29 Nov 2021

Le contraddizioni della transizione ecologica nella voce degli indigeni – #418

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Le popolazioni indigene vivono una contraddizione enorme. Sono le più colpite dai problemi ecologici e dalla crisi climatica, sarebbero le più adatte a custodire la biodiversità e proteggere gli ecosistemi, eppure sono quasi sempre escluse o lasciate ai margini dei negoziati e oggi subiscono persino le conseguenze e le contraddizioni della transizione ecologica delle società più ricche.

Oggi puntata speciale dedicata alle società indigene e native e al loro ruolo chiave, ma anche spesso ignorato e bistrattato, all’interno dei processi di transizione ecologica, vera o presunta tale, in atto nel globo. Lo facciamo come al solito partendo da alcuni articoli pubblicati in questi giorni sui giornali.

Kenya, il dramma delle “aree di conservazione”

Partiamo da un articolo pubblicato da Terra Nuova che racconta la drammatica situazione in Kenya delle popolazioni che vivono nelle cosiddette “aree di conservazione”. A farvi luce è un nuovo rapporto dell’organizzazione statunitense Oakland Institute, anche se la situazione viene denunciata già da un decennio da Survival International ed è la seguente

Il rapporto indaga sulla famigerata Northern Rangeland Trust (NRT), un’organizzazione che riunisce 39 “aree di conservazione comunitarie”, una sorta di aree protette, che si estendono per oltre 42.000 kmq, quasi l’8% della superficie del Kenya. Queste aree prima erano pascoli utilizzati dalle comunità pastorali locali che – emerge dal rapporto – sono state escluse con la violenza quando sono state convertite in “aree di conservazione” gestite dalla NRT. 

Parliamo delle terre ancestrali dei popoli pastori come i Samburu e i Masai, che le gestiscono da tempo immemorabile e ai quali esse sono state espropriate con la violenza. Ma non solo: le indagini documentano dettagliatamente altre attività scioccanti come abusi e torture – incluse esecuzioni extragiudiziali e sparizioni – e l’impiego di forze di sicurezza militarizzate. 

Ma chi e cosa c’è dietro la NRT? C’è in primis il suo fondatore, Ian Craig, la cui famiglia era proprietaria di un enorme allevamento di bestiame poi trasformato nella Lewa Wildlife Conservancy, che poi ha iniziato a acquisire terreni. Ma c’è soprattutto un enorme giro d’affari

Alcune di queste aree sono proprietà di privati, che gestiscono il business del turismo di lusso. Ma il rapporto rivela anche che la NRT riceve milioni di dollari in finanziamenti governativi – dall’Unione Europea, dalle agenzie governative statunitensi, da fondazioni private – nonché ingenti somme da organizzazioni per la conservazione, tra cui The Nature Conservancy, Conservation International e WWF. Fondi che le vengono destinati alla conservazione della natura.

Inoltre la NRT si sta muovendo verso il mercato del carbonio e delle compensazioni di carbonio come ulteriore fonte di guadagno. Quindi sostanzialmente vuole attirare finanziamenti da parte di aziende e istituzioni estere per piantare alberi e cose di questo genere. E, cosa sconvolgente data l’abbondanza di prove di abusi dei diritti umani, l’Unione Europea sta portando questo sistema come modello nel suo nuovo progetto NaturAfrica.

Come ha dichiarato la direttrice generale di Survival International, Caroline Pearce, «le “aree di conservazione” hanno coltivato a lungo l’immagine di una lussuosa e armonica immersione nella natura, con paesaggi africani incontaminati e abitanti locali felici, spesso in abiti pittoreschi. Ma è semplicemente una facciata che nasconde lo sfruttamento e gli abusi di potere ai danni dei popoli indigeni e locali».

Proteggere la biodiversità?

E il problema non è solo in Kenya. Non si tratta di un caso isolato, tant’è che l’idea di ampliare la rete mondiale di aree protette, al centro della strategia delle Nazioni Unite sulla biodiversità, ha suscitato la reazione di circa 200 associazioni che si occupano dei diritti delle popolazioni native. 

