Abbiamo accesso sicuro all’acqua, a un cibo sano, sufficiente e nutriente, prodotto localmente. Sovranità alimentare! Ecco il principio che guida la produzione e il consumo di cibo nel 2040. Sono in via di estinzione le monocolture, sostituite dalla biodiversità dei territori, coltivati con metodi alternativi e genuini.
Hanno contribuito : Francesco Badalini – Movimento per la Decrescita Felice | Silvana Galassi – Forum italiano movimenti per l’acqua bene comune | Marco Garoffolo – Ciboprossimo | Janneke A. Gisolf – Città della Luce, Scholanova Varano, Scuola Agricoltura sinergica | Tommaso Grassi – Lunedì sostenibili, Coltivando, Italia che Cambia | Roberto Li Calzi – Arcipelago Siquyllàh | Alessio Mancin – Libera Scuola Agricoltura Sinergica | Matteo Mazzola – Terra Organica | Fabio Pinzi – Accademia Italiana di Permacultura | Beppe Orefice – Presidente Slow Food Campania e Basilicata | Giorgia Silvestri: Istituto olandese DRIFT (Dutch Research Institute for Transitions) | Andrea Tronchin – Rete Biosol Ha facilitato: Tommaso Grassi
L’agricoltura non è solo un fattore determinante per l’economia ma è fondamentale anche per la gestione del territorio, del paesaggio, del mantenimento dei valori culturali ma soprattutto serve a sfamare e mantenere in salute le persone. Dopo la bolla speculativa e il crollo delle Borse nel 2007-2008, enormi capitali sono scappati dai prodotti finanziari tradizionali e si sono rifugiati in oro e prodotti agricoli, ritenuti più sicuri. Speculare sul cibo significa “scommettere” sul prezzo futuro dei prodotti alimentari, acquistando “futures”, contratti a termine standardizzati per poter essere negoziati facilmente in Borsa. Quando nei mercati finanziari si sparge la voce che il prezzo di un prodotto salirà, tutti si gettano a comperare “futures” e titoli su quel prodotto, perché al momento della rivendita potranno fare grandissimi guadagni, ma se tutti acquistano quel prodotto il valore e il prezzo del prodotto, appunto, sale.
E’ la profezia che si auto-avvera, in un “mercato” che non ha più nessuna connessione con l’economia reale. Ciò va a creare delle grosse “disfunzioni” del sistema che diventano ancora più evidenti quando sinergicamente associate a sistemi agricoli di produzione che non considerano l’ecologia, la Terra, come un tutt’uno con l’attività economica e produttiva. E’ la disconnessione tra ecologia ed economia. Tutto ciò ha effetti estremamente reali per la vita delle persone. Quando nelle Borse si ha una crescita del prezzo del grano, ciò significa enormi profitti per chi ha giocato bene, ma anche rincari drammatici per chi, il pane, lo deve comperare e per chi deve iniziare a combattere con i mutamenti climatici e i danni ambientali da essi causati; in ciò i contadini, gli agricoltori, sono in prima linea.
La grande distribuzione definisce a priori i propri tassi di profitto, crea la catena del valore ed impone i prezzi, con i contratti di produzione; tra gli agricoltori e la grande distribuzione non c’è nessunoed è come se esistesse un muro divisorio tra produttori di alimenti e consumatori, impossibilitati ad incontrarsi e conoscersi. Da questa logica di dominio del capitale finanziario sulla produzione agricola, abbiamo avuto come risultato che da due decenni ci sono circa 50 grandi imprese transnazionali che controllano la maggior parte della produzione e del commercio agricolo mondiale.
I grandi gruppi economici dell’emisfero nord, di fronte alla crisi, ai bassi tassi di interesse praticati nei loro paesi (intorno allo 0,2% annuo), sono corsi verso la periferia, cercando di proteggere i loro capitali volatili e investendo in “attivi fissi”, come: la terra, le miniere, le materie prime agricole, l’acqua, i territori con elevata biodiversità, gli investimenti produttivi e la produzione agricola. E anche sul controllo delle fonti di energia rinnovabile, sia le idroelettriche che le centrali di etanolo. Come se non bastasse, a preparare un buon terreno speculativo, negli ultimi 10 anni le riserve mondiali di alimenti sono state sempre più ridotte, anche in tutta Europa, fino a toccare i minimi storici nel 2011. Eppure il rapporto tra livello delle scorte e instabilità dei prezzi è ormai riconosciuto. Scorte ridotte portano a picchi nei prezzi: meno cibo c’è e più si può guadagnare speculando. Fra il 2005 e il 2008,per i consumatori i prezzi mondiali degli alimenti hanno raggiunto i livelli più alti da 30 anni a questa parte, continuando ad aumentare nel 2010 e 2011 e successivi. Dall’altro lato i Contadini e gli agricoltori hanno visto aumentare drasticamente i costi dei mezzi tecnici e diminuire costantemente il prezzo di vendita dei prodotti.
La competizione nella destinazione d’uso degli alimenti, in primis i cereali, è sempre più aspra; nel 2008 il volume annuale di cereali prodotti a livello globale (frumento, mais e riso principalmente) è stato di circa 2 miliardi e 200 milioni di tonnellate. Di queste quantità, solo circa un miliardo è stato destinato all’alimentazione diretta delle persone, circa 800 milioni di tonnellate sono state utilizzate nel settore zootecnico per l’alimentazione animale in allevamenti di tipo industriale (allevamenti avicoli, bovini e suini) e, una quota sempre più elevata, è stata destinata per gli agrocarburanti industriali (detti biocarburanti).
Su tutto questo bisogna fare una considerazione importante. La finanza classica con i suoi tradizionali strumenti crea dei flussi finanziari che, sulla carta, equivalgono, sul mercato delle borse, fino a circa 10 volte la sommatoria del prodotto interno lordo di tutti i singoli Stati: l’economia reale del pianeta vale un decimo della economia virtuale della finanza. Lo sbocco sul mercato delle materie prime non ha in realtà una dimensione minimamente paragonabile al valore del mercato finanziario creato dagli strumenti classici della finanza, basta quindi che una minima parte di questa finanza fluisca verso i mercati delle derrate alimentari per farli impazzire e determinare l’innaturale lievitazione dei prezzi.
