“Negli appartamenti vivevamo appartati, oggi invece viviamo più assieme, condividendo spazi e abitudini. In molti si sono spostati dalle metropoli verso le campagne e i piccoli centri. Abbiamo case passive o a basso consumo energetico e si è praticamente smesso di costruirne di nuove, recuperando gli immobili abbandonati e riqualificando quelli esistenti.”
Hanno contribuito : Juri Battaglini – LUA Laboratorio Urbano Aperto | Mario Festa – Ru.De.Ri Rural Design per la Rigenerazione dei Territori | Enrico Grillo – Rete Mondo Comunità e Famiglia, Condomini Solidali | Francesca Guidotti – Rete Italiana Villaggi Ecologici (RIVE) | Andrea Paoletti – Casa Netural, UUUSHH | Federica Ravazzi INSITI opportunità urbane. Ha facilitato: Andrea Paoletti
Oggi ci troviamo a confrontarci e a convivere con quello che Edgar Morin chiama “l’inatteso, l’inaspettato”. L’attuale crisi economica sta portando alla ridefinizione dei modelli su cui la nostra società si è strutturata fino ad ora, in un mondo in cui molte delle nostre certezze sono crollate. Una tale situazione di profondo cambiamento favorisce l’opportunità per una riflessione approfondita e crea lo spazio per una radicale e sostanziale modifica delle forme dell’abitare intese come capacità interpretativa dell’individuo nell’instaurare un dialogo con l’ambiente circostante. Etica deriva da ethos: è la dottrina della dimora e del comportamento, realtà inscindibili riscontrabili nella duplice grafia della stessa parola ABITARE: habitus e abitazione. Ethos ci conduce alla profonda consistenza dell’abitare e al senso dell’etica, connesso all’attività, alla vita attiva, alla continua trasformazione della realtà (Massimo Venturi Ferriolo).
Il tema centrale dell’Abitare è il Paesaggio, ossia la rappresentazione di come una comunità abita un territorio. Il degrado ambientale è legato direttamente al degrado sociale, all’incapacità della comunità di capire che la sua forza deriva dai rapporti collaborativi e non dall’effimera prevaricazione sugli altri. Mettere al primo posto il Paesaggio come criticità e come emergenza da affrontare nel nostro Paese, significa anche affrontare il tema del consumo di suolo, della speculazione edilizia, dell’inquinamento ambientale, dei rifiuti, della corruzione dilagante, del dissesto idrogeologico.
Anche il patrimonio immobiliare pubblico e privato in disuso è il sintomo di una crisi di valori che la nostra società sta vivendo tra la tendenza ad alienare i beni pubblici e l’incapacità del mondo professionale di dare un senso sociale alla forma delle città e dei luoghi dell’abitare. L’abbandono crea spazi dell’indecisione a cui il pianificatore non ha saputo dare risposte credibili. Gli spazi abbandonati potrebbero essere i luoghi in cui gli abitanti – in particolare i giovani – vanno a “sporcarsi le mani” con l’agricoltura, l’artigianato, l’autoproduzione e l’autorecupero. Invece le fasce deboli della popolazione sono costrette a restare a casa dei genitori, oppure emigrare o occupare. Famiglie e individui che avrebbero le potenzialità per stimolare un cambiamento propositivo nella società e nell’economia non trovano le condizioni culturali nè strutturali per far partire progetti virtuosi.
Abitare la propria casa ha un senso quando lo spazio privato non è uno spazio di privazione o isolamento ma è aperto alle relazioni umane e collegato ad azioni collettive di cura del bene comune e degli spazi pubblici. Ma non c’è ancora né la cultura, né la politica del bene comune, tanto meno la propensione a pensare in modo lungimirante. Così la speranza di un riscatto sociale attraverso le ultime risorse dello Stato, sfuma.
