Nella serata di ieri è arrivato il tanto atteso cessate il fuoco fra Israele ed Hezbollah in Libano, preceduto da fitti bombardamenti, annunciato in diretta televisiva daòl premier israeliano Netanyahu e finalmente entrato in vigore alle 4 di notte. Oggi ovviamente questa notizia è la notizia principale in prima pagina di molti giornali, da Repubblica al Corriere al Messaggero. Vediamo meglio in cosa consiste questo accordo.
Se ricordate, l’esercito israeliano ha invaso il sud del Libano a fine settembre, sostenendo di voler mettere in sicurezza il suo confine settentrionale e smantellare la presenza di Hezbollah, che è questa milizia armata, di stampo politico-religioso e molto vicina all’Iran.
Da allora i bombadamenti e gli attacchi da terra in Libano si sono susseguiti quotidianamente, migliaia di civili sono stati, in alcuni casi con attacchi anomali come quello in cui centinaia di cercapersone e walkie talkie di iscritti a Hezbollah sono esplosi simultaneamente.
Ora, dopo oltre due mesi di conflitto arriva questo accordo, il cui punto principale è il ritiro immediato delle truppe dalle zone meridionali del Libano, con l’esercito israeliano che dovrebbe rientrare entro i confini nazionali di Israele ed Hezbollah che dovrebbe spostare le sue forze a nord del fiume Litani (o Leonte). Nel sud del Libano si creerebbe così una zona cuscinetto dove dovrebbe intervenire, con una funzione di peacekeeping l’esercito regolare libanese (che non è quello di Hezbollah).
A garantire il rispetto degli accordi dovrebbe contribuire anche la missione UNIFIL, ovvero la missione di pace delle Nazioni unite le cui basi sono anche state colpite negli ultimi mesi soprattutto dall’esercito israeliano.
Ora la domanda è: reggerà? La sensazione è che sia una pace molto fragile e che il governo israeliano non abbia al momento molte intenzioni di farla durare. Se le amministraizoni di Stati uniti e Francia hanno annunciato l’accordo (mediato da loro) come un successo e come qualcosa pensato per diventare una pace definitiva, invitando anche Hamas a fare un passo verso la fine delle ostilità, mi ha colpito come la stessa cosa sia stata presentata in maniera opposta da Netanyahu che, racconta il Post, ha incentrato tutto il suo discorso sul fatto che la guerra «non è finita», che questa tregua serve soprattutto a far riposare l’esercito, a rifornirlo di armamenti e così via.
Questa scelta viene spiegata dai giornali come una volontà del premier israeliano di rassicurare le frange più estreme del suo governo, quelle ultranazionaliste, suprematiste, tra cui il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che si erano sempre opposti a un cessate il fuoco. Quindi, ecco, firmare un accordo mettendo le mani avanti e dicendo che è solo una roba temporanea, per rassicurare i suoi, mi è sembrato sintomatico davvero di che cosa è il governo di Israele oggi.
L’altro dubbio è se e come il governo libanese potrà controllare Hezbollah e l’area a sud del fiume Litani. Anche se il fatto, riportato dal New York Times, che la guida suprema iraniana Ali Khamenei avrebbe dato il suo assenso alla tregua mette qualche garanzia in più. Anche se mostra anche la portata regionale di questo conflitto.
Comunque, sperando che regga, l’accordo per il cessate il fuoco metterà fine almeno temporaneamente alla fase più intensa degli attacchi di Israele sul Libano. Certo è che in Libano c’è comunque da affrontare una crisi umanitaria senza precedenti. Racconta Domani che ci sono un milione e mezzo di sfollati e che servono aiuti umanitari urgenti.
L’Europa su questo sembra piuttosto divisa. Leggo ancora su Domani che “mentre Francia e Italia sono pronte a sostenere il Libano nella ricostruzione, l’Unione Europea fatica a trovare una posizione unitaria”.