Nella maggioranza dei paesi, i governi hanno abbandonato le politiche pubbliche di protezione del mercato agricolo nazionale e dell’economia contadina. Hanno liberalizzato i mercati e hanno applicato politiche neoliberiste di sussidi, ovviamente, per la grande produzione agricola capitalista. Questi sussidi governativi si sono realizzati soprattutto attraverso esenzioni fiscali su esportazioni o importazioni e con l’applicazione di tipi di interessi favorevoli alla stessa agricoltura industriale. Tutto questo ha favorito lo sviluppo di un modello industrializzato e di mercati sempre più lontani dai luoghi di produzione e dai consumatori. Attraverso una immensa operazione mediatica l’individualismo è stato spinto al massimo al fine di rendere ogni singola persona un “utente”. Come accadeva ai tempi del colonialismo, le produzioni locali migliori sono destinate all’esportazione, sui mercati locali restano prodotti di seconda scelta, quando ne restano.
La cosiddetta “deregulation”, l’abbandono progressivo da parte dei poteri pubblici del controllo e governo di questi mercati, ha consentito a qualunque operatore del mercato finanziario di poter intervenire sul mercato dei beni alimentari. Di pari passo, il sistema dominante ha sviluppato da una parte un sistema burocratico-amministrativo soffocante per tutte le piccole e medie imprese di ogni filiera e dall’altra ha totalmente “liberalizzato” il commercio imponendo parametri favorevoli solo alle grandi imprese. Ultimamente i riflettori si sono accesi sul TTIP, una nuova serie di accordi sul libero scambio tra Europa e USA che prevarranno sulle leggi nazionali con conseguenze potenzialmente molto pesanti: i governi non avranno più strumenti per contrastare i diktat delle lobby e potranno addirittura essere citati in giudizio da un’azienda per mancato profitto.
La stessa politica è stata applicata all’acqua: il comparto pubblico ha progressivamente ceduto il controllo e la gestione delle risorse idriche a grandi gruppi multinazionali e in alcuni casi ha persino permesso che fosse il mercato a regolare la distribuzione della risorsa, sempre più scarsa in alcune zone del mondo a causa dei processi di desertificazione legati ai mutamenti climatici.
C’è stata una imposizione della proprietà privata delle imprese sui beni della natura, come sui semi modificati geneticamente e, ora, più recentemente, sulle fonti di acqua potabile per la popolazione e sui depositi utilizzati per la produzione di energia e l’irrigazione.
E’ in corso una pericolosa standardizzazione degli alimenti umani e animali in tutto il mondo. L’umanità viene indotta ad alimentarsi sempre di più con vere e proprie “razioni” standardizzate dalle imprese. Il cibo si è trasformato in una mera merce, che deve essere consumata in forma massiccia e rapidamente. Questo comporta conseguenze incalcolabili, con la distruzione delle abitudini alimentari locali, della cultura dei territori e con rischi per la salute di uomini e animali. C’è un’egemonia delle imprese sulla conoscenza scientifica, sulla ricerca e sulle tecnologie applicate all’agricoltura, che impone in tutto il mondo un modello tecnologico, la cosiddetta “agricoltura industriale o convenzionale”, dipendente da input prodotti al di fuori dell’agricoltura come ad esempio un uso eccessivo di acqua per irrigare, fertilizzanti, pesticidi e antiparassitari, causa di avvelenamento delle falde, dei terreni e di conseguenza degli esseri viventi.
Questo modello viene presentato come se fosse l’unico, il migliore e la forma più economica di produrre in agricoltura ignorando le tecniche millenarie del sapere popolare, la visione dell’agroecologia e dei metodi di coltivazione alternativi che si sono sviluppati nel tempo (es. Agricoltura Biologica, Biodinamica, Agricoltura Sinergica, Agricoltura Naturale). Mentre nel corso del XX secolo, molti Stati nazionali hanno investito risorse pubbliche nella ricerca e i risultati erano accessibili a tutti gli agricoltori del paese, ora le conoscenze e la ricerca sono state privatizzate e i loro risultati sono usati come merci per ottenere tassi maggiori di profitto. Nella maggioranza dei casi, le imprese riscuotono royalties dagli agricoltori per l’uso di nuove tecnologie, che sono incluse nei prezzi elevati dei semi modificati geneticamente e in quelli altrettanto elevati delle macchine agricole e degli erbicidi introdotti nel mercato.
Come già detto, il modello di produzione dell’agricoltura industriale è totalmente dipendente da input come fertilizzanti chimici e derivati del petrolio, che hanno limiti fisici naturali legati alla scarsità delle riserve mondiali di petrolio stesso, potassio, fosforo ecc, quindi la sua possibilità di espansione è limitata nel medio periodo con costi al di sopra del valore reale che in futuro andranno aumentando, contribuendo di pari passo a danneggiare l’ambiente nella sua biodiversità. Vi è infatti un’innumerevole quantità di “danni ambientali” derivanti dalle contaminazioni chimico-biologiche delle monoculture al rischio di estinzione di specie importanti per il nostro ecosistema come ad esempio le api.
Il modello produttivo che c’è in Italia e più in generale in Europa, è un modello subalterno, non sovrano ed estremamente fragile a causa dell’incapacità di determinare i costi intermedi e indiretti.
In Italia si è sviluppata una innaturale concentrazione solo in alcune regioni delle produzioni agricole e alimentari come quelle di latte, carne, frutta e verdura e con la dipendenza dal trasporto, prevalentemente su gomma e sulle lunghe distanze. Produzioni che, fino agli anni ‘80, erano ancora largamente decentralizzate su tutto il paese e distribuite localmente, oggi non è più così.
Nella famosa catena del valore, il meccanismo della concentrazione nelle mani delle multinazionali, della grande distribuzione e di investitori finanziari che possono manovrare i prezzi di riferimento del mercato globale e quindi la loro volatilità (più un prezzo è volatile e più chi specula giocando d’azzardo in borsa può guadagnare) toglie ogni potere sovrano ai produttori di materie prime, agli agricoltori, i contadini e ai consumatori. Il risultato di tutto questo è, in primo luogo, la perdita del controllo del mercato interno; tutta questa furia verso l’esportazione, verso il mercato internazionale, come soluzione per le grandi economie agricole risulta essere quindi un fatale errore sia a livello economico che ambientale.
