13 Nov 2023

Ue, accordo storico sul ripristino della natura, ma annacquato – #829

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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L’Unione europea ha trovato un accordo sulla legge per il ripristino della natura. Una legge storica, sebbene la versione finale risulti un po’ annacquata e depotenziata rispetto a quella iniziale. Parliamo anche del clamoroso fallimento del principale progetto di reattori nucleari modulari di ultima generazione, dell’estinzione delle specie viventi che sembrerebbe avere dimensioni maggiori del previsto, di microrganismi mangia plastica che in realtà peggiorano la crisi delle microplastiche e della deforestazione dell’Amazzonia che ha rallentato molto nell’ultimo anno. 

Nella serata di venerdì 10 novembre i legislatori e gli Stati membri dell’UE hanno raggiunto un accordo su una legge a suo modo storica, anche se nell’ultima versione è un po’ meno ambiziosa rispetto a come era stata inizialmente presentata. Sto parlando della legge per la conservazione della natura – questa la traduzione che ne fanno i giornali italiani, anche se il testo in inglese si chiama Nature restoration law, che si tradurrebbe più con ripristino della natura.

Leggo sul Guardian da un articolo a firma di Ajit Niranjan: “La legge sul ripristino della natura, un pilastro fortemente contestato del Green Deal europeo, obbligherà i Paesi dell’UE a ripristinare almeno il 20% delle terre e dei mari entro la fine del decennio. Contiene obiettivi vincolanti per il ripristino di almeno il 30% degli habitat degradati, che saliranno al 60% entro il 2040 e al 90% entro il 2050. Questo è l’aspetto più innovativo della legge che per la prima volta non si limita a proteggere gli ecosistemi, ma a migliorarli (banalmente, lasciandoli in pace), visto che si stima che circa l’80 per cento degli habitat europei sia degradato.

Ma che cosa contiene esattamente? Leggo su Open che “Affinché questi target vengano rispettati, i singoli governi dei Paesi membri dovranno adottare un piano nazionale di ripristino della natura, che descriva in dettaglio come intendono raggiungere gli obiettivi fissati dalla nuova legge. Assieme al ripristino, c’è poi il tema del mantenimento. Una volta che un’area naturale ha raggiunto una buona condizione di salute, i governi dovranno impegnarsi a garantire anche che non si deteriori nuovamente.

Uno dei punto più dibattuti è quello legato al ripristino dei terreni agricoli, punto su cui buona parte del PPE, il gruppo parlamentare di centrodestra che è anche il principale gruppo parlamentare al Parlamento europeo, ha fatto le barricate e si è spaccato internamente sull’accordo (ad esempio la stessa Ursula Von Der Leyen appartiene al PPE, ma è una sostenitrice del piano). Nel testo che ha raggiunto l’accordo, si legge che i Paesi Ue dovranno impegnarsi a migliorare le performance di tre indicatori: il cosiddetto «indice di farfalle delle praterie», la quota di terreni agricoli ad alta biodiversità e lo stock di carbonio nel suolo minerale coltivato. Per quanto riguarda le foreste, le indicazioni contenute nella nuova legge obbligano i Paesi Ue ad aumentare il numero di specie arboree presenti. E, soprattutto, la loro resistenza ai cambiamenti climatici. 

Sul tema dell’agricoltura, un punto molto discusso che è stato aggiunto in questa ultima versione approvata è che c’è una sorta di freno di emergenza per cui si possono non rispettare gli obiettivi se la sicurezza alimentare è minacciata. Il che da un lato potrebbe anche avere senso, ma rischia di diventare una ennesima scusa per ritardare i cambiamenti necessari. Fra l’altro, come dice al Guardian l’ entomologo Josef Settele, “Questo dimostra che non è ancora noto a tutti che il ripristino della natura può migliorare la produzione alimentare nel contesto di una trasformazione del sistema agricolo”.

Una volta approvate le leggi nazionali, a vigilare sull’effettivo rispetto di tutti questi parametri sarà la Commissione europea, a cui il Consiglio ha deciso di affidare il compito di presentare – un anno dopo l’entrata in vigore del provvedimento – una relazione comprensiva delle risorse economiche disponibili a livello Ue per finanziare tutti gli interventi richiesti. Nel 2033, la Commissione dovrà rivedere e valutare l’applicazione del regolamento e dei suoi impatti sui diversi settori: agricoltura, pesca, gestione delle foreste e non solo.