La speranza è che questo accordo possa essere un momento per accelerare anche l’altro accordo sul cessate il fuoco a Gaza, una Gaza ormai praticamente distrutta ma dove l’esercito israeliano continua a sferrare attacchi contro praticamente macerie. Con centinaia di migliaia di sfollati che stanno affrontando il freddo e la pioggia in accampamenti improvvisati.
Un altro caso che tiene banco sui giornali è quello del tentativo di acquisizione da parte di Unicredit di una banca di dimensioni medio grandi, Banco BPM, che il governo sta cercando di fermare. Per capire la cosa però dobbiamo dare un minimo di contesto, sennò ci manca qualche pezzo.
La situazione delle banche in Italia, ma un po’ in tutta Europa, è complessa. L’intero settore è in forte crescita e sia le logiche del mercato che alcune regolamentazioni europee stanno di fatto favorendo la creazione di grandi gruppi bancari, che sono più interessanti per i mercati e tendenzialmente più solidi per il settore bancario in generale. Questo però si traduce spesso in delle grosse concentrazioni bancarie nelle mani di pochi gruppi e in un riassestamento di equilibri fra grosse banche nei singoli paesi.
Nel caso italiano, quello che i giornali stanno chiamando risiko bancario ruota intorno agli equilibri fra le due principali banche, Intesa Sanpaolo e Unicredit. Negli ultimi anni, abbiamo visto Intesa Sanpaolo che ha acquisito UBI Banca, consolidando la sua posizione dominante nel mercato italiano.
Mentre Unicredit, ha adottato una strategia meno aggressiva sotto la guida di Andrea Orcel, ma ora sembra voler tornare alla ribalta con la proposta di acquisizione di Banco BPM, che rappresenta una “preda” ambita per chi vuole rafforzarsi sul mercato italiano, in particolare nel segmento retail, che è quello dei correntisti, dei fondi pensione, insomma dei clienti medio piccoli.
Ma questo annuncio ha provocato una reazione piuttosto dura da parte del governo italiano, soprattutto dai rappresentanti di Lega e Fratelli d’Italia. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha criticato l’operazione, lamentando la mancanza di consultazione con l’esecutivo e ventilando l’ipotesi di usare il golden power, uno strumento che consente al governo di intervenire su operazioni di mercato considerate una minaccia alla sicurezza nazionale, anche vietandole.
Ma come mai tutta questa agitazione? Come mai le operazioni di acquisizione da parte di Intesa San Paolo erano meglio tollerate e quelle invece di Unicredit lo sono meno? I motivi vanno ricercati nelle differenze e specificità delle due mega banche.
Premesso che in entrambi i casi stiamo parlando di due colossi, di due banche che finanziano armi, combustibili fossili e che per questo sono da sempre al centro di polemiche, c’è comunque una questione di interesse nazionale. Intesa Sanpaolo infatti è percepita come una banca più “italiana” rispetto a Unicredit, perché nonostante abbia anche un azionariato internazionale, il suo profilo pubblico è legato al suo ruolo storico nel finanziare l’economia locale, le piccole e medie imprese e il welfare. E con l’acquisizione di UBI Banca, Intesa ha rafforzato questa immagine, ampliando la sua presenza nei territori e consolidando il suo ruolo di “banca di sistema”.
Intesa è anche spesso intervenuta per sostenere settori strategici e crisi industriali, è storicamente una banca amica dello stato, ad esempio ha giocato un ruolo chiave nel salvataggio delle banche venete, ha finanziato progetti infrastrutturali di rilevanza nazionale e ha puntato su un’immagine pubblica di banca che sostiene il risparmio e la crescita economica italiana.
Unicredit invece, soprattutto sotto la guida dell’attuale Ceo Andrea Orcel, ha adottato una strategia più orientata al profitto e alla riduzione dei costi, spesso con tagli e chiusure di filiali, che hanno suscitato critiche per il loro impatto sociale e occupazionale.
E poi anche essendo una banca formalmente italiana, con sede a Milano, il suo azionariato è largamente internazionale. La maggior parte delle sue quote è in mano a investitori istituzionali esteri, come il gigantesco fondo americano BlackRock, il più grande fondo speculativo al mondo.
