Due giorni fa parlavamo della vicenda dei carri armati Leopard 2, che la Germania era indecisa se inviare o meno e la cui decisione sembrava legata almeno in parte a un’altra decisione, speculare: quella degli Usa di inviare i suoi di carri armati, gli Ambrams M1. Ecco, ieri pare che entrambe decisioni siano state prese, e che a breve arriveranno in Ucraina delle forniture di entrambi i tipi di mezzi.
Vi leggo direttamente dall’Ansa: “Arriva la svolta sui tank per l’Ucraina: gli Stati Uniti sono pronti a inviare gli Abrams M1, punta di diamante dell’equipaggiamento militare a stelle e strisce – secondo la Cnn l’annuncio su 30 mezzi potrebbe arrivare in settimana, ma i tempi di consegna non sono chiari – e la Germania decide la fornitura dei Leopard finora negati. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha infatti annunciato al suo gabinetto l’invio di 14 Leopard 2A6 all’Ucraina. Mezzi che, ha spiegato il ministro della Difesa tedesco Pistorius, potranno arrivare a Kiev nel giro di tre mesi”.
Oltre a questi invii diretti dai paesi produttori, si sta ragionando a livello europeo su un coinvolgimento anche di altri paesi, che potrebbero finanziare l’invio dei carri armati da parte della Germania oppure inviare quelli che hanno acquistato in passato.
La reazione del governo russo non si è fatta attendere e è arrivata sotto forma di una serie di dichiarazioni abbastanza feroci. L’ambasciatore russo in Germania Sergey Nechaev ha detto che la decisione tedesca è “altamente pericolosa”, che “porta il conflitto a un nuovo livello”e che “distrugge quello che resta della fiducia reciproca, infligge un danno irreparabile” ai legami con Berlino e indica “il completo rifiuto della Germania di riconoscere la responsabilità storica” per i crimini nazisti. Non ho capito bene il senso di quest’ultimo passaggio, ma insomma il messaggio è chiaro.
L’ambasciatore russo negli Stati Uniti Anatoly Antonov ha invece detto che le forze armate russe distruggeranno i carri armati M1 Abrams di fabbricazione statunitense e altri equipaggiamenti militari della Nato se verranno forniti all’Ucraina.
Ora, ci sono due questioni. La prima è il progressivo slittamento di cui parlavamo anche martedì verso un coinvolgimento sempre più fattivo di tutto il blocco nord atlantico nel conflitto. Siamo partiti con le sanzioni, per poi passare all’invio di finanziamenti, per poi passare all’invio di armi a patto che fossero difensive, per poi passare. Non so dire quanto questo sia il risultato di un piano prestabilito o semplicemente il seguire l’inerzia del conflitto.
Prendiamo proprio questo esempio dei carri armati. Come spiega un articolo sul magazine di geopolitica Formiche! fin qui l’Ucraina è andata avanti grazie ai mezzi pesanti forniti da Polonia, Repubblica Ceca e Bulgaria, che sono dei carri armati modello T-72, dei mezzi sovietici, che hanno giocato un ruolo importante nella controffensiva, ma per i quali si sono esaurite le scorte di ricambi in caso di danneggiamento. E sono fuori produzione. Quindi se l’Ucraina vuole continuare a usare i carri armati dovrà passare ai carri armati occidentali, in un modo o nell’altro.
Tuttavia questa inevitabile inerzia porta ad alzare via via l’asticella del coinvolgimento Nato. Questo costante e continuo invio di armi ci porta a parlare anche di un’altra questione. Ovvero che i paesi europei, che per fortuna tendenzialmente non hanno questi arsenali militari illimitati, rischiano di rimanere scoperti per la propria difesa. Credo che questo sia una delle principali preoccupazioni dei vari governi nell’inviare ulteriori armamenti. L’Ucraina ha detto di avere bisogno di 300 carri armati per difendersi dall’avanzata russa, fin qui Germania e Stati Uniti ne hanno stanziati (fra sicuri e probabili) meno di 50.
La Germania ha un arsenale di 260 carri armati Leopard 2 di cui solo 160 operativi. Francia e GB hanno numeri simili. La sempre maggiore richiesta di armi sta convincendo parecchi governi ad aumentarne la produzione interna. Ad esempio la Germania ha già deciso di portare a 360 il numero totale di carri armati entro il 2025. E un mondo con più armi, non è un mondo più sicuro, è un mondo più bellicoso. È una dinamica classica, la cosiddetta corsa agli armamenti.
Ora, scusate se torno di nuovo sul discorso che abbiamo fatto martedì sull’assenza di un discorso pacifista. Ma sento il bisogno di sottolineare alcuni aspetti e ribadirli, d’altronde sono alla soglia dei 40 anni e l’età inizia a farsi sentire.
