31 Ago 2023

Gli stupri e il ruolo dei media – #781

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Alcuni casi di stupro (due in particolare) stanno animando il dibattito in questi giorni nel nostro paese. Ne parliamo, ma parliamo soprattutto di come i media ne stanno parlando. Parliamo anche del caso del bacio non consensuale del Presidente della federcalcio spagnola a una calciatrice della nazionale e del governo francese che ha deciso di vietare l’abaya nelle scuole, cioè la lunga tunica della tradizione mediorientale.

Torniamo ad ancorarci un po’ di più ai fatti di questi giorni. Sì è parlato molto, ahimé, e si continua a parlare molto di stupri. Il caso più efferato è quello di due cugine di undici e dodici anni (anche se alcuni giornali riportano 10 e 12 e altri ancora entrambe 13) ripetutamente abusate e violentate da un gruppo di ragazzi perlopiù minorenni, tra cui alcuni figli dei boss delle piazze di spaccio locali (come riporta il Messaggero, Caivano, il comune in provincia di Napoli in cui è avvenuto il fatto, è attualmente la più grande piazza di spaccio d’Europa). 

L’altro caso di cui si è parlato molto è quello di una ragazza diciannovenne stuprata da un gruppo di coetanei al Foro Italico di Palermo. 

In entrambi i casi, oltre al fatto di cronaca, hanno fatto scalpore gli strascichi, l’alone di commenti e giudizi che hanno circondato queste vicende. Nel primo caso sono arrivate persino minacce di stampo mafioso alle madri delle adolescenti e il legale di una delle due donne ha detto che sarebbe stato pericoloso uscire di casa.

Nel secondo caso le minacce, o per meglio dire in questo caso le offese, sono arrivate soprattutto dai social, alla vittima, che dopo giorni di silenzio ha sbottato con un lungo post in cui si sfoga dei tanti insulti ricevuti, cose del tipo “te la sei cercata”, allusioni al fatto che facesse i balletti su TikTok e cose così, dicendo che questi commenti, sommati alla violenza ricevuta, la stanno portando alla morte. 

In tutto ciò ci si è messo anche il giornalista e compagno di Giorgia Meloni Andrea Giambruno, che ieri ha fatto una dichiarazione che ha sollevato un nuovo polverone.

Ora, proviamo a fare un po’ di analisi. Metto le mani avanti, non ho cose particolarmente illuminanti da dire, ma credo che comunque sia importante parlare di queste cose, e più ancora che dei casi in sé del modo in cui i media ne parlano e del modo in cui li commentiamo compulsivamente. Innanzitutto, devo dire, mi colpisce la violenza di questi casi. Ovviamente la violenza dei casi in sé è tremenda, ma mi colpisce anche quella del contesto, in un caso fisico nell’altro virtuale, e quella mediatica.

Il contesto fisico, quello di Caivano, è il contesto come vi dicevo della più grande piazza di spaccio d’Europa, in cui, scrive Open citando il parroco del comune, Don Patriciello, “l’unica struttura ricreativa per i ragazzi del quartiere si è trasformata in un asilo per tossici e in un luogo di violenza. L’ex piscina, dove sono state abusate le due cuginette, versa nel degrado assoluto”. Un contesto che è stato descritto dai media come tremendo, senza speranza, al punto che le vittime e le madri delle vittime sono impossibilitate a uscire di casa temendo ritorsioni.

Sarà una distorsione dovuta al mio lavorare dentro ICC, e al sapere che Scampia, descritta dai media come l’inferno sceso in terra, è in realtà anche un luogo ricco di bellezza e innovazione sociale, ma mi viene spontaneo chiedermi: sarà solo così Caivano? Questo non per sminuire l’orrore della mafia e degli stupri, ma anzi, per portare luce anche su chi cerca nei contesti peggiori di costruire speranza per un futuro diverso. Approfondiremo.

Il contesto digitale invece è quello dei social media, dove le immagini degli stupri sono state condivise e dove una pletora di sconosciuto si è sentita legittimata ad attaccare in questo caso una ragazza vittima di violenza con frasi oscene. Do per scontato che siano atteggiamenti tremendi, ma qui non mi interessa tanto giudicare ma comprendere. Perché centinaia di persone sentono il bisogno di esprimere una opinione, o spesso una condanna, nei confronti di una ragazza che ha subito una delle peggiori violenze possibili? Se avessero visto la stessa persona in faccia, avessero percepito il suo dolore, avrebbero fatto lo stesso?

