4 Ott 2024

La storia dei treni in tilt per un chiodo piantato male – #995

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Mercoledì c’è stato un piccolo guasto causato da un chiodo piantato in un posto sbagliato che ha mandato in tilt il traffico ferroviario nazionale per una intera giornata. Come è possibile? E cosa ci può insegnare questa storia? Parliamo anche della manifestazione pro Palestina di domani, vietata dalla questura di Roma, di cosmetica etica e sostenibile e di tagli alle università, in Sardegna

Se mercoledì stavate viaggiando in treno nei dintorni di Roma, è probabile che siate ancora lì. Se invece non eravate in viaggio, probabilmente avrete comunque sentito parlare del caos che ha avvolto le tratte di mezzo paese, partito da un blocco alla circolazione dei treni alla stazione di Termini ma che ha fatto accumulare ritardi su quasi tutte le linee dell’alta velocità.

E non si tratta di un po’ di ritardo, a cui chi viaggia in treno è probabilmente abituato, ma di ore e ore di ritardo, di passeggeri rimasti fermi alle stazioni per buona parte della giornata con tutti i disagi che potete immaginare. Come sempre succede in casi di questa portata, all’indomani sono partite le accuse, i processi, e in mezzo a questo casino anche una faticosa ricerca e ricostruzione per capire quello che è successo. 

Mercoledì sera, a caldo, il ministro dei Trasporti Matteo Salvini – contro il quale in motli hanno puntato il dito – ha dato la colpa a un operaio di un’azienda di manutenzione che avrebbe piantato un chiodo in una canalina in cui passavano cavi elettrici. 

Un fatto poi confermato da RFI, l’azienda del gruppo Ferrovie dello Stato che gestisce l’infrastruttura ferroviaria, ma che da solo non basta a spiegare tutto il caos che ne è seguito. Secondo le prime ricostruzioni, leggo sul Post, il “casino” sarebbe stato causato in realtà da una concatenazione di eventi, una serie di errori e guasti che hanno coinvolto a catena la rete elettrica delle stazioni. 

Vediamo quindi la ricostruzione degli eventi: tutto inizia con gli operai di Str92, l’azienda esterna a cui RFI ha affidato i lavori di manutenzione, che iniziano a lavorare alla stazione di Roma Termini intorno alla mezzanotte e mezza di mercoledì. Era un intervento di manutenzione ordinaria, in teoria semplice e con pochi rischi. 

Solo che tra le 2 e le 3 un operaio dell’azienda esterna ha effettivamente piantato un chiodo in una canalina di plastica dove passavano cavi della centralina che distribuisce l’elettricità negli edifici della stazione di Termini. Quindi ha causato una sorta di parziale blackout di Termini, compresa la sala operativa ovvero il luogo dove viene gestito il traffico ferroviario e controllata in tempo reale l’efficienza di binari, scambi, segnali, sistemi di sicurezza e di alimentazione dei treni. Se la sala operativa si spegne non possono partire i treni e non funziona più nulla, nemmeno gli avvisi e il pannello degli orari.

Ora, direte voi: possibile che un luogo così importante di un’infrastruttura chiave del paese non abbia un’alimentazione di emergenza? E infatti ce l’ha. In caso di interruzione della linea elettrica, entra in funzione un gruppo di continuità ovvero delle batterie di emergenza che continuano a fornire elettricità, ma per un numero limitato di ore. Finché non si scaricano in pratica.

E a Termini il gruppo di continuità è entrato correttamente in funzione fino alle 6:20, quando si è spento perché le batterie si sono scaricate. Ora, direte voi, ma possibile che non ci fosse un secondo sistema di emergenza? E in effetti c’era, o perlomeno doveva esserci. In reti essenziali come quelle che fanno funzionare una stazione ferroviaria infatti – sto leggendo sempre dal Post – c’è un sistema di controllo automatico e segnalazione dei guasti: quando si accende un gruppo di continuità viene mandato un avviso ai tecnici chiamati a intervenire in poco tempo per individuare il problema e in qualsiasi caso garantire l’alimentazione della sala di controllo. Mercoledì mattina l’avviso non è partito e le batterie si sono scaricate senza che nessuno intervenisse. E non si è capito come sia stata possibile questa cosa. Quindi: secondo malfunzionamento.