Mettere il paesaggio al centro della riflessione sull’abitare vuol dire anche, come scrive Gary Snyder nel suo libro “Riabitare nel Grande Flusso”, approfondire i contesti naturali da cui provengono le materie prime, e recuperare la consapevolezza del vivere come parte della delicata relazione che unisce tutte le cose viventi e non; riscoprire le caratteristiche geomorfologiche del territorio in cui si vive creando così una nuova/antica definizione di cultura in grado di armonizzare l’esigenza di una giusta società con le esigenze della Terra. Il Paesaggio dunque aiuta a superare la dicotomia città-campagna e porta a riflettere sull’ambiente urbano costruito come il luogo in cui l’uomo dovrebbe ritrovare il proprio ruolo al fianco della natura che offre i materiali per costruire le città provando a contenere gli sprechi. Questo significa affrontare il tema del degrado delle nostre città in maniera costruttiva, lavorando proprio sulla riappropriazione e il riuso come strumento principale del processo di trasformazione, soprattutto in ambiti urbani periferici e degradati dove è prioritario definire nuovi modelli dell’abitare sostenibile. Gli strumenti di pianificazione hanno inoltre confuso il territorio con un insieme di zone da regolamentare con indici senza offrire una prefigurazione del bello che il costruire avrebbe potuto generare. Oggi sono strumenti obsoleti e rigidi così come la legislazione sui lavori pubblici e la mancanza di quadri normativi che si confrontino con le nuove richieste di partecipazione, autocostruzione, gestione dei beni comuni, servizi da parte degli abitanti.
Il tema dell’Abitare potrebbe essere dunque considerato sotto i seguenti aspetti:
Molti non vivono più in rapporto con il contesto naturale, ma hanno come riferimento ambiti precostruiti, perdipiù malamente e spesso in modo gretto ed informe. Questa cosa avvilisce gli uomini adulti e riduce fortemente l’ispirazione, la contemplazione della bellezza, l’abitudine a pensare alto e armonico, soprattutto per i piccoli. Nei contesti urbanizzati, siamo sempre più succubi della delega su tutto: facciamo raramente qualcosa in prima persona, e in generale non riusciamo quasi mai ad abbracciare l’intero processo generativo. Così facendo si perde il senso delle cose, si perde l’appartenenza, e di conseguenza la cura. Perdiamo di vista l’importanza della partecipazione, del dialogo, della collaborazione: il nostro senso di potenza deriva non tanto dalla capacità di intervenire sul contesto quanto dalla possibilità di accumulare ricchezza per acquistare e consumare i beni che non produciamo più. Così quando in tempi di crisi questa ricchezza viene la nostra difficoltà è acuita dall’incapacità di interagire con il contesto. Non sappiamo più camminare da soli, usare i piedi, usare le mani, usare la testa e il cuore.
Non creare un legame tra vita privata e spazio pubblico mina alle fondamenta la costruzione del senso dell’abitare e della comunità. Non conoscersi è una condizione iniziale negativa aggravata dalla mancanza di punti di riferimento fisici, attrezzature per la socialità, piazze, centri culturali, spazi per servizi e dal logoramento dei riti pubblici e delle azioni immateriali come le feste. Nei piccoli centri una forma di resistenza preserva e custodisce reti di relazioni che spesso aiutano le persone a risolvere un problema in un momento di difficoltà. Esiste un mutuo soccorso più immediato grazie alla facilità nei rapporti e il senso di comunità che crea una rete di protezione. Viceversa i grandi agglomerati che tendono a sfilacciare le reti di relazione tra l’uomo e lo spazio urbano. Dunque, considerati i trend di sviluppo della popolazione che porta alla crescita dei grandi agglomerati urbani, l’aspetto qualitativo legato alla quotidianità trascorsa in ambiti urbani periferici e degradati è una delle questioni prioritarie da affrontare per la definizione di nuovi modelli dell’abitare sostenibile.