Il mio punto di partenza di questa riflessione è che mi sento abbastanza stupito e un po’ turbato di come centinaia di film, libri, manifestazioni, manifesti, leggi, costituzioni, striscioni, graffiti e tanti altri pezzi di cultura popolare sulla pace (insomma tutto l’arsenale – scusate il termine non proprio felice – su cui si era puntato sull’onda dell’emozione della seconda guerra mondiale in Europa per far sì che niente di tutto ciò succedesse di nuovo) stia svanendo velocemente per lasciar spazio alla narrazione sull’inevitabilità della guerra.
Qualcuno mi scriveva nei commenti che una pace è impossibile perché non si può trattare con Putin, qualcun altro che è impossibile per la ragione opposta, perché gli Usa tanto hanno già deciso tutto e non si fermeranno prima di una guerra totale, qualcun altro ancora che i poteri forti, le lobby economiche vogliono la guerra e quindi c’è poco da fare. Al di là dei pezzi di verità che sicuramente sono presenti in ciascuno di questi ragionamenti, sono tutti modi per dare la colpa a qualcun altro, che poi è il meccanismo fondante della guerra.
Immaginare la pace significa anche mettersi in gioco, uscire da questo schema. Perché il giochino di dire è tutta colpa di qualcuno e noi non possiamo farci niente, non siamo stati noi a volere questa cosa, è un giochino profondamente umano, comprensibile, lo facciamo noi, lo fa il mio prozio col vicino di casa con cui è in causa, lo fa Putin con gli Ucraini, lo fa Biden con i russi, lo facciamo tutti. Ma è esattamente lo stesso meccanismo che porta alla guerra. Dobbiamo esserne consapevoli.
A volte abbiamo questa idea dei potenti come se fossero di una razza aliena, e pensiamo che dietro alle loro scelte si celino chissà quali ragionamenti raffinatissimi. La realtà, temo, è molto più semplice e spaventosa. Sono esseri umani, proprio come noi. Hanno i nostri stessi bias.
L’altra cosa che qualcuno mi ha scritto nei commenti è: allora quale sarebbe la soluzione? Anche qui mi sento di fare una precisazione (scusate, poi la smetto col pippone). Quando parliamo di pace non parliamo di una soluzione specifica, quella è la cosa più banale da trovare. Se voi vi leggete il manuale di CNV di Rosenberg (Le parole sono finestre oppure muri), non è che lui vi dice qual è la soluzione che dovete adottare quando litigate con il vostro compagno o la vostra compagna per chi deve portare fuori il cane alle due di notte. Non è che Rosenberg dice “tirate la monetina” o “fate una volta a testa”. No: lui spiega COME trovare quella soluzione, diversa di volta in volta. La pace, come la nonviolenza, ha a che fare più con il come che con il cosa. Con un’attitudine a osservare in maniera oggettiva i fatti, ad ascoltare le proprie emozioni, i propri bisogni e i bisogni e le emozioni dell’altro.
È questa attitudine che dobbiamo recuperare, credo.
Torniamo a parlare di un caso di cui ci siamo già occupati in passato, quello dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame da circa 90 giorni per protestare contro le misure di carcere duro impostegli dalla giustizia italiana. Leggo dal Post: “Le condizioni di salute di Alfredo Cospito, il detenuto anarchico che sta conducendo uno sciopero della fame dal 19 ottobre nel carcere di Sassari, sono sempre più gravi. Dall’inizio della protesta all’ultima visita medica era dimagrito di 42 chili e il suo avvocato, Flavio Rossi Albertini, ha chiesto che venga urgentemente spostato in un carcere dotato di struttura ospedaliera in modo da poter intervenire nel caso in cui le condizioni di salute del detenuto portassero a una crisi improvvisa.
Cospito protesta perché da aprile, dopo aver già scontato sei anni di detenzione, era stato sottoposto al regime detentivo del 41-bis, il cosiddetto “carcere duro” che prevede diverse pesanti restrizioni. Inoltre, protesta perché la sua condanna a vent’anni di reclusione rischia di trasformarsi in ergastolo ostativo, cioè l’ergastolo che non prevede la possibilità di accedere ai benefici di legge, e che non può essere né abbreviato né convertito in pene alternative.
La dottoressa Angelica Milia, autorizzata a visitare Cospito in carcere, ha detto di avergli sconsigliato di uscire per l’ora d’aria, viste le sue condizioni. La stessa dottoressa ha ricevuto, il 24 gennaio, una diffida da parte del Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria, affinché non rilasci più interviste a Radio Onda d’Urto, una storica radio indipendente che sostiene la protesta di Cospito e le iniziative che vengono organizzate in suo sostegno”.