Ma c’è una terza cosa. C’è una linea elettrica di emergenza che avrebbe dovuto attivarsi e che invece non ha funzionato e anche in questo caso non è ancora possibile capire perché.

Da quel momento di fatto la sala operativa si è spenta e la circolazione si è bloccata in uno dei casini ferroviari (non so bene come altro chiamarlo) più grandi della storia recente. In totale sono stati coinvolti circa 180 treni tra alta velocità e intercity: la maggior parte è stata cancellata, altri sono partiti in forte ritardo da altre stazioni della tratta, tutti gli altri hanno subito ritardi di ore. 

Ovviamente, non appena il guasto è stato evidente e la sala di controllo si è spenta i tecnici sono intervenuti subito. Ma una volta che il sistema si è bloccato non è così facile farlo ripartire. Ricollegare la corrente è un’operazione rapida, ma sono servite due ore per riavviare il sistema informatico e riconfigurare tutte le funzionalità della stazione, soprattutto i segnali e gli scambi che devono essere regolati con l’intera rete.

I primi treni sono partiti alle 8:30. A quel punto però i ritardi avevano già avuto conseguenze su quasi tutti i treni programmati nella giornata, in una reazione a catena ormai difficile da fermare.

Fine della storia. Da lì sono partite una girandola di accuse, in cui, oltre al tizio che ha piantato il chiodo nella canalina sbagliata, l’indiziato principale almeno di una parte della stampa è stato il Ministro delle infrastrutture Matteo Salvini, accusato di pensare troppo ai social e all’autopromozione e troppo poco alla salute delle infrastrutture di cui dovrebbe occuparsi. 

Ora, le indagini in corso da parte della Polizia ferroviaria ci chiariranno se si è trattato solamente di una serie di sfighe, passatemi il termine, o se c’è qualcos’altro sotto. 

Certo è che quello di mercoledì non è stato l’unico guasto recente, ma l’ultimo e il più eclatante di una lunga serie di guasti che negli ultimi mesi hanno interessato stazioni e linee ferroviarie. 

E ci sono sostanzialmente due fattori strutturali, interessanti da osservare, che potrebbero spiegare questo aumento dei guasti. Il primo è che in molte regioni circola una quantità di treni superiore a quanto la rete possa sopportare, perché la rete ferroviaria italiana non ha tenuto il passo con l’aumento dei treni degli ultimi anni. 

Il secondo, che ci ricorda un pattern molto frequente nei disastri nostrani, è il tema degli appalti non sempre chiarissimi quando si tratta di lavori di manutenzione e orari di lavoro spesso sfiancanti. Negli ultimi mesi migliaia di manutentori hanno protestato contro un accordo firmato tra RFI e i sindacati confederali per introdurre nuovi orari di lavoro. Oltre 2.500 ferrovieri hanno scritto una lettera per denunciare le conseguenze dell’accordo, che secondo loro «smantella tutte le tutele contrattuali su orari, turni, riposi giornalieri e settimanali ed erode le tutele normative su salute e sicurezza incidendo pesantemente sulla gestione della vita privata e sociale dei lavoratori». Proprio alla stazione di Termini, all’inizio di giugno, un centinaio di manutentori di RFI ha scioperato e partecipato a un presidio contro i nuovi turni.

Fra l’altro tutto ciò, in maniera un po ‘simbolica, succedeva poco dopo l’incontro a palazzo Chigi fra Giorgia meloni e il ceo di BlackRock Larry Fink in cui si discuteva il futuro di FdS. Incontro a cui, riferiscono i giornali, Salvini non ha partecipato.

Insomma, come spesso accade scavando sotto ai fatti di attualità sembrano emergere radici strutturali (ancora da verificare, sia chiaro) che prima o poi andranno affrontate, se vogliamo risolvere i problemi una volta per tutte. 