Un aspetto positivo della situazione attuale è la nascita ed il moltiplicarsi di esperienze di abitare diverso, sebbene le radici di tali esperienze si trovino spesso nel rifiuto di un modello dominante pervasivo e preponderante. Viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinosa chiamava le “passioni tristi”: un senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci porta a rinchiuderci in noi stessi, a vivere il mondo come una minaccia, alla quale bisogna rispondere “armando” i nostri figli. I problemi dei più giovani sono il segno visibile della crisi della cultura moderna occidentale. Continuiamo ad educarli come se questa crisi non esistesse, ma la fede nel progresso è stata ormai sostituita dal futuro cupo, dalla brutalità che identifica la libertà con il dominio di sé, del proprio ambiente, degli altri. Per uscire da questo vicolo cieco occorre riscoprire la gioia del fare disinteressato, dell’utilità dell’inutile, del piacere di coltivare i propri talenti senza fini immediati.
A causa di tutti gli elementi di criticità finora descritti, intorno al tema dell’Abitare, già dagli anni ’60-’70 sono nate le prime comunità intenzionali ecosotenibili: gli ecovillaggi, i cohousing e condomini solidali. Questi sono esempi di abitare e di gestione rurale e urbana ecologica: mirano a ricucire la comunità al suo territorio e a soddisfare al meglio i bisogni di entrambi. Bisogni che nutrono la vita, come il alimentarsi e l’abitare sano, esprimere se stessi, coltivare relazioni, recuperare valori e il contatto con la Natura. In Italia, nel 2015, sono presenti circa 80 progetti di ecovillaggi in vari stadi. Per ecovillaggi si intende nuclei familiari, che condividono una sede abitativa e un progetto di cambiamento di vita in un’ottica ecologica. Pur essendo molto diversi fra loro, l’idea trasversale e comune a tutti i progetti è abitare ecosotenibile, rispettare il contesto naturale-paesaggistico circostante, attraverso la ricerca di materiali naturali, sani e possibilmente locali, la cui filiera di produzione è chiara ed equilibrata. Ogni elemento dell’abitazione passa attraverso un’attenta analisi relativa al risparmio energetico, all’impatto ambientale, alla sinergia tra gli elementi del paesaggio in senso permaculturale e ai parametri di salute fisica e psicologica. L’autocostruzione è stato per molti un metodo di risparmio economico e di costruzione di comunità.
Tuttavia progetti come condomini solidali, cohousing ed ecovillaggi hanno un grado di complessità che pochi tengono in considerazione nelle fasi di start up. Tra le cause principali, la difficoltà di avere una visione chiara del progetto complessivo e una relazione fluida tra le persone. Il nostro modello societario ha fatto perdere la capacità di relazionarsi agli altri e alle differenze, alla responsabilità e alla cura reciproca, ci ha insegnato a guardare il mondo con un’ottica specializzata, sempre meno articolata e capace di integrare le sfumature. Anche per questo, gli ecovillaggi non sono definiti giuridicamente e si devono interfacciare con la società sotto varie forme: associazioni, aziende agricole, cooperative, o anche tutte queste forme contemporaneamente, perché nell’ecovillaggio si intrecciano vari livelli della vita di un individuo e del gruppo: la vita privata, la famiglia, il gruppo come abitanti, i progetti del gruppo e dei suoi membri, l’attività lavorativa, l’abitazione, l’accoglienza di amici e curiosi… il volontariato si fonde con l’abitare e le attività lavorative, in un sistema sinergico che si autoalimenta, si sostiene e crea.
E’ importante poi tenere conto che la ricchezza di queste esperienze è il percorso stesso, spaziale, temporale, interiore, comunitario e che su questo percorso è opportuno saper camminare con pazienza e disponibilità anche ad accogliere (e non fuggire) gli arresti, le cadute, i contrasti, le prove, che non sono segni di fallimento, anzi, spesso sono occasioni per percorrere con nuova lena e consapevolezza. Nodo centrale è la gestione degli spazi urbani da parte degli abitanti. Un modello come quello avviato dal Comune di Bologna avrebbe le potenzialità per superare molte delle criticità legate alla manutenzione e alla cura dello spazio pubblico. Anche il coinvolgimento delle associazioni come nell’esperienza di Lecce ha la capacità di creare start-up legate al mondo dei servizi sociali e culturali che nel tempo siano autosostenibili. Un punto debole è la burocrazia legata allo spazio pubblico (permessi, occupazione di suolo pubblico, tasse comunali, commissioni pubblico-spettacolo) che allontana il cittadino dall’azione diretta. I patti di collaborazione tra cittadini e amministrazione e la creazione di luoghi a burocrazia facilitata sono elementi di particolare importanza per la crescita creativa dei percorsi di apprendimento della cittadinanza intesa come copro sociale a cui appartengono tutti, politici, amministratori, cittadini, tecnici, turisti.