Il mercato globale non è vero che è una cosa “lontana” ma è una realtà fondamentale per la vita di ogni azienda agricola e per ogni consumatore, singolo od organizzato che si ritrova a confrontarcisi ogni volta che va a fare la spesa nelle grandi catene dei supermercati, perché sia i costi di produzione, sia i prezzi di acquisto delle materie prime delle aziende sono determinati dall’interazione con il mercato globale e da realtà esterne all’agricoltura reale. L’incapacità degli agricoltori, e consumatori, di controllare i processi di produzione sono insiti nel sistema, infatti, se nelle strutture di produzione il guadagno è determinato, per almeno il 50% di ciò che si produce, da qualcuno che è esterno all’azienda stessa (la nafta, i concimi, gli antiparassitari, i mangimi, il mercato), la capacità negoziale del produttore si sposta e dipende completamente dai prezzi di vendita finale e non dai costi realmente sostenuti (prezzo sorgente).
Quindi, per sintetizzare, abbiamo un divario crescente tra costi di produzione, prezzi pagati in azienda e prezzi pagati dai consumatori, in mezzo a tutto questo c’è chi fa profitti con l’agricoltura. In effetti l’agricoltura continua a produrre profitti e c’è chi riesce ad appropriarsene, ma questi soggetti non sono gli agricoltori. In generale assistiamo ad un processo in tutto il mondo di perdita della sovranità dei popoli e dei paesi rispetto agli alimenti ed al processo produttivo, per la denazionalizzazione della proprietà delle terre e delle imprese, delle agroindustrie,del commercio e della tecnologia; questo mette a rischio la sovranità nazionale nel suo insieme. Esistono già più di 70 paesi che non riescono a produrre più ciò di cui i loro popoli hanno bisogno per alimentarsi. La maggior parte dei governi, ovunque eletti in processi elettorali considerati democratici, sono in realtà portati, dalla forza della logica del capitale e da ogni tipo di manipolazione mediatica, a comportarsi come governi servili rispetto a questi interessi. Le loro politiche agricole sono diventate totalmente subalterne agli interessi delle imprese transnazionali. Hanno abbandonato il controllo dello Stato sull’agricoltura e sugli alimenti. Hanno abbandonato le politiche pubbliche per la valorizzazione dei contadini e dei loro saperi. Hanno abbandonato le politiche pubbliche di sovranità alimentare e salvaguardia dell’ambiente.
In Italia, come in gran parte dei paesi europei, l’accesso alla terra per i contadini e i giovani che vogliono approcciarsi all’agricoltura è di fatto molto difficile e dagli anni Novanta in poi la cacciata degli agricoltori dalla terra è diventato un fenomeno in continua accelerazione, con un’enorme riduzione del numero delle piccole e medie aziende e del numero degli addetti. In Italia l’1% delle aziende controlla il 30% delle terre agricole. Circa 22.000 aziende, con una taglia superiore ai 100 ettari, si spartiscono oltre 6,5 milioni di ettari di superficie agricola, e negli ultimi 10 anni c’è un crollo del numero delle aziende con una taglia sotto i 20 ettari. L’agricoltura familiare, quella con una taglia inferiore ai 20 ettari che è il cuore dell’agricoltura italiana, viene decimata. Questi dati, analizzati a partire dal Censimento agricolo del 2010, dimostrano i processi di concentrazione, controllo, integrazione, espropriazione delle terre sottolineando i limiti delle politiche pubbliche e l’erosione della capacità produttiva agricola.Di fronte a questa fotografia dell’agricoltura italiana bisogna analizzare la dismissione dei terreni agricoli demaniali e rilevarne la loro importanza strategica. Bisogna prendere atto che l’accesso alla terra attraverso il mercato fondiario non solo non favorisce l’ingresso dei giovani in agricoltura ma – considerando che di fatto quasi tutta la terra agricola è vicina ad insediamenti urbani – finisce per favorire la speculazione edilizia e il radicamento nell’economia legale di capitali di origine illegale o, comunque, non d’origine agricola. Non ci sono misure normative contro la concentrazione e a favore delle piccole aziende, che per poter resistere e sopravvivere alla crisi devono poter allargare la superficie coltivabile. Non serve vendere la terra, bisogna facilitare l’accesso alle risorse.
Questi livelli di concentrazione delle terre agricole sono il risultato di una serie di fattori che spingono nella stessa direzione. La responsabilità più rilevante è della Politica Agricola Comune, con il sostegno dato alla logica della forte capitalizzazione ed industrializzazione dei processi di produzione e la conseguente eliminazione delle aziende contadine di dimensione piccola-media. A questa si è aggiunta la mancanza totale di efficienti politiche pubbliche nazionali o/e regionali per salvaguardare l’uso agricolo delle terre che ha come conseguenza prevedibile, l’uso speculativo delle proprietà fondiarie. I dati del censimento 2010 fanno emergere la perdita, in 10 anni, di quasi il 36% delle aziende dirette coltivatrici ma anche del 39% di quelle condotte con salariati, (che numericamente si riducono ad un totale di 46.000 aziende: un fenomeno decisamente marginale rispetto al milione di aziende diretto-coltivatrici). Nella diminuzione della SAU (Superficie Agricola Utilizzata), le aziende diretto coltivatrici perdono solo il 4,5% mentre quelle condotte con salariati riducono la SAU circa del 23%.
Land&Water Grabbing, l’espropriazione delle acque e delle terre è un’efficace dicitura inglese che mette in evidenza una vera e propria tragedia per i contadini di tutto il pianeta, come anche per tutti noi. L’articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani stabilisce che ogni individuo e ogni comunità hanno il diritto di entrare in possesso delle risorse e dei mezzi necessari a produrre o a procurarsi cibo in quantità adeguata alla sussistenza, e ogni Stato deve garantire che questo avvenga. La realtà, però, parla di migliaia di famiglie di contadini espulsi con la forza dalle loro terre e privati dei loro prodotti, fonte della loro sussistenza.In Italia il 3% dei proprietari detiene il 48% della Superficie Agricola Utilizzata – SAU. Questi dati di possesso delle terre rispecchiano quelli che avevamo negli anni 20, quasi a dire che in Italia si sta ritornando a regimi di latifondo.
