Il conflitto a Gaza ha fatto non dico scomparire, ma finire molto indietro nell’agenda mediatica l’altra guerra, quella che si combatte in Ucraina dopo l’invasione della Russia ormai oltre due anni fa.
Dico l’altra guerra in maniera un po’ provocatoria, perché è l’altra guerra di cui si parla. Mentre ci sono almeno altri 60 conflitti nel mondo che non sfioravano nemmeno l’agenda dei media. Spesso quando parliamo di giornalismo, io e i miei colleghi e colleghe citiamo la teoria dell’agenda setting, ovvero il fatto che i media non determinano ciò che pensiamo su un fatto, ma determinano la lista e l’ordine delle cose su cui avere un’opinione. Quindi in quel senso esistono solo due guerre: immagino che avrete un’opinione sul conflitto in Palestina così come sul conflitto in Ucraina, ma difficilmente la avrete sulla guerra civile in Sudan, sul conflitto dei narcos in Messico, sulla situazione in Siria e Libia e così via.
Quindi ecco, il dimenticatoio mediatico in cui è finito il conflitto in Ucraina è lo stesso in cui si trovano altre decine di conflitti nel mondo, che ci toccano meno da vicino e dei quali ci importa poco o niente.
Comunque, premesso ciò, mi sembra interessante tornare ad osservare quello che succede in Ucraina. Innanzitutto la prima cosa che noto è che, oltre alla questione mediatica, anche il conflitto stesso sembra essere in una fase abbastanza di stallo, in cui non succedono moltissime cose.
Complessivamente, sembra che gli sforzi dell’esercito russo si stiano concentrando soprattutto nell’oblast di Donetsk, uno dei due Oblast che compongono il Donbass, mentre le truppe ucraine starebbero avanzando in Crimea.
La guerra infuria soprattutto nella cittadina di Avdiivka, nel Donetsk, vicina ai territori occupati dalla russia. Un articolo di Giovanni Chiacchio su Inside Over cerca di spiegare come mai proprio lì: “L’assalto russo verso la città di Avdiivka risulta essere motivato da ragioni di natura strategica e politica. Sotto il primo profilo, tale manovra pare finalizzata a obbligare le forze ucraine a distogliere truppe dalla controffensiva attualmente in corso sul fronte meridionale, principale obbiettivo strategico di Kiev. In secondo luogo Avdiivka rappresenta la piazzaforte ucraina maggiormente vicina alla città di Donetsk, ergo la sua occupazione non solo renderebbe molto più complesse eventuali operazioni volte alla liberazione della città (allo stato attuale alquanto improbabili), ma risulterebbe un successo chiave nel disegno russo di occupazione del Donbass.
Sotto il secondo profilo (quello politico), sebbene l’offensiva ucraina abbia generato un rilevante successo tattico quale la liberazione di Robotyne e l’attraversamento della linea Surovokin, gli scarsi guadagni territoriali e la sua iniziale lentezza hanno suscitato diversi malumori in Occidente. La presa dell’ultima “fortezza” di Kiev nell’area di Donetsk avrebbe rappresentato un successo propagandistico molto importante per i russi, potenzialmente in grado di incidere sugli aiuti militari occidentali all’Ucraina.
Tuttavia, come spiega ancora il giornalista, “la presente manovra” si sta rivelando “fallimentare sotto entrambi i profili. Dal punto di vista militare essa non ha generato alcun successo concreto, né alcuna significativa diversione delle forze ucraine, risultando in perdite catastrofiche molto simili a quelle subite nella primissima fase della guerra, durante l’offensiva di Kiev. In secondo luogo essa non ha determinato un qualsivoglia impatto sulle forniture occidentali, le quali hanno ora visto un nuovo capitolo con l’arrivo dei ben noti missili ATACMS, risultati devastanti sin dal loro primo utilizzo”.
Verso la fine il giornalista fa una analisi proprio bellica: “In conclusione, l’offensiva di Avdiivka ha dimostrato come la Russia rimanga un nemico formidabile, in grado di generare masse corazzate molto imponenti anche dopo le pesanti perdite subite nel corso di quasi due anni di guerra, nonché di applicare le lezioni apprese durante il conflitto, adattandosi alle varie circostanze. Tuttavia gli adattamenti russi e le masse combattenti generate non risultano più in grado di porre in essere manovre offensive efficaci ed hanno sinora avuto un impatto positivo solo sul fronte difensivo, segnato dall’assenza di superiorità aerea ucraina e dalla generale scarsità di armamenti a lungo raggio. Un paradigma sempre meno valido in virtù dell’arrivo degli ATACMS”.
In tutto ciò, un elemento che ho notato in quasi tutti gli articoli, è che non si parla quasi mai del numero di morti. Lo noto come una cosa strana, perché in genere è un elemento sempre presente quando si parla di guerre o disastri. Qui invece no. Facendo una rapida ricerca ho scoperto che il motivo principale è che sia l’esercito russo e quello ucraino non rendono noti questi dati. Il motivo, credo possa essere solo uno: sono numeri molto alti.