La natura ha creato infinite forme di vita, dai microrganismi, alle piante e animali diversi, una miriade di diversità, che l’uomo in pochissimo tempo ha distrutto. Ha ridotto non solo la biodiversità, ma anche la diversità dei luoghi e delle culture, dei desideri e delle necessità. Per questo noi affermiamo come principio basilare del cambiamento, il principio del rispetto della diversità. Quello che suggeriamo per il nostro Paese e non solo, è iniziare a pensarci come un insieme di ecosistemi, e in ciascuno di esso cominciare una grande opera di riconciliazione.
Partiamo dalle abitazioni. Nel 2040 le case saranno più passive, di varia tipologia ma contestuali all’ambiente in cui sono inserite, costruite con materiali locali, ecologici, di recupero. Molte case scompariranno alla vista grazie all’uso frequente di tetti verdi o pietre locali, la città e il paese saranno fusi in un continuum cromatico con il paesaggio. Può essere legno, pietra, terra, paglia, bambù, o qualsiasi altro materiale risulti biodegradabile o riutilizzabile in futuro.
Tutte le case, dai borghi rurali ai palazzi delle periferie urbane, saranno ottimizzate contro la dispersione di energia con parametri aderenti ai luoghi e sono pensate per armonizzare l’ambiente a chi ci vive. L’abitante partecipa nella sua casa e con la sua comunità al miglioramento del pianeta. Contribuisce alla conservazione dei cicli dell’acqua alla riduzione dell’inquinamento e avvicina il mondo delle piante e degli animali alla città.
Per poter arrivare a costruire comunità pensiamo che occorrano creatività, azione, continuità, ricerca e costruzione della fiducia tra persone, ambiente e istituzioni. Nel 2040 sarà stato varato un programma nazionale per l’accesso diretto, semplificato e trasparente a piccole risorse economiche da parte di gruppi informali di abitanti in collaborazione con il sapere esperto dei tecnici, dei ricercatori, delle imprese per l’attivazione di servizi per la comunità sul tema dell’abitare i luoghi.
Inoltre sarà in vigore un programma industriale che democratizzi e riduca drasticamente i costi di accesso ai beni utili alla sostenibilità ambientale delle abitazioni tanto da poterli inserire come obbligatori per il rilascio dei permessi di costruire.
Nella nostra visione città e campagna sono in costante comunicazione grazie a un doppio legame costituito da tutto ciò che una realtà può fornire all’altra, a partire dai prodotti agricoli fino ai prodotti culturali, dalle materie prime all’alta tecnologia. Un compito da avviare e portare a termine sarà aggiornare la legislazione urbanistica in favore di una strumentazione in grado di accogliere le istanze interessate alla tutela e alla salvaguardia dei territori siano essi in ambiti urbani o naturali e articolato intorno ad alcuni punti fondamentali come la crescita della città per implosione e non per esplosione. Non più crescita a “macchia d’olio” ma greenbelt. Difesa del suolo agricolo attorno alla città e verde urbano dentro la cintura come verde agricolo/orti urbani.
I presupposti e le reti attraverso le quali avviare nuovi programmi ci sono. All’interno della manovra 2015, infatti, è stato predisposto un Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate. Questo documento prevede un piano di finanziamento a supporto dei progetti di riqualificazione di ambiti degradati che risponda a determinati criteri di qualità architettonica e sostenibilità ambientale ed economica.
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