Questa vicenda – se la volete approfondire trovate sotto fonti e articoli un po’ di materiale – fa un po’ da contraltare all’arresto di Matteo Messina Denaro e ci permette di parlare di carcere duro ed ergastolo ostativo, e dei limiti della sua applicazione, da un altro punto di vista. Vi leggo, su questo, un estratto di quanto scrive Lucrezia Tiberio su Valigia Blu.
La giornalista ha una sua opinione ben precisa, contraria a queste misure, che si può condividere o meno, ma che secondo me è bene capire a fondo. “Il pericolo dietro l’angolo nei dibattiti sull’ergastolo, sul carcere duro è quello di trovarsi davanti un interlocutore che confonde i concetti e accusa chi difende i diritti dei detenuti di essere dalla parte “sbagliata”, dalla parte dei mafiosi o come nel caso Cospito dalla parte dei presunti terroristi contro lo Stato. Questo interlocutore, di solito, si rifugia in una sorta di posizione morale, ma la questione morale, ammesso che esista, non riguarda il detenuto, ma il trattamento che lo Stato decide di riservargli nell’esecuzione della giustizia.
Sia che si decida di adottare un approccio giuridico sia che si dia uno sguardo alla filosofia del diritto, il punto di arrivo rimane uno solo: il sistema detentivo deve essere ripensato alla luce delle garanzie costituzionali.
Bisognerebbe chiedersi: a cosa serve la pena? In estrema sintesi, si può dire che il sistema attuale risponde ai principi di rieducazione della pena, di proporzionalità tra delitto e pena comminata, sulla responsabilità personale di un fatto di reato e sul divieto di infliggere trattamenti contrari al senso di umanità. Non c’è nessun riferimento alla sfera morale. È fisiologico del vivere in società il provare disprezzo per alcuni reati e l’opinione pubblica spesso guida questi sentimenti; quando si parla di giustizia si nomina spesso l’esigenza che la legge sia uguale per tutti. E forse quest’eguaglianza deve esserci anche nella pena, che non può significare esclusione perpetua dalla società.
Non si tratta di negare la colpevolezza di alcuni soggetti, ma l’esecuzione della pena. Lo Stato non può usare nei confronti dei detenuti degli strumenti che sono punitivi a tal punto da negare qualsiasi riappropriazione di libertà nel futuro, perché lo Stato non può essere disumano. Qualunque sia il reato commesso, a prescindere dalla disapprovazione sociale che ne deriva, il carcere non può distruggere l’identità della persona, dovendo conservare l’identità di stato di diritto. E questa è l’unica questione morale sottesa alla vicenda di Cospito e di qualsiasi soggetto ristretto al 41bis o con una pena perpetua”.
Spostiamoci in Africa. in Uganda per la precisione, per parlare di una decisione non esattamente illuminata del governo del paese. Ne parla Rinnovabili.it.
“Per riempire le sue casse con 2 miliardi di dollari, l’Uganda ha scelto di riempire di pozzi petroliferi il Murchison Falls National Park, l’area protetta più vasta del paese, costruire una raffineria sulle sponde del lago Albert e costruire 1.400 km di oleodotto fino al porto di Tanga, in Tanzania. Anche se finora di petrolio in Uganda non se ne è mai estratto: il paese non produce neppure un barile di greggio. E le alternative energetiche non mancherebbero.
L’altroieri il governo ugandese ha annunciato il via al primo programma di perforazione nel giacimento di Kingfisher, nel distretto di Kikuube. È il primo passo verso lo sfruttamento commerciale del petrolio in Uganda. Un punto di non ritorno per un progetto più che controverso che Kampala accarezza da 20 anni, quando le sue riserve di greggio -intatte- sono state stimate in 1,4 miliardi di barili.
“Avviate ufficialmente le attività di perforazione petrolifera nell’area di sviluppo di Kingfisher, nel distretto di Kikuube, con la messa in funzione dell’impianto di perforazione Kingfisher per tutti i 31 pozzi petroliferi, compreso il pozzo più profondo, a oltre sette chilometri di profondità”, ha scritto su Twitter il presidente Yoweri Museveni, promettendo che il primo barile commerciabile sarà pronto nel 2025.
Kingfisher fa parte di un maxi progetto di sfruttamento del petrolio in Uganda da 10 miliardi di dollari lanciato dalla francese Total e della CNOOC cinese. A regime il singolo giacimento dovrebbe produrre 40mila barili di greggio al giorno, circa il 20% di quello che potrà essere inviato per l’export verso la Tanzania.
Il progetto infatti prevede di estrarre il petrolio sotto il lago Albert per destinarlo principalmente all’esportazione dal terminale sull’oceano Indiano. Costruendo ex novo un oleodotto lungo 1.433 km, l’Eacop. Secondo le stime dell’Unione Europea, la realizzazione dell’intero progetto mette 100mila persone rischio di essere sfollate per fare spazio alle infrastrutture petrolifere.