E allora, forse, mi dico che anche alcuni luoghi digitali sono contesti degradati, dove serve portare un immaginario diverso, degli strumenti diversi. Forse gli algoritmi dei social dovrebbero cambiare, privilegiando i commenti amorevoli e penalizzando il flame? Forse possiamo darci delle regole di convivenza digitale? So per esperienza che anche i bistrattati social network possono essere strumenti utilissimi se usati con consapevolezza. Non so, facciamo dei corsi? Li insegniamo a scuola? Mettiamo una patente tipo scuola guida? Insegnamo CNV a tutti?

E poi c’è la violenza mediatica, che spesso è più subdola, si schiera a fianco della vittima ma in maniera più o meno consapevole continua a dar forza a una narrazione del mondo tossica. Parliamo del caso di Andrea Giambruno, che è quello che sta tenendo banco di più nelle ultime ore. Andrea Giambruno è un giornalista e compagno di Giorgia Meloni che nel corso della puntata del 28 agosto della trasmissione Diario del giorno, in onda su Rete 4, il ha commentato le cronache relative agli stupri delle ultime settimane usando termini ed espressioni piuttosto ambigue. Visto che Giambruno ha lamentato un utilizzo strumentale delle sue dichiarazioni, in parte anche vero, vi leggo la dichiarazione nella sua interezza.

«Uno magari dice a sua figlia: “Guarda, non salire in macchina con uno sconosciuto. Perché è verissimo che tu non debba essere violentata perché è una cosa abominevole. Però se eviti di salire in macchina con uno sconosciuto, magari non incorri in quel pericolo”. […] Forse dovremmo smetterla di far passare questo messaggio ed essere un po’ più protettivi, nel lessico e nel linguaggio. Certo che se tu vai a ballare hai tutto il diritto di ubriacarti. Certamente, questo è assodato. Non ci deve essere nessun tipo di fraintendimento o di inciampo. Però se eviti di ubriacarti o perdere i sensi magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche e poi rischi che il lupo lo trovi».

Che è un po’ un doppio messaggio. Da un lato si dice che uno, anzi una ha il diritto di divertirsi, ubriacarsi, ecc, dall’altra che però in quanto donna è meglio se non lo fa. Ora, provo a prendere il buono, il pezzetto di verità che c’è in questo discorso: è vero che se è importantissimo lavorare per costruire un mondo migliore, più sicuro, meno violento, dove cose del genere non succederanno più, è anche vero che non possiamo far finta che quel mondo esista già.

Credo però che ci sia una questione di opportunità, di ruolo. Chi in qualche modo ricopre un ruolo nella sfera pubblica deve preoccuparsi di fare in modo che queste cose non avvengano sia denunciandole quando accadono, sia facendo leggi o azioni culturali per prevenirle. È sempre scivoloso mettersi nella posizione di dare consigli su come vivere a qualcun altro che ha meno diritti di noi. Non è il nostro ruolo, a maggior ragione se siamo dei personaggi pubblici.

Un articolo del Post parla in questo caso di “vittimizzazione secondaria”, quando la donna che ha subito violenza rivive delle condizioni traumatiche o subisce altra violenza da parte di soggetti che non sono gli autori della violenza primaria. E le rivive proprio nel momento in cui sceglie di parlarne o di cercare aiuto per uscirne (denunciando, ad esempio). 

Oltre a questa singola dichiarazione ho notato, come spesso accade, una certa morbosità nel discorso mediatico. Una descrizione spasmodica dei dettagli, con una mancanza di analisi profonda. Ovviamente c’è una condanna unanime dei fatti, ma usando termini e con una narrazione spesso superficiale quando non scorretta o tossica. 

Nel caso di Caivano mi colpisce l’utilizzo da parte della stampa, quasi tutta, del termine cuginette, per riferirsi alle due vittime di violenza. Un vezzeggiativo che però a mio modo di vedere poco si addice a un caso drammatico di cronaca come questo e che crea un’atmosfera quasi fiabesca, le cuginette contro il branco. Si possono scegliere tanti termini più adatti. Adolescenti, ragazze, semplicemente cugine. 

Credo che, soprattutto se siamo giornalisti o giornaliste, abbiamo il dovere di maneggiare con estrema cautela storie come queste. Dovremmo, dobbiamo, farci sempre cento domande su cosa dire e cosa non dire, quanto andare a fondo, quanto e cosa descrivere, cosa è davvero utile, che termini usare. Dovremmo farlo sempre e in generale, ma ancora di più quando raccontiamo le storie che toccano da vicino la sofferenza umana (e non solo direi, forse la sofferenza in generale).

Restando un po’ in tema, ne approfitto per parlare di uno scandalo che ha coinvolto invece la Spagna, e in particolare il presidente della Federcalcio spagnola, che ha baciato in diretta una giocatrice della nazionale di calcio spagnola che apparentemente non era consenziente.

