Dicevamo ieri che iniziavano le primarie, anzi i caucus, negli Usa, in Iowa nello specifico. I caucus sono una delle due modalità con cui gli iscritti al partito repubblicano e a quello democratico scelgono i loro candidati presidenti, l’altra sono le primarie. Ci sono alcune differenze fra queste due modalità che ieri abbiamo brevemente riassunto, quella principale è che mentre nelle primarie si vota direttamente, nei caucus prima del voto c’è una sorta di assemblea in cui chi vuole può tenere un discorso a sostegno del candidato che intende votare.
Se per quanto riguarda il partito democratico primarie e caucus sembrano più che altro una formalità, visto che Biden è praticamente l’unico candidato (perlomeno l’unico che ambisca alla vittoria) c’era molta attesa per i risultati del primo caucus repubblicano. Trump era dato come favorito, e nessuno metteva in dubbio che avrebbe vinto, il punto era: di quanto? Ecco, i risultati sono stati molto molto netti.
Come racconta un articolo del Post, “Le incognite sui caucus dell’Iowa erano due: 1. se il voto avrebbe confermato l’ampiezza del vantaggio di Trump e quindi l’assenza di una vera competizione, e 2. chi tra DeSantis e Haley sarebbe riuscito ad arrivare secondo e quindi a provare a imporsi come unica alternativa”.
Quindi, come sono andati? Leggo ancora sul Post: “I caucus dell’Iowa non forniscono sentenze definitive sul Partito Repubblicano o sul paese in generale: hanno votato circa 110.000 persone sui 750.000 elettori Repubblicani – erano state 185.000 nel 2016 e 122.000 nel 2012 – in uno stato che ha tre milioni di abitanti. I risultati confermano però la grande presa dell’ex presidente Trump sul pezzo più motivato della base del partito, nonostante il grande freddo e le tempeste di neve che si pensava potessero scoraggiare parte dei suoi elettori; ed è una vittoria storica, perché non era mai accaduto che qualcuno vincesse le primarie del Partito Repubblicano in Iowa con più di 13 punti di vantaggio. I suoi principali avversari, poi, si sono annullati a vicenda.
Nikki Haley, la possibile sorpresa, era data in ascesa in New Hampshire, dove aveva investito molte energie e risorse e dove si vota tra una settimana. Haley non aveva puntato granché sui caucus dell’Iowa, ma se fosse arrivata seconda avrebbe potuto presentarsi credibilmente come l’unica vera alternativa a Trump e magari sperare in un ritiro di DeSantis. Non è successo, e ora rischia di nuovo di spartirsi i voti con DeSantis a vantaggio di Trump.
Ron DeSantis, invece, aveva puntato tutto sull’Iowa, investendoci molto e battendo per mesi contea dopo contea nella speranza di ottenere un grande risultato che potesse lanciarlo anche negli stati successivi: ma la sua campagna elettorale non ha mai ingranato e DeSantis non è mai apparso in grado di competere con Trump.
Comunque, questa prima tornata di votazioni sembra rendere evidente quello che in molti sospettavano: Trump sarà quasi sicuramente il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali e quindi ci sarà di nuovo Trump contro Biden, in una sfida dalle complessità anche anagrafiche: sospetto infatti che sarà la corsa alla presidenza più anziana di sempre, con i due candidati che messi insieme avranno quasi 160 anni il giorno delle elezioni.
A proclamare questa sorta di vittoria prematura e quasi scontata è stato anche lo stesso Biden, che commentando i risultati dei caucus dell’Iowa ha detto: “A questo punto è il chiaro favorito dell’altro campo. Ma il punto è questo, le elezioni saranno sempre tra voi e me contro i repubblicani Maga estremi”. Maga sarebbe l’acronimo di Make America Great Again, lo slogan di Trump. Insomma, Biden è già entrato in clima campagna elettorale, ed è plausibile, se il trend è questo, che vivremo un anno di campagna elettorale presidenziale, in cui lo scontro fra Trump e Biden inizierà prima del solito perché c’è una quasi certezza sui candidati.
E se avessimo dei limiti oggettivi, evolutivi, che ci impediscono o perlomeno ci rendono molto difficile reagire a una minaccia come la crisi climatica? È quello che sostiene uno studio recente, ripreso da GreenReport. Lo studio si chiama “Characteristic processes of human evolution caused the Anthropocene and may obstruct its global solutions”, ovvero “I processi caratteristici dell’evoluzione umana hanno causato l’Antropocene e possono ostacolare le soluzioni globali” ed è stato pubblicato sulla rivista Philosophical Transactions of the Royal Society.
