: è pertanto necessario individuare in questa zona le aree chiave (possibilmente transfrontaliere) che, adeguatamente tutelate e/o gestite anche con l’aiuto di organismi sovranazionali, possono rappresentare aree ad elevata resilienza in grado di agevolare ed amplificare le capacità di adattamento dell’intero bacino.

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BIBLIOGRAFIA
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