Vediamoci più chiaro. Il fatto è questo: il presidente della Federcalcio, Luis Rubiales, ha dato un bacio in bocca, a stampo, alla giocatrice della Nazionale Jennifer Hermoso durante i festeggiamenti per la vittoria dei Mondiali femminili, il 20 agosto. C’è un video in cui si può vedere bene l’accaduto ed è evidente che il bacio viene dato da Rubiales a Hermoso senza consenso. 

La vicenda è diventata un caso sportivo e politico internazionale, al punto che Rubiales ha convocato un’assemblea della Federcalcio per parlarne. Molti si aspettavano che si sarebbe dimesso e invece ha rivendicato le sue azioni, sostenuto che il bacio fosse stato intenzionale e un atto «reciproco» ed «euforico» e di essere la vittima di una persecuzione contro di lui aizzata dai media e dal «falso femminismo». 

Dopo quel discorso, però, come spiega il Post, le cose sono precipitate rapidamente. Hermoso ha pubblicato un comunicato in cui ha negato che il bacio fosse stato consensuale e in cui anzi ha accusato la Federcalcio di aver fatto pressioni su di lei.

In due giorni tutte le calciatrici della Nazionale femminile hanno detto che finché Rubiales sarà presidente loro non giocheranno; sabato sera 11 membri dello staff tecnico della Nazionale (ma non l’allenatore) hanno annunciato le proprie dimissioni per protesta, il Comitato disciplinare della FIFA ha sospeso Rubiales per 90 giorni mentre il governo spagnolo, che non può costringerlo direttamente alle dimissioni, ha detto che avvierà un procedimento amministrativo per provare a rimuoverlo dall’incarico. 

Lunedì pomeriggio centinaia di persone avevano manifestato a Madrid a favore di uno «sport libero della violenza machista». Infine anche la stessa Federcalcio spagnola, i cui membri si erano mostrata abbastanza riluttanti a criticare il proprio presidente, ne ha chiesto le dimissioni con un comunicato ufficiale. Rubiales non ha ancora risposto alla richiesta di dimissioni. 

Fine della storia, fin qui. Ora alla luce di quello che sappiamo, come commentare? Credo che qui il punto non siano tanto le intenzioni di Rubiales. È possibile che il PResidente della Federcalcio abbia agito sull’onda dell’euforia calcistica, anche se mi chiedo, avrebbe fatto lo stesso con un membro della nazionale spagnola maschile? 

Ma ammettiamo anche che sia stato colto da un’euforia incontenibile per la vittoria e fosse fuori di sé. Perché in assemblea non si è scusato pubblicamente dicendo che ha fatto una sciocchezza e che non era in sé? Perché affermare che non c’era niente di male in quel gesto, evidentemente non consensuale?

Capisco che per alcuni possa sembrare forse un’esagerazione la reazione che c’è stata. È solo un bacio, si potrebbe dire. Però in fondo si tratta della stessa idea che un uomo possa usufruire della sfera intima di una donna in maniera noin consensuale, la stessa cultura alla base dello stupro. Ovviamente non sto paragonando le due cose come gravità. Ma a maggior ragione, proprio perché non parliamo di una violenza sessuale, sarebbe forse bastata una scusa sentita – perché sì, a volte facciamo delle cazzate, anche per via dell’entusiasmo. Ma questo sminuire e normalizzare il gesto, ecco, questo è stata forse la peggior ammissione di colpa.

Restiamo sul filone, diciamo, dei diritti. Lunedì in Francia il nuovo ministro francese dell’Istruzione, Gabriel Attal, ha detto che nelle scuole francesi non sarà più possibile indossare l’abaya, cioè la lunga tunica della tradizione mediorientale portata dalle donne sopra altri indumenti. Secondo Attal, l’abaya rappresenta un vestito tradizionalmente islamico, e quindi va vietato secondo la cosiddetta legge sulla laicità nelle scuole, che dal 2004 vieta l’ostentazione di simboli e abiti religiosi nelle scuole stesse.

In Francia se ne sta discutendo molto, soprattutto perché non è chiaro se sia corretto interpretare l’abaya come un abito religioso. Dibattiti pubblici simili a quello in corso in Francia sono avvenuti un po’ in tutta Europa negli ultimi anni, anche se nella maggior parte dei paesi le norme su vestiti e simboli religiosi sono molto più permissive.