Ora che l’intesa tra le tre istituzioni europee è stata raggiunta, Parlamento e Consiglio dovranno dare il via libera definitivo al testo aggiornato della legge. Un passaggio che, salvo sorprese, non dovrebbe essere niente di più di una semplice formalità. 

Ultimo elemento interessante, ricordato sempre dal Guardian: “Oltre a questi obiettivi formalmente vincolanti (dico formalmente perché poi le leggi devono passare attraverso le leggi attuative a livello nazionale e poi devono essere applicate, per cui un margine per non fare le cose c’è semrpe), l’articolo del Guardian ricorda giustamente che L’UE è anche vincolata da impegni globali. In occasione del vertice sulla biodiversità tenutosi a Montreal lo scorso anno, i leader mondiali hanno promesso di proteggere il 30% del pianeta entro il 2030. Oggi solo il 17% delle terre emerse e il 10% dei mari sono protetti”.

Ora: è un buon accordo? È un cattivo accordo? Come al solito ci troviamo, mi trovo, un po’ in dissonanza cognitiva quando devo valutare questo tipo di accordi. Se osservo quello che stanno facendo gli altri paesi del mondo, se osservo la complessità dei nostri apparati istituzionali e di trovare un compromesso su temi divisivi (che è una roba assurda, ma sì anche le tematiche ambientali sono divisive) in un sistema di governance competitivo e che alimenta le divisioni invece di ricucirle, dico che è un buon accordo, forse persino ottimo. Non era così scontato nemmeno che ci fosse, un accordo. Se osservo la voragine della crisi ecologica in atto e la rapidità con cui dovremmo cambiare rotta, dico che non è un buon accordo, che lascia troppe vie di fuga e non è poi così ambizioso. 

Sono a loro modo entrambi dati di realtà. Più di questo, questo sistema non riesce a produrre, ma questo non è sufficiente. Ergo: dobbiamo cambiare sistema. Dobbiamo cambiare il modo in cui prendiamo le decisioni. Anche da quel punto di vista, qualcosa sta lentamente cambiando, in Europa soprattutto, ma forse, ecco, lì dovremmo iniziare ad accelerare se vogliamo vedere succedere cose più interessanti.

Altra notizia molto interessante ci arriva dagli Usa e riguarda il nucleare, in particolare riguarda i cosiddetti small modular reactor, ovvero i reattori nucleari piccoli di ultima generazione, spinti da molti come soluzione “facile” per la transizione energetica dalle fossili. Sono una tecnologia “nuova”, ma nuova per modo di dire perché se ne parla da decenni, solo che nessuno li ha ancora visti all’opera, sono in fase di sperimentazione e le ultime notizie, di questi giorni, non sono buone per il loro futuro (per il nostro forse un po’ sì). 

Leggo su QualEnergia che “NuScale Power Corp., la prima società ad aver ottenuto l’approvazione del Dipartimento dell’Energia americano per un progetto di reattore nucleare di piccole dimensioni (Small Modular Reactor, Smr), ha cancellato la prevista costruzione della sua prima centrale commerciale per una utility elettrica dello Utah.

La cancellazione è giunta sulla scia dell’aumento dei costi, dovuti soprattutto ai balzi dell’inflazione e dei tassi d’interesse, oltre che dei prezzi elettrici stimati per la generazione, che hanno indotto vari potenziali clienti ad abbandonare il progetto.

La decisione rappresenta una seria battuta d’arresto per questa tecnologia, vecchia di decenni, senza uno standard riconosciuto e mai decollata su vasta scala, ma che molti sperano possa costituire il futuro dell’energia nucleare. 

Paradosso dei paradossi, “Ciò avviene proprio nel momento in cui l’Unione europea sembra voler puntare più decisamente sulla tecnologia Smr. La commissaria Ue per l’Energia, l’estone Kadri Simson, ha detto (mercoledì 8 novembre al Forum sul nucleare a Bratislava), che mira ad avere il primo reattore modulare di piccole dimensioni operativo in Europa “entro dieci anni al più tardi”.

Ma dopo l’annuncio di NuScale sullo stop del suo Carbon Free Power Project le sue azioni sono precipitate di oltre il 27%.

L’articolo poi spiega più nel dettaglio in cosa consiste il progetto NuScale, vi salto questa parte, se volete leggerla lo trovate sotto fonti e articoli. Vi leggo solo un pezzetto che riguarda il prezzo dell’energia generata: “A gennaio, NuScale aveva reso noto che l’obiettivo di prezzo per l’elettricità generata dai reattori nello Utah era aumentato a 89 $/MWh, con un balzo del 53% rispetto alla precedente stima di 58 $/MWh, sollevando preoccupazioni sulla disponibilità dei clienti a pagare”.