Alcuni studi svolti tra il 2004 e il 2009 in Etiopia, Ghana, Madagascar e Mali rivelano che circa due milioni di ettari di terra sono stati trasferiti a proprietari stranieri, compreso un progetto di irrigazione di 100.000 ettari nel Mali, una piantagione di 452.500 ettari per la produzione di agrocarburanti in Madagascar, un progetto zootecnico di 150.000 ettari in Etiopia. Il Relatore sul Diritto al cibo delle Nazioni Unite Olivier de Schutter in un recente inventario ufficiale ha trovato ben 389 acquisizioni di larga scala di terra agricola a lungo termine in 80 Paesi. Solo il 37% dei cosiddetti progetti di investimento mirano a produrre cibo, mentre il 35% è destinato ad agrocarburanti. 19,5 milioni di ettari di terra agricola si trasformano ogni anno in aree industriali e immobiliari. In meno di due anni, tra il 2007 e il 2009, almeno 20 milioni di ettari di terreni coltivabili – pari all’estensione dell’Italia. Assistiamo oggi ad un sequestro del diritto a produrre, perché la concentrazione delle terre e del diritto a produrre è il risultato di politiche e non di una ineluttabile decadenza del settore agricolo.
L’acqua che beviamo, usiamo per lavarci, lavare casa, i panni e quella che va giù per lo sciacquone è soltanto il 4% di quella che consumiamo ogni giorno. Ma dove si trova il restante 96%? L’acqua è una risorsa che va preservata perché, per quanto sgorghi apparentemente inesauribile dai nostri rubinetti, diventa sempre più rara e preziosa. La FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura) prevede che entro il 2025 quasi due miliardi di persone soffriranno la sete e che due terzi della popolazione mondiale, nel complesso, faticherà a procurarsi la quantità di acqua necessaria a bere, cucinare e lavarsi.
Ogni giorno, mediamente, un abitante dei paesi occidentali industrializzati consuma 137 litri d’acqua potabile: il 5% per lavare casa, il 10% per bere e cucinare, il 20% per lavare i panni, il 30% per lo sciacquone e il 35% per l’igiene personale. Sembra tanto? Eppure, è solo una minima parte dell’acqua che in realtà si consuma. Quando si mangia, infatti, si bevono quotidianamente, circa 3500 litri di acqua senza nemmeno saperlo.
C’è chi la chiama “acqua virtuale” e chi “acqua invisibile”: è l’acqua “nascosta” nei cibi per produrre ciascuno degli alimenti che normalmente finiscono nei nostri piatti. Una dieta particolarmente ricca di carne rossa, all’americana per intenderci – la carne e i derivati animali sono tra i cibi più idrovori – arriva a consumare 5400 litri d’acqua al giorno cioè ben 4000 litri in più di una dieta vegetariana! Queste cifre sono presto giustificate: un manzo adulto di 200 kg, prima di arrivare alla macellazione richiede: circa 3 milioni di litri d’acqua per far crescere il fieno e il mangime necessario, 24.000 litri che l’animale beve da quando è un vitellino e 7000 litri sono quelli che vengono impiegati durante la macellazione. Se la FAO e gli scienziati dell’IPCC (gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) ci hanno visto giusto, il cambiamento climatico renderà l’acqua un bene prezioso anche per noi che ora ne siamo circondati ogni giorno e in ogni forma. Basti pensare ai ghiacciai che si sciolgono costantemente. Per questo dobbiamo cominciare a prestare attenzione ai nostri consumi idrici, senza apprensione, senza ansia, ma dobbiamo dare il giusto valore all’acqua.
I prodotti transgenici rappresentano una formidabile spinta per accentuare le caratteristiche di unilateralità delle monocolture e quindi di scomparsa del patrimonio genetico naturale esistente da centinaia di milioni di anni. Non avremo quindi più, nel futuro più o meno prossimo, tutte quelle varietà di piante (alimentari e non) caratteristiche di ogni particolare area geografica.
La situazione attuale è la seguente: pochissime multinazionali (Syngenta, Monsanto, Novartis, Dupont, Aventis) detengono il 25-30% del mercato sementiero (ma oltre il 90% del mercato delle sementi transgeniche) e dietro questi grandi gruppi si nota una tale polverizzazione da indurre a pensare che questo andamento non potrà che rafforzarsi in futuro non potendo delle aziende di piccole e medie dimensioni contrastare la concorrenza di grandi gruppi economici, l’obiettivo sembra chiaro: riconvertire il settore sementiero tradizionale in biotecnologico (cioè OGM). Ma il dato impressionante è che ritroviamo gli stessi nomi nel settore dei pesticidi, dove le stesse aziende detengono il 55% del mercato, e soprattutto nel settore farmaceutico, dove le stesse multinazionali hanno una posizione dominante.
La caratteristica più importante che contraddistingue gli Ogm è che tali organismi (sia piante che animali), con il pretesto della modifica genetica, vengono brevettati, ovvero privatizzati. La multinazionale detentrice del brevetto potrà esigere da quel momento il “diritto di brevetto” ad ogni risemina della pianta e ad ogni ciclo riproduttivo dell’animale).La nuova legge brevettuale OGM (definita dagli esperti “mostro giuridico”), adottata negli Stati Uniti nel 1980, poi in Europa nel 1998, ha dato inizio ad una nuova forma di colonizzazione dei paesi poveri da parte delle multinazionali dei paesi ricchi, il fine evidente di queste ultime essendo il controllo del mercato più vasto e più ambito: il mercato del cibo (e la minaccia riguarda anche l’Europa). Ma il danno più grave che si aggiunge alla perdita del tessuto economico fatto di cultura e tradizioni, è la perdita di biodiversità, vera ed unica ricchezza per tutti.