Il Post passa in rassegna in un articolo le norme di alcuni paesi europei:

“Nel Regno Unito una legge del 2010 approvata dai Conservatori, l’Equality Act, permette a studenti e insegnanti di indossare vestiti o simboli religiosi in classe. La norma si estende anche ad acconciature di capelli riconducibili a una certa cultura: nel 2022 la Equality and Human Rights Commission (EHRC), un’agenzia pubblica che si occupa di promuovere i diritti delle minoranze, ha stabilito per esempio che le scuole britanniche non possono vietare a ragazze e ragazzi di origini africane di legarsi i capelli con trecce molto appariscenti per gli standard occidentali.

In Germania sono i singoli stati ad avere competenza sull’istruzione, e ciascuno può decidere se vietare abiti o simboli religiosi nelle scuole. Euronews scrive che «almeno otto stati hanno introdotto una “legge sulla neutralità” che vieta simboli religiosi nelle scuole pubbliche, anche se in molti casi il divieto non si estende ai simboli cristiani». Negli anni scorsi fra i promotori di queste leggi c’erano soprattutto membri della CDU, il principale partito di centrodestra. A giugno la Corte Costituzionale federale ha invece giudicato incostituzionale una legge dello stato di Berlino che vietava alle insegnanti nelle scuole pubbliche di indossare lo hijab, che le donne musulmane usano per coprire testa, collo e capelli.

Anche in Spagna una competenza simile ce l’hanno le regioni (che si chiamano comunità autonome): e nel caso non esistano norme a livello regionale, sono le singole scuole che decidono se vietare o meno i simboli religiosi.

In Svezia invece la Corte Suprema alla fine del 2022 ha abolito il divieto di indossare lo hijab imposto da due cittadine per le bambine di età inferiore ai 12 anni, citando le leggi svedesi sulla libertà di culto.

In Norvegia nel 2018 il parlamento ha approvato una legge che vieta alle studentesse delle scuole pubbliche di indossare il niqab, il velo che serve a coprire completamente il volto di chi lo indossa, lasciando solo una fessura per gli occhi. All’epoca il dibattito fu piuttosto intenso, e alla fine il divieto fu molto più morbido rispetto alla versione inizialmente proposta.

E in Italia? In Italia non esiste alcun divieto di indossare vestiti o simboli religiosi a scuola. Dal 1977 la cosiddetta legge Reale vieta «l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo». Negli anni i partiti di estrema destra hanno chiesto che questa legge venisse interpretata in maniera restrittiva per vietare i veli più coprenti, come per esempio il niqab. Finora però non è mai stato approvato alcun divieto del genere.

Comunque, credo che la domanda di fondo abbia a che fare con l’eguaglianza. Ho l’impressione che spesso le nostre società, e molto spesso le scuole, confondano l’uguaglianza con l’uniformità, l’omologazione, cosa che spesso mostra una estrema difficoltà ad accettare la differenza. Ogni volta che qualcuno dice gli esseri umani sono tutti uguali, mi verrebbe da rispondere gli esseri umani sono tutti diversi.  

A questo proposito vi voglio leggere un estratto di una riflessione condivisa sulla sua bacheca Facebook dalla giornalista (e collaboratrice di ICC) Francesca Nicastro.

“Se la battaglia per la laicità dello Stato si combatte sull’abaya in classe – ed è quanto sta succedendo in Francia – si è a mio avviso di fronte ad un abbaglio culturale e politico di non poco conto.

Le dichiarazioni del ministro dell’istruzione Gabriel Attal – definito «giovane e rampante ministro macroniano» da un quotidiano italiano – mi hanno lasciata di sale.

Secondo lui, la lotta all’abaya a scuola – la tunica indossata dalle donne musulmane (non si tratta di chador, burqa o veli che coprano il volto) – rappresenterebbe una difesa del «santuario della laicità».

La scelta delle parole dice già tutto: per il Ministro – evidentemente – la laicità, invece di essere “contenitore”, è essa stessa culto, che ha appunto i suoi santuari da difendere, ed essendo tale è inevitabilmente in guerra contro altri culti e altri santuari.

Posto che un autorevole imam ha spiegato che l’abaya è un simbolo culturale, non religioso, perché l’Islam non ha simboli, trovo scoraggiante l’accanimento di taluni governanti francesi contro la libertà.

Per come la vedo, in classe dovrebbero poter entrare – in modo flessibile, situazionale, non ideologico – i simboli identitari che servono a chi quella classe la vive, gli studenti in carne e ossa, per sentirsi “a casa”, riconosciuti e compresi, parti significative di un progetto comunitario più ampio.

In una società multiculturale e multietnica come quella europea, la vera difesa della laicità non si ottiene eliminando tutti i simboli identitari ma dando loro cittadinanza e uguale dignità.

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