Più avanti, leggo: “La notizia potrebbe gettare ombre più dense di dubbio anche su altre iniziative, come quella recentemente annunciata in Italia da Enea e Ansaldo Nucleare, firmatarie di un memorandum di intesa assieme all’americana Westinghouse Electric e ai centri di ricerca Sck Cen (Belgio) e Raten (Romania). L’iniziativa prevede lo sviluppo di reattori Smr, in questo caso con tecnologia di raffreddamento al piombo. E la stessa NuScale mira a costruire Smr anche in Romania, Kazakistan, Polonia e Ucraina.

Tuttavia, l’annessione forzata da parte della Russia dell’impianto nucleare di Zaporizhzhia in Ucraina, insieme ai ripetuti bombardamenti nei suoi pressi, implica che sia rischioso costruire Smr nella regione, secondo alcuni.

Insomma, il nucleare continua ad avere, e causare, parecchi problemi, legati ai costi, ma anche alla sicurezza, soprattutto in uno scenario geopolitico così delicato. Inizio a pensare che in pochi ormai lo ritengano effettivamente una soluzione praticabile. Mi sembra più plausibile che sia diventato un po’ una scusa per ritardare la transizione alle rinnovabili. Del tipo, tranquilli tanto adesso facciamo il nucleare. Solo che poi, in fin dei conti, non lo facciamo.

Va bene, veniamo alla parte un po’ deprimente di questa rassegna. Metto le mani avanti, ci sono notizie non rosee che arrivano dagli studi sulla salute degli ecosistemi, però è importante conoscere e comprendere la dimensione del problema ambientale che abbiamo di fronte, se vogliamo andare nella direzione giusta. Anche se fa male. Come al solito, vale sempre lo stesso suggerimento: se è una brutta giornata, saltate le prossime notizie, trovate il minutaggio delle varie notizie qua sotto nella descrizione testuale. 

Partiamo dal tema biodiversità. C’è una nuova analisi che sostiene che ci siano ben due milioni di specie a rischio di estinzione, una cifra doppia rispetto alle precedenti stime delle Nazioni Unite.

Il motivo di questa discrepanza fra le due stime sono essenzialmente gli insetti. Leggo ancora sul Guardian, questa volta la firma è di Phoebe Weston che “Mentre gli scienziati hanno da tempo documentato il declino di specie di piante e vertebrati, c’è sempre stata una significativa incertezza sugli insetti, con una “stima provvisoria” delle Nazioni Unite del 10% a rischio di estinzione nel 2019.

Da allora sono stati raccolti più dati sugli insetti, dimostrando che la percentuale a rischio di estinzione è molto più alta di quanto stimato in precedenza. Secondo il documento, pubblicato mercoledì scorso sulla rivista Plos One, il numero globale di specie a rischio sarebbe per l’appunto doppia a causa dell’elevato numero di specie di insetti a rischio.

Capire cosa sta succedendo alle popolazioni globali di insetti è stato difficile a causa della mancanza di dati, ma il 97% di tutti gli animali sono invertebrati. E di questo gruppo, circa il 90% è classificato come insetto”. Quindi capite che una variazione nelle stime sul tasso di estinzione degli insetti influenza molto la stima sul tasso di estinzione delle specie considerate nel suo complesso. 

Ma non è solo una questione numerica. Gli insetti sono particolamente importanti perché, come spiega ancora l’articolo “Essi forniscono servizi ecosistemici vitali: impollinazione delle colture, riciclo di sostanze nutritive nel suolo e decomposizione dei rifiuti. “Senza gli insetti, il nostro pianeta non potrebbe sopravvivere”, ha dichiarato Axel Hochkirch, il ricercatore principale. E in questo caso non parliamo solo della specie umana ma dei meccanismi principali che supportano buona parte della vita sulla terra.

Vi salto la spiegazione di come è stato realizzato lo studio, dove c’è un dato interessante, che si collega alla prima notizia,in qualche modo. “Le cause di questo declino sono ben documentate e sono dovute all’attività umana”. In particolare “l’espansione dell’agricoltura, con conseguente perdita di habitat naturali, è il fattore più significativo, seguito dallo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, dall’inquinamento e dallo sviluppo residenziale e commerciale”. 

