13 Dic 2023

Tav e dintorni: il ritorno al passato della politica delle grandi opere – #848

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Torniamo a parlare di Tav, con l’inaugurazione del cantiere italiano previsto per il 18 dicembre e le proteste che tornano a montare. Come mai il governo torna alla ribalta con le grandi opere del passato? Parliamo anche di una guerra di cui nessuno parla, quella nel Tigray, in Etiopia, ma che ha ucciso e sta uccidendo una quantità inverosimile di persone, per poi fare gli ultimi aggiornamenti dalla Cop 28 di Dubai.

Ancora Tav. Ma non dovevamo vederci più? Dopo aver riesumato dal tumulo il progetto del ponte sullo stretto, ecco un altro fantasma del passato che si riprende le prime pagine dei giornali. Il Tav o la Tav che dir si voglia. Fra l’altro, piccolo dettaglio, se come me ogni volta vi fermate un secondo a pensare si bisogna usar eil maschile o il femminile, sappiate che l’Accademia della crusca ha detto che vanno bene entrambe, perché l’acronimo in sé richiederebbe il maschile (Treno ad alta velocità), ma spesso con Tav si si sottintende la linea ferroviaria, che è femminile. E ha notato che i favorevoli all’opera la chiamano più spesso al femminile e i contrari al maschile. Vabbé dettagli.

Comunque dicevamo, IL Tav è assurto nuovamente agli onori della cronaca negli ultimi giorni, perché il 18 dicembre, alla presenza di Matteo Salvini, verrà inaugurato il cantiere anche dal lato italiano (da quello francese i lavori sono già partiti), cantiere che lavorerà al tunnel di base. Fine lavori prevista nel 2032, almeno stando alle parole di Maurizio Bufalini, direttore generale di Telt, la società italo-francese creata ad hoc per gestire i lavori.

Ovviamente questa improvvisa accelerata ha scaldato nuovamente gli animi del mai sopito movimento No Tav. Come racconta Linda Maggiori sul magazine Terra Nuova “Dall’8 al 10 dicembre in Val Susa sono arrivate alcune migliaia di persone per protestare sia contro il cantiere che contro le azioni giudiziarie messe in atto per frenare le proteste.

L’ultimo anno «ha visto un’accelerazione da parte di chi devasta la montagna e di chi reprime chi la difende» accusano gli organizzatori della protesta  . «L’attacco compiuto nei confronti del movimento No Tav si è giocato sul terreno giudiziario, tramite la messa sotto sequestro dei presidi dei Mulini e di San Didero, per completare parte dell’allargamento del cantiere di Chiomonte – scrive il movimento No Tav – Il popolo No Tav ha risposto sin da subito stracciando i sigilli del cantiere di San Didero e attuando un lavoro di monitoraggio nella sua amata Val Clarea».

«Migliaia e migliaia di persone sono giunte a Susa venerdì 8 dicembre dai paesi dall’alta alla bassa Val Susa, dalla cintura di Torino, dalla città, da tantissime città della nostra penisola ma anche da oltralpe, grazie alla presenza di un nutrito gruppo di No Tav francesi – spiega il movimento – 10mila persone hanno marciato sotto la neve e la pioggia da Susa a Venaus, luogo simbolo per la vittoria del movimento No Tav, luogo caro per la sua capacità di accogliere ogni estate momenti fondamentali per le vite in lotta di tutti e di tutte. 

La partecipazione delle amministrazioni di valle ha sottolineato che, nonostante le narrazioni che vorrebbero questa battaglia con un risultato scontato, chi gestisce il territorio e ha a cuore la sua tutela sa da che parte mettersi in marcia, mostrando capacità di unione di intenti e di vicinanza con una popolazione che non si arrende».

Se Terra Nuova da ampio spazio alle enormi manifestazioni contro IL Tav, quasi tutti gli altri giornali si concentrano – e anche qui sembra di rivedere un vecchio copione – sugli scontri e gli aspetti violenti della protesta. Leggo ad esempio da Rai News: “Un gruppo di persone incappucciate, appartenenti all’ala più oltranzista del movimento No Tav, ha lanciato sassi e altro materiale, tra cui bombe carta, contro le forze dell’ordine che presidiano il cantiere di San Didero, in Val di Susa, dove sorgerà il futuro autoporto previsto dai progetti dell’Alta velocità Torino-Lione. Il movimento ha indetto per questo fine settimana il “weekend di lotta alla Torino-Lione”, il cui appuntamento principale è stato la tradizionale marcia Susa-Venaus dell’8 dicembre. 