Gli Ogm si diffondono in modo incontrollato (nell’aria, nell’acqua e nel suolo) anche a molti chilometri di distanza, rendendo in pratica impossibile la loro coesistenza con le colture tradizionali e ancor di più biologiche. Ma si diffondono anche e soprattutto attraverso il trasferimento genico orizzontale e non solo con il polline, il che significa che gli Ogm oggi importati a scopo alimentare, umano o animale una volta mangiati diffondono pezzi di dna transgenico ai batteri intestinali durante la digestione e al terreno con la decomposizione delle feci mentre nel sangue di chi se ne nutre si trovano frammenti di DNA e soprattutto micro-Rna modificati che contribuiscono a impatti sulla salute degli esseri viventi.
E’ errato sostenere che gli Ogm non recano danno alla salute. Esiste il danno diretto (allergie, qualche intossicazione), ma poiché tutti i pesticidi sono causa provata di tumori, danni neurologici e molti altri, il danno in assoluto più grave è quello indiretto, causato dall’uso dei pesticidi: questo, come abbiamo visto, viene quadruplicato nelle colture di Ogm vegetali che, al 70%, sono modificati per resistere proprio ai pesticidi (diserbanti). Il danno deriva anche dal residuo 30% di piante Ogm, modificate per divenire esse stesse pesticida e combattere in tal modo gli insetti predatori.
La contaminazione genetica ambientale indotta da parte di ibridi creati dalle grandi ditte sementiere degli OGM, che inevitabilmente s’incroceranno con le varietà presenti in natura, porterà ad una perdita del patrimonio genetico naturale (non recuperabile in alcun modo), di tutte quelle particolari caratteristiche che sono entrate nel genoma delle piante nel corso dei lunghi processi di adattamento alle varie situazioni ambientali.
I saperi tradizionali, acquisiti nei secoli e tramandati da padre in figlio, con l’avvento della rivoluzione verde hanno subito una battuta d’arresto, l’avvento di nuove tecniche e tecnologie ha creato una frattura fra i vecchi saperi e l’innovazione tecnologica scollegata dalle logiche e dai ritmi naturali.Da sistemi produttivi diversificati tarati sul lavoro umano, si è passati a sistemi monocolturali meccanizzati che hanno aumentato lo sfruttamento della terra (massima produttività) gli sprechi e la produzione di rifiuti arrivando a creare inutili eccedenze che siamo costretti a smaltire gettando al macero intere produzioni.
Guardando con gli occhi del cambiamento, attraverso le realtà che resistono sui territori, siano essi produttori o consumatori consapevoli, le criticità che possiamo rilevare sono la scarsa capacità delle piccole realtà di organizzarsi e farsi conoscere fatto che sostanzialmente le conduce ad una sorta di isolamento. A complicare il tutto vi è il fatto che, viste tutte le difficoltà e l’imposizione intellettuale di un unico modello di sviluppo, la fiducia nei confronti delle logiche alternative è ancora decisamente bassa e la maggior parte delle persone sono inconsapevoli di quanto sta accadendo attorno a loro, nel loro piatto e nel loro corpo. Il quadro si aggrava ulteriormente considerando che i mutamenti climatici vedono in prima linea non gli Stati ma i contadini che gestiscono il territorio, l’alimentazione e la biodiversità, che si trovano a dover fronteggiare, oltre che nuove e disastrose situazioni climatiche, anche nuove malattie e parassiti.
Di fronte a questa situazione il tempo per reagire nella maniera più sostenibile è limitato ed è facile cedere alla tentazione di abbracciare il sistema industriale e le nuove tecnologie, solo gli agricoltori e i contadini più consapevoli, assieme ai “consumaTTori” o “co-produttori” più critici, riescono a farlo.Allo stesso modo, per riuscire a comprendere tutto questo e quindi la direzione necessaria ad un cambiamento, che non riguarda delle disfunzioni che si possono “rammendare” ma la necessità di cambiare alle radici il modello produttivo e di consumo, richiede tempo.
Sebbene in molti abbiano già gridato alla scomparsa delle aziende contadine, i fatti smentiscono questa presunta estinzione. I Contadini non si considerano residui folkloristici, strapaesani, economicamente marginali (tanto da essere considerati casi da rete di sicurezza sociale); al contrario, sono quella parte dell’agricoltura del paese che, pur godendo finora in modo marginale del sostegno della Politica Agricola Comune, pur mancando di politiche pubbliche di supporto, pur dovendo vincere la concorrenza sleale dell’agricoltura industriale, taglieggiati dalla Grande Distribuzione Organizzata e dalla struttura estremamente concentrata del mercato agricolo nazionale, sono ancora economicamente vivi; essi sono la base dei produttori genuini italiani, che riescono a produrre e commercializzare i propri prodotti soprattutto nel mercato interno attraverso forme e circuiti alternativi di cui portano per intero l’inventiva: mercati contadini, GAS (gruppi di acquisto solidale), PDO (piccola distribuzione organizzata, negozi collettivi dei produttori, etc). Sempre più spesso adottando pratiche agricole alternative quali: agricoltura biologica, organica, di prossimità (autoproduzione), sinergica, agricoltura bio-dinamica, ecologica, naturale.
Per millenni i nostri avi hanno lavorato la terra, seminando, raccogliendo, scambiandosi conoscenze e sementi necessarie alla sopravvivenza dell’umanità, fino a meno di un secolo fa. Tutto questo rappresenta un Bene Comune.
Oggi, culturalmente c’è una nuova disponibilità dei giovani a relazionarsi con una nuova AgriCULTURA e a pensarsi con l’agricoltura nel sistema ecologico. Le partite iva del settore agricolo crescono (+ 14,3%) il doppio rispetto alla media nazionale; nascono idee imprenditoriali come le agrigelaterie, i birrifici agricoli e in alcuni casi si diversifica la produzione per trovare nuove opportunità di crescita: così, dalle spezie e dagli estratti vegetali si decide di ricavare e vendere detersivi biologici e prodotti per l’igiene oppure alla vocazione produttiva si aggiungono attività di didattica, ristorazione o turismo. Allo stesso tempo si diffondono esperienze di Piccola Distribuzione Organizzata (PDO) che ripristinano la connessione tra produzione e consumo consapevole. Attraverso l’innovazione tecnica e sociale, localmente è possibile la creazione di spazi in nuovi mercati, senza logiche di competizione ma sviluppando invece sistemi etici di cooperazione e solidarietà.