In tutto ciò, pensate quello che volete, ma bisogna anche ammettere che Salvini, fra mille critiche che gli si possono fare, ha fatto la prima azione concreta della sua carriera politica per allontanarsi dalle accuse di simpatie per il fascismo. Nessuno potrà dire che quando c’era lui, i treni… ecco.

Domani, sabato 5 ottobre, è attesa una grande manifestazione, non autorizzata, in sostegno di Gaza e contro quello che molti definiscono – e devo dire per quanto mi riguarda a ragione – genocidio da parte dell’esercito israeliano contro un popolo di cui al stragrande maggioranza sono civili inermi. 

La data non è casuale, perché sta per ricorrere il primo anniversario della strage e dei rapimenti orditi da Hamas in cui sono stati uccisi circa 1200 persone, di cui quasi 900 civili israeliani. 

Si sta parlando molto di questa manifestazione e della decisione della Questura di Roma di vietarla. Decisione che però non sembra aver fermato la volontà delle persone di scendere in piazza. 

La manifestazione è organizzata dall’Unione democratica arabo palestinese ed è stata vietata per possibili problemi di ordine pubblico. Gli organizzatori hanno fatto ricorso al Tar che però ha respinto il ricorso, dicendo sostanzialmente che non c’è tempo per fare un’istruttoria seria e che alla luce delle informazioni limitate a disposizione il divieto sembra sensato.

Come vi accennavo però probabilmente la manifestazione ci sarà lo stesso, e molte organizzazioni, centri sociali e altri soggetti hanno detto che scenderanno comunque in piazza. 

Ora, non entro qui nel merito della decisione della Questura, dove è difficile dire da fuori quanto contino effettivi calcoli del rischio di disordine pubblico (che effettivamente ci possono essere) e quanto scelte di tipo politico. La mia sensazione è che vietare una manifestazione così sentita, in un momento così delicato, possa ottenere l’effetto contrario a quello desiderato. O forse proprio quello desiderato, qui dipende da come interpretiamo la realtà. Nel senso che è abbastanza ovvio che una parte dei manifestanti scenderà in piazza comunque, e realisticamente la parte più estrema, magari violenta. Mentre la famiglia coi bambini resterà più probabilmente a casa. 

E quindi aumenta – non diminuisce – la possibilità di scontri e disordini.

Ed è un tipo di dinamica in cui ciascuno rinforza la sua posizione iniziale e il conflitto aumenta. I manifestanti possono dire che il governo e le forze dell’ordine reprimono il dissenso e impediscono loro di esprimersi, il governo e le forze dell’ordine potranno dire – dopo – che avevano ragione a proibire la manifestazione perché era composta da estremisti e violenti.

Un’operazione già iniziata da Repubblica, che ieri titolava “Quelle piazze pro Palestina finite nelle mani dei fan del 7 ottobre”, lasciando intendere che i manifestanti che scendevano in piazza in favore dei palestinesi fossero solo degli estremisti a favore di Hamas. Che per carità, c’è probabilmente una parte di manifestanti che simpatizza per Hamas e che giustifica le stragi del 7 ottobre. Ma titolare così, puntando i fari proprio su questo aspetto, è una scelta editoriale precisa che sottolinea un certo posizionamento. Che all’incirca è quello di chi, di fronte alla sempre più evidente indifendibilità di Netanyahu, tende a screditare la controparte per mostrare che alla fine, è una lotta fra cattivi.

Un plauso invece, sempre su Repubblica, all’articolo dell’ex vicedirettore Massimo Giannini che racconta di come la guerra continui ad essere un ottimo affare per le industrie delle armi soprattutto statunitensi (ma non solo), e di come sia in questo istante, tra flessione dei semiconduttori, crollo dell’automobile e frenata dell’elettrico, l’unico settore trainante dell’economia americana.