E vuole acquisire Banco BPM, che invece è ancora considerata una banca con un forte legame territoriale, radicata nelle economie locali. Se venisse acquisita, il governo teme che Unicredit possa “snaturarne” il ruolo, riducendo la sua funzione di sostegno alle economie di prossimità.
Ecco, questo è il contesto. Tornando aIl’attualità, c’è quindi questo gorsso dibattito interno al governo sull’eventualità di usare o meno il golden power, quresta specie di superpotere introdotto nel 2012 e ampliato negli anni (soprattutto dal governo Draghi), che è stato utilizzato in passato per bloccare acquisizioni sospette da parte di aziende cinesi o russe, ma mai per operazioni tra due società italiane, né nel settore bancario.
Quindi se una parte del governo, soprattutto Lega e Fdi, spinge per usarlo, Forza Italia teme che applicarlo a Unicredit e Banco BPM sia una mossa rischiosa, che potrebbe aprire contenziosi legali e attirare l’attenzione della Corte di Giustizia Europea, che già in precedenza raccomandato di limitare l’uso di questi strumenti a casi di minaccia grave e comprovata.
Nel frattempo che si discute, secondo il Post il governo potrebbe adottare una via intermedia, come richiedere dettagli sull’operazione o subordinare l’acquisto a specifiche condizioni, invece di vietarlo del tutto. La vicenda resta comunque molto delicata per il governo e mostra come il confine tra tutela degli interessi nazionali e l’interferenza nei mercati sia sottile e difficile da gestire, perché rischia di scatenare degli effetti boomerang imprevedibili.
Chiudiamo questa puntata un po’ politica con un accenno a un’altra questione che di certo andrebbe affrontata e spiegata meglio, e magari lo faremo nei prossimi giorni, ed è lo scontro interno al M5S fra il suo fondatore e fin qui garante Beppe Grillo e l’attuale capo politico nonché ex premier Giuseppe Conte. È una vicenda che avrebbe penso moltissimo da insegnarci, la parabola del M5S, però per adesso restiamo sulle novità.
La novità è che l’Assemblea costituente del Movimento 5 Stelle ha da pochi giorni finito di votare alcune importanti modifiche allo statuto, ma dovrà farlo di nuovo. Perché il fondatore e “garante” Beppe Grillo ha esercitato il diritto, previsto dallo statuto stesso, di chiedere la ripetizione della votazione.
Si voterà di nuovo quindi tra il 5 e l’8 dicembre e fra le altre cose gli iscritti dovranno decidere se abolire la carica di garante, ricoperta da Grillo dal 2017, e se eliminare la regola dei due mandati, che impedisce ai politici del Movimento di essere eletti più di due volte.
Nella prima votazione il 62,3 per cento degli iscritti al partito aveva votato per l’abolizione del garante, e il 72 per cento per abolire la regola dei due mandati. La nuova votazione sarà valida solo se parteciperà più della metà degli iscritti aventi diritto. Ne riparleremo.
In conclusione vi voglio segnalare un articolo molto interessante che esce oggi su ICC e che parla di che cosa sta succedendo a Riace, il paese calabrese diventato un modello di integrazione di persone migranti e il cui sindaco Mimmo Lucano è finito al centro di una vicenda giudiziaria interminabile, che ha evidenti motivazioni politiche. Comunque l’articolo è davvero interessante, perchè a Riace continuano a succedere cose sorprendenti.
#Libano
il Post – C’è un accordo per il cessate il fuoco fra Israele e Hezbollah
#banche
il Post – Non sarà facile per il governo usare il “golden power” per fermare Unicredit
#M5S
Ansa – Grillo sfida Conte e fa rivotare gli iscritti. L’ira dell’ex premier: ‘Sabotaggio estremo’
#Riace
Italia che Cambia – Cosa sta succedendo a Riace? Cronache dal borgo del sindaco Lucano rinato insieme ai migranti