Sono quasi diecimila le aziende agricole nate nel corso dei primi quattro mesi del 2015. Tra queste, gli imprenditori under 30 sono numerosi e si vanno ad aggiungere ai 61mila che già compongono il panorama nazionale dell’imprenditoria giovanile riservata a questo settore. Analizzando la cosa da un punto di vista meramente economico, tutte queste persone, vecchi e nuovi imprenditori, fiutano le opportunità presenti nella vendita diretta (42%), investono nelle agroenergie (24%) e nell’ agriturismo (18%). In genere ne ricavano ottimi risultati: il 40% ha visto il proprio fatturato crescere nel corso dell’ultimo anno, il 33% è in fase di espansione aziendale e il 50% ha ottenuto certificazioni di qualità. Il 13% delle aziende agricole guidate da giovani (contro una media nazionale dell’8%) ha anche venduto i propri prodotti oltre confine e il 25% ha deciso di rinnovare l’impresa nei prossimi tre anni.
A questi si aggiungono coloro che invece di fuggire dall’azienda agricola di famiglia, decidono di restare. Il rifiuto culturale nei confronti della campagna che in larga parte ha caratterizzato lo spopolamento dei nostri territori oggi sembra fare una marcia indietro. Le potenzialità di queste specifiche dinamiche sono potenti, rappresentano l’inizio di una transizione collettiva di aziende, con la conversione dall’agricoltura convenzionale/industriale a nuove visioni dell’agricoltura, biologica, biodinamica, ecologica, sinergica che conduce verso un futuro sostenibile.
Garantire un accesso facilitato all’uso della terra per i contadini e proteggerne prioritariamente l’uso che questi ne fanno. Di questo abbiamo bisogno anche per dare un contributo alle crisi che attanagliano il paese, quella economica, quella finanziaria e quella ecologica. Le aziende che sono scomparse non possono rinascere e la sofferenza di quei fallimenti non sarà compensata, ma almeno si può immaginare di consolidare le piccole aziende contadine esistenti e di crearne delle nuove per fermare il processo di desertificazione agraria che ai più sembra ormai inarrestabile. Per questo è in atto un profondo e diffuso cambiamento dal modello monoculturale a quello policulturale, a totale favore della preservazione e dell’ampliamento della biodiversitàad es. con il recupero di varietà antiche abbandonate da tempoe adottando tecniche colturali sostenibili, come ad esempio le rotazioni delle colture, il reintegro dei nutrienti con concimi naturali e attraverso l’uso di colture di rivestimento.
Già oggi siamo in grado di fare prevenzione nei confronti delle malattie cronico degenerative di lunga genesi (obesità , diabete, sindrome metabolica, malattie cardio-circolatorie, tumori, Alzheimer, Parkinson), attraverso un’opportuna alimentazione, attuata con cibi provenienti da produzioni sane, sostenibili e tradizionali, prevalentemente realizzate nel territorio di afferenza e rese accessibili attraverso sistemi di distribuzione innovativi e alternativi che favoriscono la filiera corta (es. Piccola Distribuzione Organizzata a Gruppi d’Acquisto Solidale).
E’ possibile creare un sistema territoriale integrato di qualità e salute che parta dal produttore di alimenti e arrivi a fare informazione scientifico-culturale presso il consumaTTore, anche con il supporto di progetti multidisciplinari di ricerca e con l’università, mettendo al centro di tutta la filiera la salute del cittadino. Il punto di forza è dato da un sostegno scientifico interdisciplinare mai applicato sistematicamente alla filiera agro-alimentare, basato su strumenti e processi ad altissimo contenuto tecnologico e d’innovazione.
Il rischio di comprare un cibo per un altro è sempre in agguato e oggi vi sono sistemi molto più sensibili dei sistemi di certificazione, non solo per giudicare se un prodotto corrisponde veramente al dichiarato ma, soprattutto, per capire qual è l’interazione di questo alimento con l’organismo e la sua salute. In altre parole se e quanto questo alimento porta verso la prevenzione o l’attivazione delle malattie cronico degenerative. Questi sistemi si basano su tecnologie di indagine proprie del settore medico farmaceutico, che ormai sono disponibili a costi sostenibili anche al settore agroalimentare. Tra queste spiccano la risonanza magnetica e la biologia molecolare utilizzate in modo tra loro integrato, con cui si effettuano le indagini sia sugli alimenti sia sull’organismo. Mettere come obiettivo centrale la salute del cittadino, la prevenzione delle malattie cronico degenerative, comporta anche benefici economici alla filiera produttiva.
Le produzioni “certificate” (DOP, DOCG, IGT, biologico, ecc.) risentono in modo economicamente devastante della facilità con cui questi stessi sistemi possono essere elusi. Il meccanismo è sempre lo stesso per tutte le categorie di prodotti: sono immessi sul mercato prodotti non “originali” o non rispondenti ai disciplinari, a prezzi leggermente più bassi rispetto a quelli del corrispondente mercato, avviando una spirale in discesa fino a portare i prezzi sotto il costo di produzione dei prodotti realmente rispondenti ai disciplinari.
In generale gli altri produttori o si adeguano o chiudono e il consumatore si disorienta sempre più mentre il sistema perde in credibilità. La produzione reale di alimenti “per la salute e la prevenzione” può sottrarre un’intera filiera e/o un territorio a queste logiche e alla globalizzazione: le proprietà salutistiche di un alimento, e quindi il suo “profilo metabolico”, non possono essere riprodotte in altri territori o con altri processi, né tanto meno essere sostituite con prodotti “truffaldini”. Si ingannano i sensi ma non le tecnologie di controllo sopra indicate. Così come non si inganna il metabolismo.Questi sono “i fondamentali” per la reale valorizzazione e salvaguardia dei prodotti di un disciplinare, di un territorio, della tradizione: controllare in modo strumentale la rispondenza di un prodotto a specifiche d’identificazione d’origine significa tutelare il consumatore, che paga il prodotto per i suoi benefici sulla salute, e il produttore, cui viene economicamente riconosciuta la professionalità necessaria per realizzare prodotti d’inimitabile valore nutrizionale.