Provo a riassumervi i risultati dello studio. La premessa della ricerca è che «Gli esseri umani sono arrivati a dominare il pianeta con strumenti e sistemi per sfruttare le risorse naturali che sono stati perfezionati nel corso di migliaia di anni attraverso il processo di adattamento culturale all’ambiente”. E che “Nel corso degli ultimi 100.000 anni, i gruppi umani hanno progressivamente utilizzato più tipi di risorse, con maggiore intensità, su scala maggiore e con maggiori impatti ambientali. Questi gruppi spesso si sono poi diffusi in nuovi ambienti con nuove risorse”.
La domanda è: abbiamo le competenze biologiche per invertire questa rotta? O siamo biologicamente, evolutivamente programmati per crescere all’infinito fino ad auto-annientarci? E poi, se queste competenze le abbiamo, in quali condizioni si attivano?
Per rispondere a queste domande il team di ricerca ha esaminato quando e come sono emersi in passato sistemi umani sostenibili. Trovando due modelli generali. Nel primo è il modello in cui i sistemi sostenibili tendono a crescere e diffondersi solo dopo che gruppi di sapiens si sono scontrati con un problema specifico, osservandone gli effetti peggiori.
I ricercatori fanno l’esempio degli Stati Uniti che hanno regolamentato le emissioni industriali di zolfo e biossido di azoto nel 1990, ma solo dopo aver stabilito che causavano piogge acide e acidificavano molti corpi idrici nel nord-est. Questo tipo di modello però non è adatto per problemi globali, perché non possiamo aspettare di vedere gli effetti pegiori della crisi climatica ed ecologica globale prima di agire, perché sarebbe troppo tardi, non avendo un pianeta B.
Il secondo modello invece vede il rapido sviluppo di sistemi cooperativi per la gestione di beni comuni. È un modello più adatto alla gestione di sfide ecologiche in divenire, ma ha un limite: i ricercatori hanno anche osservato che «Forti sistemi di protezione ambientale tendono ad affrontare i problemi all’interno delle società esistenti, e non tra le diverse società».
Significa che si riesce ad agire solo all’interno di una determinata società, regolata da istituzioni competenti. Ad esempio, la gestione dei sistemi idrici regionali richiede cooperazione regionale, infrastrutture e tecnologie regionali, che derivano dall’evoluzione culturale regionale. La presenza o meno di società ad un giusto livello è, quindi, un fattore limitante critico.
E quindi, per affrontare sfide globali, il problema è che non abbiamo istituzioni globali, e il tipo di cooperazione che si genera fra società diverse è troppo debole e finiscono per prevalere gli interessi locali, di stati e aziende, rispetto a quelli collettivi.
E quindi lo studio avverte che «Affrontare la crisi climatica in modo efficace richiederà probabilmente nuovi sistemi normativi, economici e sociali a livello mondiale, che generino maggiore cooperazione e autorità rispetto ai sistemi esistenti come l’Accordo di Parigi. Per stabilire e far funzionare questi sistemi, gli esseri umani hanno bisogno di un sistema sociale funzionale per il pianeta, che non abbiamo».
Come afferma il ricercatore principale, Timothy Waring, «Il problema è che non abbiamo una società globale coordinata che possa implementare questi sistemi. Abbiamo solo gruppi sub-globali, che probabilmente non saranno sufficienti. In un mondo pieno di gruppi subglobali, l’evoluzione culturale tra questi gruppi tenderà a risolvere i problemi sbagliati, avvantaggiando gli interessi delle nazioni e delle imprese e ritardando l’azione sulle priorità condivise. L’evoluzione culturale tra i gruppi tenderà ad esacerbare la competizione per le risorse e potrebbe portare a un conflitto diretto tra i gruppi e persino all’annientamento umano globale.
Questo significa che le sfide globali come il cambiamento climatico sono molto più difficili da risolvere di quanto ritenuto in precedenza. Il problema più grande è che le caratteristiche centrali dell’evoluzione umana probabilmente stanno ostacolando la nostra capacità di risolverle. Per risolvere le sfide collettive globali dobbiamo nuotare controcorrente».
Per Waring quindi la possibile soluzione sarebbe quella di costruire una governance cooperativa, in fretta e su scala globale. Missione difficile, ma non impossibile. Insomma, secondo questo studio istituti come le COP non hanno molte possibilità di risolvere le sfide ecologiche globali. Dovremmo iniziare a ragionare come un unico organismo globale, e dotarci di istituzioni globali, se vogliamo risolvere sfide globali. So che è un tema controverso, ma credo che la chiave stia nel concetto di sussidiarietà. Ogni decisione ha il suo giusto livello, o spesso più livelli. I livelli statali non sono più adatti per gestire molte delle sfide contemporanei. Dobbiamo crearne di nuovi. E paradossalmente credo che dovremmo rafforzare di molto i due livelli più estremi, oggi molto deboli. Quello globale, e quello locale, se serve depotenziando quello che sta in mezzo.