Di nuovo vediamo la nefasta abbinata di stati poco democratici, multinazionali del petrolio e paesi ricchi che vogliono importare oro nero.
Spostiamoci per l’ultima volta, in Giappone. Lo facciamo per riprendere una notizia di cui abbiamo già parlato diverse volte nel corso dei mesi. “A oltre due anni dalla decisione, il governo giapponese ha annunciato che tra qualche mese, tra primavera ed estate, inizierà lo sversamento in mare di 1,25 milioni di tonnellate di un misto di acqua di falda, acqua marina e acqua usata per raffreddare i reattori di quella che fu la centrale nucleare di Fukushima Daiichi, colpita nel 2011 dal terremoto che provocò il più grande tsunami nella storia del Giappone.
Ce ne parla un articolo su The Vision che spiega piuttosto bene la questione, che è ancora molto dibattuta dalla comunità scientifica. Prima di essere sversata in mare, l’acqua sarà trattata per rimuovere la maggior parte dei materiali pericolosi, ma non il trizio, una forma radioattiva di idrogeno che è molto difficile da separare dall’acqua e che rappresenta un moderato rischio per la salute. Secondo il piano – approvato l’estate scorsa dopo essere stato rivisto per maggiore sicurezza e per dare sostegno finanziario per il comparto della pesca locale, a cui andrà un fondo di 50 miliardi di yen (più di 350 milioni di euro) – alla fine il trizio sarà diluito fino a quando la sua concentrazione arriverà a un quarantesimo di quella consentita dal Giappone nell’acqua potabile. La radioattività dovrebbe, quindi, essere ridotta a livelli di sicurezza, paragonabili a quelli a cui ci si espone durante alcuni esami medici o durante i viaggi aerei, e d’altronde tutte le centrali nucleari rilasciano acqua con tracce di trizio in condizioni monitorate e controllate. In teoria, quindi, non dovrebbero esserci minacce per la salute o l’ambiente, secondo quanto sottolineano le autorità giapponesi, che per monitorare la situazione si sono rivolte all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), che continuerà a seguire il progetto applicando i propri standard di sicurezza.
Nonostante ciò, le voci critiche non mancano. Non solo diversi gruppi ambientalisti hanno condannato la decisione, ma anche molti scienziati marini hanno espresso preoccupazione per il possibile impatto sulla vita subacquea e sulla pesca. Anche perché, per esempio, saranno anche presenti tracce di sostanze più pericolose del trizio e con una vita radioattiva più lunga – come rutenio, cobalto, stronzio e plutonio. Questi, infatti, sono presenti nel 70% circa dei serbatoi e per loro natura vengono più facilmente incorporati nel biota marino o nei sedimenti del fondale e, come sottolinea Ken Buesseler, chimico marino della Woods Hole Oceanographic Institution, possono sfuggire al processo di filtraggio, cosa che la stessa TEPCO ha riconosciuto nel 2018.
Tra le posizioni critiche, oltre a quella di Corea del Sud e Cina – che non sorprende, anche per ragioni geopolitiche – e del governo della Micronesia, c’è l’opinione del Forum delle Isole del Pacifico, un’organizzazione internazionale per la cooperazione, il cui segretario generale, Henry Puna, chiede che il Giappone tenga conto che i popoli del Pacifico, che dipendono dall’oceano per la loro sussistenza e sono messi già alla prova dalla crisi climatica, hanno continuato per decenni a sopportare gli effetti a lungo termine dei test nucleari, condotti nella regione per anni soprattutto da parte degli Stati Uniti. Quanto richiesto dal Forum non è, in realtà, di annullare il programma di sversamento, ma di metterlo in pausa fino a quando non si saprà di più delle sue implicazioni, da indagare in collaborazione con “rigore scientifico al fine di ricevere la garanzia della sicurezza necessaria per la salute delle persone e per una sana gestione dell’oceano”. Il Forum, infatti, sostiene che il Giappone stia infrangendo la promessa di dare completo accesso a tutte le prove scientifiche indipendenti e verificabili prima di avviare le operazioni.
#carri armati
Ansa – Svolta in Ucraina, Usa e Germania pronte ad inviare i tank
Formiche! – Perché Kiev ha bisogno di carri pesanti. Parlano gli esperti Ecfr
Analisi Difesa – L’Europa fornirà all’Ucraina carri armati e missili che non ha
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il Post – Le condizioni di Alfredo Cospito sono sempre più gravi
Valigia Blu – Il caso dell’anarchico Cospito al 41bis e la riflessione necessaria sul nostro sistema detentivo
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Rinnovabili.it – Parte la produzione di petrolio in Uganda: “Estrarremo per molto tempo”
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