Si possono già mettere in atto anche sistemi di “controllo” più semplici, legati a un rapporto diretto tra il produttore e il consumatore, tra cui si può instaurare una relazione di fiducia e conoscenza diretta; al mercato come in azienda. Sono rapporti che si basano sul desiderio di salute di un consumatore ignaro delle pratiche agricole che attraverso un’informazione consapevole diffonde consapevolezza per sé e per gli altri. Attraverso l’acquisto collettivo e i sistemi di Garanzia Partecipativa, è possibile, in modo facile e rapido, ottenere tutte le informazioni necessarie derivanti dalla conoscenza diretta che altri consumatori hanno già instaurato con i produttori afferenti ai sistemi organizzati nei territori.Altri sistemi di controllo, consentiti dalla tecnologia e che presentano dei costi relativamente bassi sono le certificazioni georeferenziali, etichette prodotte direttamente in azienda e che contengono i dati assunti tramite il satellite (georeferenzialità) al momento della raccolta dei prodotti.
La sensibilità delle persone verso l’etica, l’ecologia, la solidarietà, la cooperazione è in continuo aumento, i consumatori che hanno fatto della qualità “salutistica” del cibo anche una scelta di vita, si trovano ad affrontare due barriere: il suo reperimento e il costo. Per quanto riguarda il reperimento, la questione può essere risolta dedicando tempo alla ricerca dei produttori, dei contadini che, certificati o no, hanno i prodotti genuini.
La distribuzione di cibi con cui fare prevenzione può venire incontro alle moderne necessità delle famiglie, permettendone un facile approvvigionamento, attraverso la realizzazione di sistemi di Piccola Distribuzione Organizzata “PDO” a costi paragonabili a quelli della GDO, tramite l’applicazione del “Prezzo Sorgente” (specifiche dei costi e di “chi guadagna cosa”) e l’uso dei Buoni Locali di Solidarietà (es. SCEC). Si tratta di una catena distributiva corta basata sui principi logistici dei Gruppi D’acquisto Solidale, che sfruttano particolari programmi informatici (es. DigiGAS , GestiGAS, Biosol) per gli ordini di acquisto. In questo caso il web, oltre ad essere una risorsa per la diffusione dei saperi e delle innovazioni diventa funzionale a modelli di distribuzione alternativi e alla creazione di nuovi mercati “difendibili”.
In tali sistemi, il consumatore viene chiamato ad essere partecipe di un processo che ha come primo valore aggiunto la qualità, la filiera corta, il risparmio, la protezione dell’ambiente e la salute della popolazione. E’ a disposizione delle famiglie, grazie anche al web, l’informazione per una consapevolezza agricola ed alimentare.Il cibo può essere vissuto come diritto di affermazione della propria Sicurezza e Sovranità alimentare, diritto fondamentale dell’umanità.
L’informazione e la formazione del cittadino/consumatore sono quindi il secondo valore aggiunto della filiera considerata, elementi fondamentali per poter essere soggetti attivi, fino ad arrivare a forme di compartecipazione al rischio di impresa da parte di gruppi di cittadini-consumatori.
Coloro che decidono di approcciarsi in maniera diversa al cibo e al mercato, possono già contare su una molteplicità di proposte, per lo più ancora sconosciute, ideate e attuate nel tempo dai soggetti dell’Economia Solidale e diffuse su tutto il territorio nazionale. Molti movimenti sono nati e si sono sviluppati per rispondere all’emergenza sulla privatizzazione dell’acqua o contro gli accordi commerciali a sfavore dei beni comuni (es. TTIP). Nel 2011 i referendum sull’acqua pubblica hanno visto andare al voto 27 milioni di persone con una vittoria schiacchiante del Sì contro le privatizzazioni forzate. Una delle più importanti battaglie quotidiane riguarda quella sui semi. Ovunque, a livello locale e con diverse modalità, le persone e le comunità locali reagiscono all’appropriazione dei loro semi da parte delle multinazionali e affermano l’inviolabilità della memoria genetica di tutti gli esseri viventi, sancita anche dalla carta dei diritti dell’Uomo.
Esiste ancora uno spazio di mediazione e uno spazio di solidarietà. Il primo spazio esiste perché, di fronte al mercato mondiale, nei paesi poveri, i contadini si sono organizzati molto e in qualche modo resistono attivamente (es. Via Campesina – 15.000 arresti). Il secondo spazio esiste con forme di resistenza alternative, nella solidarietà, con metodi alternativi di coltivazione, gli agriturismi, i gruppi di acquisto, le filiere corte, le reti di Economia Solidale; questa è la via concreta, molto realistica, che la nostra agricoltura e quindi l’alimentazione può prendere.
I problemi derivanti dalle regole del libero commercio e del credito bancario, possono essere superati grazie all’attuazione e rafforzamento di sistemi economici locali come quelli descritti in precedenza, aggiungendo aciò, possibili investimenti diretti per ilfinanziamento di piccole realtà locali e l’attivazione di comunità etiche, solidali, ecologiche.Le modalità di produzione, quello che si fa nelle stalle, nelle serre e in campo, è l’unico strumento che ha in mano chi produce per evitare che qualcuno all’esterno della propria azienda possa determinare il profitto dell’azienda stessa e il suo destino.