Nella serata di sabato, 9 dicembre, circa duecento persone sono arrivate in corteo dall’ex fabbrica Roatta di Bruzolo, occupata nei giorni scorsi, e hanno raggiunto le recinzioni del cantiere per la battitura alle reti. Hanno poi tentato di tagliarle, e a quel punto la polizia ha risposto lanciando lacrimogeni. Un gruppo di qualche decina di persone ha quindi iniziato a lanciare sassi e bombe carta contro i reparti delle forze dell’ordine schierati”.   

Al di là degli specifici fatti di cronaca, mi sono chiesto: Ma come mai d’improvviso questa nuova accelerata di grandi opere? È cambiato qualcosa nel contesto? Premesso che torneremo a occuparci di Tav su Italia che Cambia e seguiremo le vicissitudini dell’opera così come di chi vi si oppone, intanto ho chiesto a Riccardo Goghero, un attivista No Tav di vecchia data, di raccontarci un po’ di novità. 

Audio disponibile nel video / podcast

Vi ricordate la guerra nel Tigray, in Etiopia? Probabilmente no, perché ha solo sfiorato di striscio i quotidiani nazionali e internazionali. Era una guerra civile fra il governo e l’esercito ufficiale da un lato e delle truppe di ribelli locali, che rivendicavano la sovranità sulla regione del Tigray. 

La guerra formalmente si è conclusa circa un anno fa con un accordo di pace che però sembra sul punto di cedere da un momento all’altro, ma è un altro dato che mi ha letteralmente sconvolto questa mattina, mentre passavo in rassegna gli articoli del giorno. È il numero delle vittime. L’ho letto in un articolo di Limes, che come al solito aveva un taglio geopolitico/strategico, quindi non approfondiva la questione e allora quasi per caso sono andato ad approfondire. E sono rimasto molto turbato. Non solo perché è un numero allucinante (adesso ve lo dico), ma perché io non ne avevo idea. E se non ne avevo idea io, che di mestiere faccio quello che dovrebbe averne idea, figuriamoci le altre persone. 

Secondo le stime, le vittime di questo conflitto, negli ultimi 2 anni, sono state fra le 500mila e le 800mila. O forse più. E stiamo parlando di civili. Non so se vi rendete conto, non so nemmeno bene a cosa paragonare questa cifra, è come se Torino venisse completamente rasa al suolo e nessuno restasse in vita. E oltre a ciò ci sono oltre un milione di sfollati, e innumerevoli crimini di guerra atroci. Come è possibile? E come è possibile che questa notizia non sfiori nemmeno le prime pagine dei giornali?

Comunque, lasciate che vi racconti meglio la situazione seguendo un articolo a firma di Flora Alfiero su Affari Internazionali: “È passato circa un anno da quando Olusegun Obasanjo, alto rappresentante dell’Unione Africana per il Corno d’Africa, annunciava in conferenza stampa il cessate il fuoco l’esercito federale del governo dell’Etiopia e le forze del Tplf, il fronte di liberazione del Tigrè. 

Entrambe le parti avevano raggiunto un accordo dopo due anni di guerra. Ma la fine del conflitto non ha portato alla fine dei problemi: attualmente, molte persone non sono potute tornare a casa perché alcune parti del Tigray sono ancora occupate dalle forze eritree a nord e dalle milizie Amhara a ovest. Più di un milione di civili sono sfollati e vivono in campi necessitando assistenza sanitaria e aiuto.

In aggiunta, un altro fatto grave è emerso: un’indagine sostenuta dalle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani in Etiopia è destinata a scadere dopo che nessun paese si è fatto avanti per chiedere una proroga, nonostante i ripetuti avvertimenti riguardanti le gravi violazioni dei diritti umani che continuano ancora.

Nel dicembre del 2021, dopo un anno dall’inizio della guerra, il Consiglio delle Nazioni Unite ha costituito una commissione ad hoc, l’International Commission of Human Rights Experts on Ethiopia, per monitorare i crimini e le possibili violazioni dei diritti umani sia da parte dell’esercito federale che dalle milizie del Tigray. Uccisioni di massa, stupri diffusi e sistematici, violenze sessuali, schiavitù sessuale, fame deliberata come arma da guerra, sfollamenti forzati e detenzioni sono solo alcune delle accuse rilevate nel rapporto della commissione, tutti crimini di guerra e crimini contro l’umanità che resteranno impuniti. Oggi, i dati raccolti sono ancora incerti ma si stimano circa tra i 600 000 e gli 800 000 morti tra i civili di cui il 60% per fame.

Una delle tattiche di guerra più brutali, messa in atto dall’esercito federale dell’Etiopia, ha portato gli abitanti del Tigray a morire letteralmente di fame: isolando la regione, senza possibilità di ricevere cibo dall’esterno, i soldati dell’ENDF hanno iniziato a bruciare numerose fattorie, distruggendo e rubando le forniture necessarie per la semina, gli attrezzi, i fertilizzanti, con l’obiettivo di rendere impossibile avere risorse alimentari o produrre il proprio raccolto, in una regione dove l’80% della popolazione è costituita da agricoltori di sussistenza. 