Mi riferisco alla famosa strategia 30X30, che mira a raggiungere il 30% di terre e di mari protetti entro il 2030 ed è uno degli obiettivi principali delineati nella prima bozza del Quadro Globale per la Biodiversità post-2020, un piano d’azione pensato per salvaguardare la biodiversità e combattere i cambiamenti climatici.

Ma è immaginabile usa sostenibilità fatta sulla pelle delle popolazioni indigene? E quale biodiversità stiamo proteggendo se cacciamo le popolazioni che abitano quelle terre da secoli?

Secondo Survival International, intervistati in questo caso da Focus, la soluzione è un’altra ed è semplice: lasciare che siano gli indigeni a occuparsi delle proprie terre. Questi popoli sono i migliori custodi dell’ambiente e secondo studi recenti laddove i loro diritti territoriali sono riconosciuti, i livelli di deforestazione e degli incendi sono notevolmente inferiori anche a quelli nelle aree protette, si hanno effetti di mitigazione dei cambiamenti climatici ed esiste un legame diretto e vitale tra diversità culturale e biodiversità. Non è un caso che l’80% della biodiversità del pianeta si trovi proprio nei territori indigeni.

Eppure, quando si tratta di prendere decisioni ufficiali a livello internazionale su biodiversità e cambiamenti climatici, i rappresentanti delle popolazioni indigene non siedono quasi mai ai tavoli dei negoziati. È vero che il Glasgow Climate Pact riconosce l’importante ruolo dei soggetti non statali, compresa la società civile, i popoli indigeni, i giovani e altri soggetti, nel contribuire ai progressi verso l’obiettivo della Convenzione. Ma i popoli indigeni non erano invitati: anzi, diverse delegazioni erano fuori a protestare.

Come ha dichiarato a Fanpage Ita Mendoza dalle strade di Glasgow, dove si trova in rappresentanza del suo popolo indigeno dell’Oaxaca in Messico «la COP è un grande business, una continuazione del colonialismo in cui le persone vengono non per ascoltarci, ma per fare soldi con la nostra terra e con le risorse naturali». I leader degli indigeni vedono nella riforestazione, nell’uso di biocarburanti e nelle altre soluzioni proposte dai potenti presenti alla COP26 un altro modo per privarli delle loro terre, che determinerà ulteriore sofferenza, oltre che perdita ambientale e culturale.

Rivolte in Sudafrica

É quello che sta succedendo in questi giorni anche in Sudafrica. Il paese è sulle prime pagine di tutti i giornali soprattutto per la nuova variante “sudafricana” del Covid, ma in questi giorni è in corso anche una grande protesta di alcune popolazioni indigene contro il Governo, accusato di aver stretto un accordo con Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti, con la supervisione dell’Unione europea, per accelerare la decarbonizzazione del paese africano.

Cosa importante, ovviamente, ma come è stata fatto questo accordo? La Just energy transition partnership, stipulata alla conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, mira ad abbattere le emissioni di CO2 del Sudafrica con un impegno iniziale di 7,5 miliardi di euro. Solo che è stato siglato senza consultare le popolazioni che abitano i territori in questione.

Secondo l’Ifnasa, un’organizzazione per i diritti civili indigeni, l’accordo viola la dichiarazione dei diritti delle popolazioni indigene adottata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2007. E potrebbe sostenere lo sfruttamento delle risorse naturali e minerarie dei territori per il guadagno a lungo termine dei paesi industrializzati, a scapito dei diritti delle popolazioni indigene.

Proteste a Panama

Dall’altra parte del mondo – a Panama – e qualche settimana prima – il 29 ottobre – un gruppo di indigeni del popolo Ngäbe-Buglé che ancora resiste sulle rive del fiume Tabasará, nella zona adiacente al progetto idroelettrico di Barro Blanco, è stato sgombrato con la forza dalla polizia nazionale panamense. Ne parla Redattore Sociale.

Uomini, donne, bambini e anziani sono rimasti gravemente feriti dall’impatto di proiettili di gomma sparati dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa. La polizia ha dichiarato che quattro agenti sono rimasti feriti negli scontri e che gli indigeni hanno rifiutato le cure dei paramedici.

Ancora una volta nella zona di Barro Blanco (Caña Blanca de Tolé, provincia di Chiriquí) i membri della comunità indigena Ngäbe-Buglé hanno sofferto la repressione di uno Stato che non riconosce il loro diritto di abitare un territorio al quale sono legati ancestralmente.