Ci sono comunque delle stime, che confermano questo sospetto. Leggo dal sito della Radiotelevisione svizzera un interessante articolo di Massimiliano Angeli:
“Il numero dei morti e feriti militari della guerra in Ucraina resta un segreto, probabilmente il segreto meglio custodito di tutti. “Questo è un dato altamente classificato da parte di entrambi i contendenti. I numeri non li sapremo mai – spiega ai microfoni della RSI Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa (RID) -. Possiamo fare stime, possiamo immaginare un ordine di grandezza, ma ripeto, forse è il dato più classificato che esista, considerando anche il tipo di guerra. Un conflitto ad alta intensità, di lunga durata, che consuma tante risorse umane e materiali per entrambi i contendenti”.
Al di là del brivido che mi ha attraversato nel leggere l’espressione “consuma tante risorse umane”, che è l’emblema di come il pensiero consumistico abbia colonizzato ormai ogni asetto, passiamo alle stime: “Dopo oltre 18 mesi di sanguinosi combattimenti le stime variano (e di molto). Il dato più eclatante lo ha messo nero su bianco, il 18 agosto 2023, il New York Times: il numero totale di soldati ucraini e russi, uccisi o feriti dall’inizio della guerra, si avvicina a 500’000, scrive il quotidiano statunitense, citando funzionari USA. In dettaglio, le perdite militari russe si avvicinano a 300’000 (si parla di casualties, persone ferite o uccise n.d.r.), numero che comprende 120’000 morti e 170’000/180’000 feriti. Sul fronte ucraino le perdite militari si avvicinano invece a 190’000 (di cui 70’000 morti e 100’000/120’000 feriti). quindi, insomma parliamo di circa 200mila persone morte. Mandate a morire, perlopiù, soprattutto nel caso russo.
Numeri, quelli del NYT, che secondo Pietro Batacchi “possono essere ragionevoli”.
E che spiegherebbero anche l’ultima notizia, di ieri, che leggo sul Corriere, che “La Russia avrebbe iniziato a reclutare donne da mandare nella guerra in Ucraina. Lo rivela il portale Important Stories (istories), che si definisce una delle poche fonti di giornalismo investigativo independente in Russia, secondo cui verrebbero reclutate donne cecchino e operatrici dei droni per un’unità mercenaria sotto il comando del ministero della Difesa”.
Segnalo anche un lungo e interessante articolo che racconta come il conflitto in Ucraina stia interessando sempre di più anche il mediterraneo. L’articolo, a firma di Germano Dottori, adotta la classica chiave di lettura del magazine ovvero quella della geopolitica. E spiega come il conflitto in Ucraina abbia portato come conseguenza molte più navi militari russe nel mediterraneo, che diventa una sorta di retrovia logistica e che quindi potrebbe vedere il nostro paese in qualche forma coinvolto nel confronto con questa aumentata presenza, e poi anche per il discorso del flusso di migranti.
L’articolo riprende e spiega la strategia della Russia tramite il gruppo Wagner di fornire supporto alle insurrezioni dei paesi africani, in maniera abbastanza speculare a come gli Usa hanno fatto con le repubbliche ex sovietiche. Il cosiddetto smart power. Quindi Wagner non fa tanto un lavoro di sobillare le proteste, ma semplicemente fa sapere che qualora gli eserciti o le popolazioni volessero sovvertire un governo africano filo-occidentale, subito dopo avrebbero il loro supporto. L’articolo cita i colpi di stato del Sahel e la situazione in Niger, soprattutto la deposizione del presidente filofrancese e filoeuropeista (se ha senso usare un termine del genere per un governo africano) Bazhoum, rimpiazzato da una giunta militare. E cita anche gli accordi che i paesi del Sahel hanno con molti stati europei, anzi spesso avevano, sia a livello risorse e materie prime sia a livello di contenimento dei migranti.
Ecco, se questa roba vi interessa, è esattamente il contenuto dell’ultima puntata di INMR+. Sahel, situazione geopolitica e climatica, flussi migratori, interessi dei paesi, narcotraffico, jihadismo. Un accrocchio di roba potenzialmente esplosivo che è molto utile capire.
Allora, saltiamo tutta la parte dei giornali che viene dedicata alla legge di bilancio oggi perché è ancora un lavoro in corso e quindi ne riparliamo quando avremo non dico una legge approvata ma almeno una versione definitiva. E passiamo ad un rapido aggiornamento da Gaza.
Non vi do oggi aggiornamenti dalla Striscia, ma da quello che succede tutto attorno, a livello di posizionamento strategico e politico dei vari attori. Anzi no, un aggiornamento ve lo devo dare e riguarda il numero di morti. Non perché voglia fare il lugubre bollettino quotidiano, ma perché la portata dell’attacco israeliano sta diventando intollerabile, per me, dal punto di vista emotivo. Il ministero della Salute di Gaza ha aggiornato il numero delle vittime dei bombardamenti israeliani all’interno della Striscia che sarebbero circa 6.546, tra cui 2.704 bambini. E le costanti immagini di bambini che mi arrivano, ecco, sono intollerabili. Inumane. Non trovo altre parole per descriverle. Questo per me va al di là di ogni lettura geopolitica, di ogni questione storica.