E ancora: “La constatazione del cambiamento di destinazione d’uso dei terreni agricoli come principale minaccia per la biodiversità è stata spesso riportata. Tuttavia, la nostra analisi è la più completa e inequivocabile fino ad oggi e ribadisce l’entità dell’impatto di questa minaccia su scala continentale”. Insomma, la sicurezza alimentare non l’avremo comunque se scompaiono gli insetti, perché molte specie di piante, comprese quelle agricole, si riproducono proprio grazie a loro. Questo studio fra l’altro mostra anche che dove si sono fatte politiche serie di rinaturazione e conservazione, la situazione è rapidamente migliorata. Insomma, ci siamo capiti, no?

Va bene, qualche altra notizia, vado un po’ veloce. Un’altra novità non esattamente positiva, questa volta sulla diffusione di plastica e microplastiche nel mondo arriva da un altra ricerca. Avete presente quando leggiamo, ne leggiamo molte, quelle notizie tipo: scoperto microrganismo mangia plastica? Ecco, diciamo che non è sempre una cosa positiva. Ad esempio gli scienziati hanno recentemente scoperto che un tipo di zooplancton presente nelle acque marine e dolci è in grado di ingerire e scomporre le microplastiche. Ma invece di fornire una soluzione alla minaccia che la plastica rappresenta per la vita acquatica, le minuscole creature note come rotiferi potrebbero accelerare il rischio scindendo le particelle in migliaia di nanoplastiche più piccole e potenzialmente più pericolose.

Siamo ancora sul Guardian, stavolta a scrivere è Karin McVeigh: “Ogni rotifero”, che sarebbero quei esserini minuscoli e tondi con tante ciglia attorno, forse avrete visto qualche foto, può creare ogni giorno tra le 348.000 e le 366.000 nanoplastiche (particelle più piccole di un micrometro).

Questi animali sono microscopici, onnipresenti e abbondanti: in una sola località sono stati trovati fino a 23.000 individui che vivono in un litro d’acqua. I ricercatori, appartenenti a un team guidato dall’Università del Massachusetts Amherst, hanno calcolato che nel lago Poyang, il più grande lago della Cina, i rotiferi creano ogni giorno 13,3 quadrilioni di queste particelle di plastica.

Già nel 2018 si è scoperto che i krill antartici sono in grado di scomporre le palline di polietilene in frammenti di dimensioni inferiori a un micron. Adesso si scopre che anche i rotiferi, di cui esistono 2.000 specie in tutto il mondo, possono decomporre la plastica. Ed è più preoccupante perché mentre il krill antartico vive in un luogo essenzialmente non popolato, i rotiferi sono presenti in tutte le zone temperate e tropicali del mondo.

“Se i rotiferi possono produrre 13,3 quadrilioni di nanoparticelle al giorno nel lago Poyang, la quantità creata a livello mondiale è incommensurabilmente maggiore. Ogni microplastica potrebbe teoricamente essere scomposta in 1.000.000.000.000.000 di particelle nanoplastiche, che si diffondono più facilmente”. Insomma, un bel casino.

Chiudiamo infine con una notizia positiva. Leggo su Ansa che il tasso di deforestazione della foresta amazzonica brasiliana è calato del 22,3% annuo nel periodo compreso da agosto del 2022 fino a luglio del 2023. Si tratta di dati ufficiali dell’Istituto brasiliano di ricerche spaziali (Inpe), che attraverso le immagini satellitari ha rilevato una diminuzione di 9.001 chilometri quadrati della superficie forestale.

Dai dati dell’Inpe risulta che l’inversione della curva di deforestazione si registra a partire da gennaio 2023, in coincidenza con l’insediamento del presidente Luiz Inacio Lula da Silva. Nel periodo da agosto a dicembre invece, ancora sotto il precedente governo dell’ex presidente Jair Bolsonario, il tasso segna un incremento del 54% da agosto.

Il ministero dell’Ambiente sottolinea che da gennaio a luglio si è registrato un incremento del 104% delle denunce di infrazioni contro la flora dell’Amazzonia, accompagnato da un incremento dei sequestri (+61%), degli embarghi (+31%) e della distruzione di attrezzature (+41%) dei minatori clandestini (garimpeiros). Insomma, sembra che Lula abbia effettivamente imposto una svolta. 

Ovvio che anche qui, l’obiettivo dev’essere la deforestazione zero nel più breve tempo possibile e anzi la rinaturazione di alcune aree, per quanto immagino non sia possibile recuperare la biodiversità e tutte le funzioni ecosistemiche di una foresta pluviale. Ma il trend è incoraggiante, dopo gli anni folli di Bolsonaro.

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