I leader della comunità affermano che vivono lì da anni, denunciando inoltre che il terreno dal quale sono stati sgomberati con la forza è di “pubblica servitù” e che su di esso pende un contenzioso amministrativo non ancora risolto. Sottolineano poi che alcune delle famiglie espulse venerdì 29 ottobre hanno perso i loro terreni a seguito della costruzione della diga sul fiume Tabasará.

Gli indigeni continuano dunque a battersi per la loro terra, anche se hanno perso ormai da anni la battaglia per la costruzione della centrale idroelettrica di Barro Blanco, mega-progetto che ha inondato 250 ettari di territorio e “ucciso” il fiume Tabasará.

Cambiare paradigma

Insomma, qui non è che stiamo mettendo in discussione la necessità di una transizione ecologica, vera. È forse la cosa più urgente e importante che dobbiamo fare al mondo. Ma una transizione ecologica vera passa inevitabilmente anche per un cambiamento profondo nelle relazioni fra esseri umani e ecosistemi e fra esseri umani e altri esseri umani. Se nel costruire l’economia verde riproduciamo le stesse storture, ingiustizie e violenze dell’economie tradizionali, non stiamo facendo nessuna transizione.

E non è un discorso retorico o buonista, sono le scienze dei sistemi complessi che ci dicono che il come facciamo qualcosa conta in fin dei conti persino di più del cosa facciamo, per via delle dinamiche dei sistemi e di una serie di fattori, chiamateli cicli di retroazione o eterogenesi dei fini.

Senza contare che ormai numerosi studi, fra cui l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, mostrano che lasciare che a gestire le foreste siano le popolazioni indigene è di gran lunga il miglior modo per preservare un bene prezioso per tutto il mondo, non solo per loro.

Considerate che i tassi di deforestazione calano di oltre il 50% nelle foreste gestite da popolazioni indigene. Che poi non sono “gestite”. Gestite è un termine molto antropocentrico. Le popolazioni indigene sanno una cosa che noi abbiamo scordato. Che siamo noi esseri umani a essere gestiti dagli ecosistemi e non viceversa e che è la nostra sopravvivenza che dipende dalla salute degli ecosistemi e non viceversa.

Per fortuna ci sono anche casi positivi in cui la “gestione” di intere aree e foreste è affidata ufficialmente proprio a queste popolazioni. Ad esempio l’ultimo in ordine cronologico è quello della Daintree, la foresta pluviale tropicale più antica del pianeta, una delle principali attrazioni dell’Australia, che a ottobre è stata “restituita” alla proprietà e alla custodia degli aborigeni.

Il popolo Kuku Yalanji orientale infatti, gestirà questo parco nazionale insieme al governo dello Stato del Queensland. L’accordo è stato siglato dopo quattro anni di trattative, costituisce un importante precedente e include altri siti, tra cui Cedar Bay, Black Mountain e Hope Islands, per un’area complessiva di 160 mila ettari.

Fonti e articoli

#biodiversità
FanPage – Perché le terre sacre dei popoli indigeni sono fondamentali per lotta ai cambiamenti climatici
GreenMe – I popoli indigeni, custodi della Terra, pronti a “invadere” la Cop26 (da cui sono stati esclusi)
Valigia Blu – Dalla difesa del territorio alla COP26: il messaggio delle delegate indigene a Glasgow
Rinnovabili.it – I popoli indigeni sono la miglior tutela contro la deforestazione

#Alaska
Fili Diritto – Giustizia riparativa e popoli indigeni artici: l’esempio dell’Alaska (USA)

#storie
GreenReport – Clemencia Herrera Nemerayema, una donna ribelle per l’Amazzonia che resiste
Ohga – Scomparsa un’attivista ambientale indigena in Messico: da anni lottava per fermare il disboscamento illegale

#30×30
Nigrizia – Ecosistemi protetti, ma insieme ai popoli indigeni
Focus – Obiettivo 30% aree protette: perché non è una buona idea

#Indonesia
GreenMe – L’Indonesia affida agli indigeni la gestione delle foreste: vittoria storica

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