Va bene, scusate lo sfogo. La notizia principale di ieri è che il presidente turco Erdogan ha dichiarato che non si recherà in visita Israele come inizlamente previsto e che lo Stato ebraico ha approfittato delle “buone intenzioni della Turchia”. “Gli attacchi di Israele a Gaza equivalgono ad assassinio”, ha detto ancora Erdogan. “I miliziani di Hamas sono liberatori, non terroristi”.
Una dichiarazione che suona come una pietra tombale sui tentativi di apertura e dialogo, sull’avvicinamento Israele – Turchia dei mesi scorsi. Qualche giorno fa leggendo un articolo su Limes ci chiedevamo come Erdogan avrebbe risolto il problema di trovarsi nel mezzo al guado, a dover scegliere se coltivare l’alleanza con Israele oppure ambire a paese guida del mondo arabo. Ecco, sembra che abbia fatto la sua scelta, in maniera abbastanza netta.
L’altra notizia grossa, stavolta non di ieri ma di due giorni fa, è che c’è stato uno scontro abbastanza aperto fra il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres e il governo israeliano. Vi leggo la dichiarazione di Guterres: “È importante riconoscere anche che gli attacchi di Hamas non sono arrivati dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione” […] “le sofferenze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E quegli attacchi spaventosi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese”.
Dichiarazioni a cui è seguita la risposta rabbiosa del governo israeliano. L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Gilad Erdan ha chiesto le dimissioni di Guterres, dicendo che il Segretario generale ha dimostrato eccessiva comprensione nei confronti dei terribili atti di violenza commessi contro i propri connazionali. Mercoledì mattina Erdan ha detto che in risposta alle parole di Guterres Israele negherà il visto ai rappresentanti delle Nazioni Unite, aggiungendo di averlo già fatto con Martin Griffiths, rappresentante ONU per gli Affari umanitari.
E questo è quanto.
Continuiamo in qualche maniera a parlare di conflitti, ma cambiamo coordinate geografiche e anche tipologia del conflitto. Ci spostiamo in India, dove il governo sta pianificando, in pratica, la distruzione di un habitat naturale e del popolo incontattato che vi abita.
Leggo dal comunicato di Survival International, l’organizzazione che s occupa della tutela dei diritti delle popolaizoni indigene: “Mentre negli Stati Uniti esce un documentario di National Geographic sulla morte del missionario John Allen Chau per mano dei Sentinelesi incontattati, Survival International denuncia che l’imminente distruzione dei loro vicini meno conosciuti, gli Shompen incontattati, sta passando inosservata.
L’isola di Gran Nicobar, dove vivono gli Shompen, si trova nella parte meridionale delle Isole indiane delle Andamane, lo stesso gruppo di isole in cui si trova anche North Sentinel, casa dei Sentinelesi. La maggior parte degli Shompen rifiuta il contatto, ma il governo indiano sta pianificando di avviare sull’isola un imponente progetto di sviluppo che potrebbe spazzarli via. Si pensa che presto il progetto possa ricevere le autorizzazioni finali.
Se il progetto andrà avanti, vaste aree della loro straordinaria foresta saranno distrutte per essere sostituite da un porto gigantesco, da una nuova città, da un aeroporto internazionale, da una centrale elettrica, una base militare, un parco industriale e 650.000 coloni, con un aumento della popolazione di quasi l’8.000%.
Il governo indiano, infatti, mira a trasformare l’isola degli Shompen nella “Hong Kong dell’India”. Oltre al film di National Geographic, sono in produzione almeno altri due film su Chau e i Sentinelesi.
Anche qui troviamo la stessa dinamica che abbiamo raccontato più volte: vite dal valore diverso a seconda della provenienza geografica. Come ha denunciato oggi la Direttrice del Dipartimento Ricerca e Advocacy di Survival International, Fiona Watson infatti, “Data la grande attenzione mediatica riservata a Chau, potrebbe sembrare che la morte di un occidentale per mano dei Sentinelesi che stavano difendendo le loro vite e le loro terre, valga più della distruzione imminente di un intero popolo”.
Per continuare: “Gli Shompen saranno anche meno noti dei Sentinelesi, ma la minaccia alla loro sopravvivenza è persino più grave, perché su di loro pende l’imminente approvazione di questo mega-progetto. È impossibile immaginare che gli Shompen possano sopravvivere a una trasformazione della loro isola così travolgente e catastrofica. Questo progetto deve essere abbandonato subito. Gli Shompen, come tutti i popoli incontattati del mondo, dipendono interamente dalla loro terra: se viene distrutta, lo saranno anche loro.”
L’India ovviamente sta investendo molto in infrastrutture e “progresso”per tenere il passo con la sua costante crescita demografica, ma gli impatti sugli ecosistemi e sulle popolazioni incontattati del progresso indiano rischiano di essere devastanti.
#Ucraina
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Inside Over – L’assalto di Avdiivka, come interpretare il nuovo assalto delle forze russe
RSI – I numeri segreti sui morti e la guerra tornata in trincea
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#Gaza
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#Usa-Cina
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#lagiornatadICC
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