Rinverdiamo in un colpo solo due nostre rubriche storiche: Iononmirassocial, la rubrica in cui condivido e commento i post social più interessanti e Trova il bias, la rubrica / gioco a premi in cui chiedo agli ascoltatori di INMR di trovare il bias cognitivo presente nella notizia.
Qualche giorno fa è stato inaugurato il più lungo cavo elettrico sottomarino del mondo che collega la costa inglese con la Danimarca. Il Post gli ha dedicato un lungo articolo in cui ne venivano messe in luce soprattutto le criticità, fin dal titolo “Il cavo elettrico sottomarino più lungo del mondo ha un grosso limite”. E Gianluca Ruggieri uno dei co-fondatori ed ex presidente della cooperativa energetica ènostra, nonché docente, divulgatore ed esperto di energie rinnovabili, ha pubblicato un post su facebook in cui smonta l’impianto dell’articolo.
Il post FB si chiama “LA TRANSIZIONE SPIEGATA MALE”, riecheggiando le iconiche “cose spiegate bene” del Post. Ve lo leggo:
“è dei giorni scorsi l’inaugurazione del più lungo cavo elettrico sottomarino che collega la costa inglese con la Danimarca. L’interconnessione dei sistemi elettrici di diverse regioni continentali è una delle tante cose fondamentali che sarà necessario fare per realizzare la transizione fuori dalle fossili.
Il Regno Unito ha un sistema elettrico piuttosto isolato e questo nuovo progetto gli consentirà di acquistare elettricità sul mercato nordeuropeo (Nordpool) quando l’offerta sarà conveniente
questo potrebbe accadere ad esempio in giornate durante le quali la produzione eolica danese sia superiore alla domanda locale (una situazione che capiterà sempre più spesso) e la produzione britannica risulti meno conveniente. in prospettiva potrebbe accadere anche il contrario, cioè che una sovrapproduzione britannica possa fluire nell’Europa continentale: dipenderà dallo sviluppo di nuovi impianti, dalle condizioni meteo locali (per la produzione eolica) e dalla domanda elettrica che insieme concorreranno a determinare i prezzi.
In pratica questo cavo è una piattaforma che abilita la miglior collocazione dell’elettricità rinnovabile prodotta oggi e di quella che si produrrà in futuro: uno dei tanti, infiniti, passi che dovremo fare.
Puoi decidere di dare questa notizia in tanti modi diversi, ad esempio sottolineando che il progetto è stato realizzato da un’azienda italia Prysmian (la ex Pirelli cavi…), mostrando come evidentemente non siamo tagliati fuori dalla dimensione industriale della transizione, quando ci sono aziende che lavorano per bene.
Puoi anche decidere di titolare “Il cavo elettrico sottomarino più lungo del mondo ha un grosso limite” e spiegare che se la capacità teorica del cavo è di 1400 MW, nel primo anno ne verranno usati al massimo 800 MW (il 57% del totale). Ma perché poi questo dovrebbe essere un “limite”? Un investimento del genere, che si ripaga in anni di funzionamento ed è fatto soprattutto per le prospettive future, si valuta sul suo funzionamento nel giorno zero?
perché piuttosto allora non titolare “Il cavo elettrico sottomarino più lungo del mondo ha un enorme potenziale di sviluppo”?
Capisco che è una cosa piccola che interessa solo dei flippati totali come me, ma io credo che mostri bene quanto anche negli ambienti più attenti e aperti si fatichi ancora a capire cosa significa realizzare un sistema elettrico flessibile che dovrà avere inevitabilmente “ridondanze” perché quello che finora è stato garantito dalle risorse fossili dovrà essere garantito in modi nuovi e non è mica da certi particolari che si giudica un cavo sottomarino ma piuttosto dal suo creare possibilità e flessibilità ai mercati elettrici di diversi paesi
Ho trovato questa riflessione molto interessante perché mostra come il modo in cui inquadriamo un tema o una notizia, ci porti a costruirci un parere preconcetto sulla stessa. E quindi vi chiedo: qual bias cognitivo, ovvero errore logico, è presente nell’articolo del Post? Vi ricordo che per partecipare a trova il bias dovete:
- essere iscritti alla nl di INMR
- inviarmi una mail personale all’indirizzo andrea.deglinnocenti@italiachecambia.org con il nome del bias, mi serve il nome
Avete tempo fino a venerdì sera, poi sabato mattina vi invierò una newsletter con il nome o i nomi dei vincitori se ci saranno, po comunque con la soluzione. Ai vincitori andrà un premio che scoprirete nella mail stessa.
#Primarie Usa
il Post – Trump ha stravinto le primarie in Iowa
#clima
Greenreport – L’umanità potrebbe non essere evolutivamente in grado di affrontare il cambiamento climatico
#cavo sottomarino #trovailbias #iononmirassocial
il Post – Il cavo elettrico sottomarino più lungo del mondo ha un grosso limite