Leggo: “Dal 24 febbraio 2022, giorno dell’attacco russo, il valore di Borsa delle prime quattordici aziende americane ed europee del settore è letteralmente esploso: più 59,7 per cento. Dall’8 ottobre 2023, giorno dal quale è partita la controffensiva israeliana a Gaza dopo il barbaro pogrom di Hamas (vabbé qui potremmo discutere sulla scelta dei termini, ma non adesso), il boom dei titoli è stato impetuoso: più 124 per cento (significa valore più che raddoppiato). Negli Usa, a dominare la scena sono Honeywell International, Rtx Corporation e Lockheed Martin. Nella Ue menano le danze la tedesca Rheinmetall, cresciuta del 245 per cento, la nostra Leonardo con un più 139 per cento e poi la inglese Bae System, cresciuta del 101 per cento”. Capite che se l’economia di guerra diventa il settore che traina la crescita, privarsi della guerra diventa difficile, nella pratica.

Interessante anche l’ultima riflessione su come i nomi di certe armi di distruzione siano diventati familiari in questo periodo di guerre in occidente. “I civili muoiono a migliaia, ma sui mercati e sui media è tutto un fiorire di missili e droni, caccia e tank. Ormai di Atacams e di Samp-T, di Shahed-136 e di Ababil, di IAI Barak e di Raphael Gericho, se ne parla la sera a cena, di fronte ai tg di regime, o la mattina al bar, davanti al cappuccino. Di questi micidiali strumenti di morte un’opinione pubblica esausta, assuefatta, narcotizzata discute come fossero giocatori del fantacalcio”. 

Per non assuefarsi alla guerra, per non assuefarsi alla bruttezza, c’è ICC. Oggi pubblichiamo un’altra bella storia di persone che nel proprio settore provano a costruire modelli sostenibili. la storia di oggi arriva dal settore della cosmetica ed è un’intervista che il nostro paolo Cignini ha realizzato alla fiera FLCG a Luigi Panaroni, fondatore de La Saponaria, un’azienda che prova appunto a fare una cosmetica etica a 360 gradi. Vi leggo un passaggio dell’articolo scritto dal nostro Francesco Bevilacqua ma poi vi invitro ad andarvelo a leggere e a guardare la video intervista.

«Il primo aspetto su cui ci concentriamo sono le materie prime: biologiche, a chilometro zero, provenienti da filiere controllate», spiega Panaroni. Ma non basta: il cosmetico biologico si trova ormai un po’ ovunque, compresi gli scaffali della grande distribuzione. E allora qual è il plus di una produzione non massiva? «Il valore in più che diamo noi sono altri aspetti come il packaging. Noi siamo partiti come tutti utilizzando la plastica, nel corso del tempo ci siamo dati degli obiettivi annuali per cercare di eliminare la plastica vergine e attualmente siamo arrivati a più del 92% di plastica sostituita».

Ma quando si parla di sostenibilità, quella ambientale si mescola con quella sociale e anche di questo aspetto La Saponaria si prende cura, come ci racconta Luigi: «I metodi di produzione fanno parte di questa sostenibilità tanto quanto quelli di gestione di altri aspetti, come i rapporti umani e professionali. Penso molto banalmente ai contratti delle persone che lavorano con noi: nelle grandi multinazionali della cosmetica vengono fatti contratti settimanali, cosa che noi evitiamo».

La sostenibilità poi passa anche per le piccole azioni: «A ogni persona che lavora con noi – aggiunge il fondatore de La Saponaria – abbiamo dato una borraccia perché abbiamo deciso di vietare le bottigliette di plastica in azienda. C’è un dispenser di acqua filtrata e ognuno riempie da lì la sua borraccia. Sono azioni che compiamo per ridurre la plastica, piccole ma significative».

Oggi è venerdì, giornata di rassegne sarde. Nella rassegna di oggi si parla di tagli alle Università, un tema piuttosto preoccupante. Alessandro Spedicati, co-conduttore della rassgena assieme a Lisa Ferreli, ci da una piccola anteprima in questo contributo, ma vi invito ad andarvi ad ascoltare la rassegna dove trovate anche tante altre notizie interessanti. 

Audio disponibile nel video / podcast

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