Nel 2040 dovrà essere affermato il diritto all’alimentazione per tutti basato sulla sovranità alimentare. Sarà garantito l’accesso sicuro e permanente ad alimenti sani, sufficienti e nutrienti, preferibilmente prodotti localmente e conformi alle diverse identità e tradizioni culturali. I processi di privatizzazione dell’acqua si saranno invertiti e questa sarà universalmente riconosciuta come un bene comune e l’accesso ad una sufficiente quantità giornaliera di acqua potabile sarà garantito a tutti gratuitamente. Una cultura diffusa legata al risparmio idrico permetterà di gestire in maniera ottimale la risorsa anche attraverso la diffusione di impianti di riciclo, fitodepurazione, ecc, sovvenendo così alla minore disponibilità idrica dovuta ai processi di desertificazione e alle contaminazioni delle falde. Sarà riconosciuto il valore dell’agricoltura contadina, in quanto presidio capillare dei territori in termini di salvaguardia del paesaggio, manutenzione degli equilibri idrogeologici, preservazione della biodiversità (agricola e non solo), rivitalizzazione delle tradizioni gastronomiche. Esso sarà anche un’importante fonte di (auto-)occupazione e modello di economia ecosostenibile. Molti agricoltori e contadini avranno abbandonato i miti indotti di monoculture e meccanizzazione.
Saranno banditi tutti i diserbanti, pesticidi e concimi chimici e adottate tecniche di produzione che tendano all’aumento della produttività del lavoro e della terra, rispettando l’ambiente e la biodiversità. Queste tecniche hanno ricevuto, in genere, la denominazione di pratiche agroecologiche, anche se, in ogni paese, ci sono termini differenti per definire gli stessi metodi di produzione. Saranno adottati sistemi di produzione degli alimenti basati sulla prossimità e la diversificazione delle colture per la preservazione della biodiversità. Proibita per legge la monocoltura, si andrà ripristinando la fertilità del terreno attraverso produzioni superdiversificate e un’agricoltura basata sulla consapevolezza del potenziale delle risorse naturali e una visione olistica della realtà; un’agricoltura sempre più diffusa e sostenibile in campagna ed in città. Sarà fatto un censimento delle coltivazioni tipiche e ci si adoperarà per l’ottenimento dei marchi territoriali per i prodotti ritenuti idonei, con coinvolgimento di ristoranti, alberghi, mense scolastiche e aziendali, case di riposo e ospedali pubblici e/o privati, affinché programmino l’acquisto, il consumo e la promozione dei prodotti coltivati dalle aziende agricole locali.
Vi saranno politiche agricole appropriate che terranno conto del patrimonio dei saperi antichi che risponderanno alle esigenze di donne, anziani e giovani nel rispetto delle persone e dell’ambiente. Sarà promosso lo sviluppo di politiche pubbliche per l’agricoltura di prossimità che garantisca la priorità alla produzione di alimenti per il mercato locale attraverso orti diffusi su tutto il territorio con prezzi accettabili per i consumaTTori o co-produttori, garantendo l’acquisto attraverso nuove logiche statali e sociali. Sarà sviluppata una politica di credito rurale per gli investimenti di piccole e medie imprese agricole, che darà priorità alla ricerca relativa alla produzione di alimenti con tecniche agroecologiche e che offra ampio accesso ai propri risultati agli agricoltori e li democratizzi rendendoli disponibili a tutta la popolazione. I terreni diventeranno così agro-ecosistemi dove il selvatico e il coltivato possono amalgamarsi, sistemi superproduttivi e rigenerativi. Vi sarà l’adeguamento della legislazione sanitaria della produzione agroindustriale alle condizioni dell’agricoltura contadina e delle piccole agroindustrie, ampliando le possibilità di produzione di alimenti e introducendo una specifica legislazione per i “nuovi” ecoreati.
Sarà promossa l’equa distribuzione della terra con forme di proprietà comuni e collettive e forme di produzioni ecosostenibili, sostenendo la piccola produzione agricola e/o sotto forma di cooperative agricole; scoraggiando l’agricoltura industrializzata basata sull’ingegneria genetica e sulla rivoluzione verde.
Saranno adottati regolamenti adeguati a garantire la salvaguardia dei diritti collettivi da parte delle comunità locali, contadine ed urbane, sulle proprie sementi e varietà tradizionali e su quelle che potranno continuare a evolvere naturalmente. La figura stessa del contadino assumerà quella dignità sociale ad oggi ancora non del tutto riconosciuta: non si dirà più “se non studi andrai a fare il contadino” ma piuttosto “se non studi non potrai fare il contadino ma dovrai andare in Fabbrica, rinchiuderti in un ufficio”.
Le persone avranno a disposizione un’attività coordinata e organica d’informazione e formazione sul rapporto tra alimenti e salute e l’azione informativa e formativa sarà costante e durerà nel tempo, allo scopo di tenere viva l’attenzione del cittadino su ciò che mangia e di orientarlo verso un consumo consapevole e piacevole per comprendere la grande biodiversità della quale siamo ricchi localmente e stagionalmente.
Sarà aumentata la conoscenza e consapevolezza delle persone che riporterà il cibo al centro delle attenzioni della vita quotidiana. Un approccio che troverà il suo spazio in uno stile di vita del 2040 che non lotterà più contro la mancanza cronica di tempo o il forte richiamo dell’effimero dilagante. Sarà il risultato di un approccio “morbido”, di tipo culturale, scientifico e contadino. L’informazione e la formazione del consumatore si baserà sull’emozione, la convivialità e il senso di appartenenza, in modo che “il tornare in cucina” sia un atto gratificante, qualificante.
Ci sarà un miglioramento ed un’evoluzione dell’educazione alla sostenibilità e alla salute, attraverso la sensibilità su questi temi all’interno delle scuole con programmi e corsi specifici da sviluppare fin dai primi anni di vita.
Saranno incoraggiate tutte le relazioni sociali basate su valori che l’umanità sta costruendo da millenni, come la solidarietà, la giustizia sociale e l’uguaglianza. Questi valori non saranno solo dichiarazioni di principio, come avviene oggi, ma orientaranno il nostro comportamento quotidiano, i nostri movimenti, le nostre organizzazioni, le pubbliche amministrazioni e gli stati, nella solidarietà fra agricoltori, fra produttori e consumatori o consummaTTori che dir si voglia, fra cittadini, indipendentemente dal colore della pelle, provenienza, credo politico o religioso. La società avrà un futuro solo se coltiverà i valori storici umani, la biodiversità e la socialità nella pace condivisa. Le società basate sull’individualismo scompariranno. Ci sarà fiducia nella comunità in cui si vivrà.
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