L’articolo poi ripercorre le tappe del conflitto, che vi riassumo. La guerra è “Iniziata in Etiopia nel 2020, e ha visto contrapposte le forze del governo centrale guidate dal Primo Ministro Abiy Ahmed (fra l’altro, paradosso, ex premio nobel per la pace 2019, e autore ormai di quello che appare come uno sterminio di massa) alle Tigray Defense Forces (TDF) e le forze paramilitari costituite dal Tigray People’s Liberation Front (TPLF) fino al 2022.

Il Tigray è una delle regioni settentrionali dell’Etiopia, nel Corno d’Africa, e ha avuto un ruolo decisamente importante nella storia del Paese: sia politicamente che economicamente, è stato un punto centrale e in crescita, soprattutto negli ultimi anni.

Il 20 settembre 2020 il Tigray People’s Liberation Front, il partito dominante dell’alleanza di potere che ha retto il governo negli ultimi trent’anni, aveva chiesto al National Election Board of Ethiopia di aiutare il Tigray a organizzare le elezioni regionali: al rifiuto di quest’ultimo, il TPLF organizzò le proprie elezioni regionali ma il Primo Ministro Abiy Ahmed non ne riconobbe la validità e vietò ai giornalisti stranieri di recarsi in Tigray per documentare le elezioni. 

La notte del 4 novembre 2020, il TPLF attaccò le basi militari in Tigray impossessandosi di quasi l’80% dei pezzi di artiglieria pesante dell’esercito etiope uccidendo migliaia di soldati e prendendo in ostaggio molti soldati dell’esercito federale.

Da allora e per tutto il 2021 e 2022, si sono verificati scontri che hanno portato la regione al collasso, con una situazione umanitaria senza precedenti, con sei milioni di persone che hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria e aggressioni e violenze sui civili da parte di entrambe le fazioni. 

Quella che agli occhi del mondo sembrava una guerra civile si è presto trasformata in una delle più grandi crisi umanitarie dell’ultimo secolo, con implicazioni su scala internazionale. Fino alla metà del 2021, l’esito della guerra sembrava incerto: le forze tigrine erano riuscite a difendere il loro territorio e ad avanzare fin quasi alla capitale dell’Etiopia, Addis Abeba, un passo che avrebbe portato a un’incredibile svolta. Il 2022 si è rivelato però l’anno della svolta: dopo la violazione del cessate il fuoco ottenuto nel marzo dello stesso anno, l’esercito governativo, forte dell’acquisto di nuove armi, è riuscito a piegare le forze tigrine tra agosto e settembre.

La tregua firmata con il patto di Pretoria è però molto fragile e sembra sul punto di saltare da un momento all’altro. In generale, la situazione umanitaria è tutt’ora devastante. Dal canto nostro, vi prometto che continueremo a parlarne. 

Ieri era in teoria l’ultimo giorno della Cop 28 sul clima di Dubai, che però in realtà si sta prolungando più del previsto perché ancora un vero e proprio accordo finale non è stato trovato. Le prime bozze non sembrano però mettere tutti d’accordo e si respira un’aria di profonda delusione. 

In particolare, il rappresentante delle Isole Samoa e dell’alleanza dei piccoli paesi ha fortemente criticato l’ultima verisone della bozza che sta circolando alla Cop28 in cui non viene nemmeno nominata l’uscita dalla fonti fossili. Fatto abbastanz ainquietante trattandosi di un incontro che dovrebbe avere quello come principale obiettivo, essendo le fonti fossili la causa principale del cambiamento climatico.

Domani ne parliamo meglio, alla luce di ciò che emerge. Ieri però è stato l’ultimo giorno in cui la redazione di Agenzia di stampa giovanile si trova a Dubai e ci racconta ciò che osserva sul luogo. Ringraziandoli per la loro partecipazione e professionalità, passo loro la parola per l’ultima volta, confidando di risentirli in futuro. 

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Ieri è uscito il sesto episodio di NFM, il podcast di ICC che indaga se le storie di cambiamento positivo che raccontiamo ormai da oltre 10 anni resistono alla prova più difficile, quella del tempo. La puntata uscita ieri è dedicata a Luciana delle Donne e al suo Made in carcere. la storia di Luciana è davvero particolare. 17 anni fa si è licenziata dal suo lavoro, che non era un lavoro qualsiasi, era una delle poche top manager italiane, lavorava nel settore bancario, per dedicarsi alle ultime. Le donne in carcere. 

Adesso parola al nostro direttore Daniel Tarozzi per La giornata di ICC:

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