27 Lug 2023

Stop al Deep sea mining, ma solo per ora – #775

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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l’Autorità internazionale per i fondali marini (ISA) ha scelto di non dare il via libera al discusso deep sea mining. Una scelta interessante, anche se probabilmente solo provvisoria. Intanto, mentre diverse regioni italiane iniziano ad uscire dal meteo esremo degli ultimi giorni, nuovi studi mostrano ennesime anomalie climatiche, come quelle che riguardano i ghiacci dell’Antartide e la Corrente del Golfo. Infine parliamo del Fentanyl, l’oppiaceo che negli Usa è causa di una vera e propria strage e che sembra aver superato la cocaina anche sul mercato globale.

C’è una novità interessante che riguarda il cosiddetto deep sea mining, ovvero la pratica di esplorare e scavare i fondali oceanici nelle acque internazionali alla ricerca di materiali preziosi. Spesso si tratta, peraltro, di materiali necessari alle energie rinnovabili.

La notizia è che l’Autorità internazionale per i fondali marini (ISA) ha scelto, almeno temporaneamente, di non dare il via libera al discusso deep sea mining. Ce ne parla Monica Cillerai su L’Indipendente. 

“Dopo due settimane di negoziati, l’ISA (l’Autorità internazionale per i fondali marini) ha scelto di non dare il via libera al discusso deep sea mining, l’estrazione mineraria in acque profonde internazionali. Per ora. La decisione è stata solo rimandata, dal momento che la riunione per la regolamentazione si è conclusa venerdì a Kingston in Giamaica senza che fosse trovato un accordo sulle modalità di regolamentazione del settore.

Un documento brevissimo annuncia la scelta: una pagina e mezza e quattro punti totali che non spiegano bene la complessa situazione né tantomeno i rischi legati all’estrazione dei noduli polimetallici nelle profondità marine. Si legge nel testo che l’ISA “intende proseguire l’elaborazione di norme, regolamenti e procedure relative allo sfruttamento in vista di una loro adozione durante la trentesima sessione dell’Autorità” che, teoricamente, sarà nel 2025. 

Tuttavia la data è indicativa, non vincolante, e già si anticipa una molto probabile futura approvazione di questi nuovi processi estrattivi. Da nessuna parte si parla di una moratoria per bloccare sul nascere lo sfruttamento di questi giacimenti, come avevano chiesto numerosi stati, cittadini, scienziati e gruppi di indigeni contrari alla distruzione di uno degli ecosistemi più fragili del pianeta.

Fra l’altro esiste già una scappatoia alla mancanza di regolamentazione e si chiama regola dei due anni. In pratica il Consiglio dell’ISA deve “considerare e approvare provvisoriamente” le domande di sfruttamento due anni dopo la loro presentazione, indipendentemente dal fatto che si siano finalizzati o meno i regolamenti. Ovviamente è una regola che va a favore delle grosse aziende che così non devono aspettare che ci sia un consenso e un accordo internazionale sull’estrazione dei minerali e possono continuare a fare profitto.

Negli ultimi anni l’ISA ha già dato numerosi permessi di ricerca per aree di centinaia di chilometri quadrati a vari stati per esplorare i fondali oceanici. “Per i sostenitori del deep sea mining, infatti, l’estrazione sottomarina è necessaria per la cosiddetta transizione energetica e per le nuove tecnologie; i critici che vi si oppongono, invece, affermano che lo sfruttamento minerario in acque profonde non sia necessario per l’approvvigionamento dei minerali e causerebbe danni diffusi e di vasta portata agli ecosistemi marini che sostengono la vita sulla Terra”.

La settimana scorsa, uno studio apparso su Current Biology – il primo a monitorare l’impatto reale del deep sea mining e non a basarsi su stime – aveva dimostrato come appena due ore di estrazione al largo delle coste giapponesi avevano dimezzato la popolazione ittica, anche dopo più di un anno, sia in quell’area che nelle zone adiacenti. 

A giugno 2023 anche l’organizzazione indipendente Planet Tracker ha pubblicato un rapporto riguardo agli impatti ambientali e ai costi economici dell’estrazione in acque profonde: “tentare di riparare ai danni causati dall’estrazione mineraria nei fondali oceanici costerebbe talmente tanto che né le aziende né i governi pagherebbero per farlo. Le istituzioni finanziarie quindi non dovrebbero supportare il deep sea mining“. Un recente lavoro pubblicato su Scientific Reports stima inoltre che metà delle specie abissali del Pacifico dipenda in qualche modo dalla presenza dei noduli polimetallici sui fondali, la cui estrazione si tradurrebbe quindi in perdita di habitat e biodiversità.

Le ricerche sulle conseguenze di questa pratica estrattiva sono ancora minime e, spesso, condotte dalle stesse aziende minerarie, mancando quindi di una visione oggettiva del processo. Le poche ricerche indipendenti, dal canto loro, sottolineano la pesantezza dell’impatto di questa pratica. Per questo molte associazioni e ONG, gruppi di indigeni ed esperti avevano chiesto uno stop preventivo, una moratoria globale finché non ci siano tecnologie e prove che assicurino un impatto più accettabile sull’ecosistema.

L’ISA lavora solo sulle acque internazionali e vari sono gli Stati – come la Norvegia – che hanno già annunciato la volontà di iniziare piano di sfruttamento minerario sottomarino nelle loro acque territoriali in quanto non soggette alle regole delineate dall’organismo dell’ONU. Le conseguenze, ovviamente, saranno le stesse, e impatteranno tutto l’oceano.

Parere personale? Credo che il DSM sia esattamente il tipo di cosa che non dobbiamo fare, o fare il meno possibile. PEr questo cerco, ogni volt ache parlo di transizione ecologica ed energetica, cerco di affiancarci anche una riflessione sulla riduzione dei consumi, la sobrietà, il cambiamento negli stili di vita, ecc. Perché questa transizione sarà sostenibile solo se non avremo bisogno di andare a distruggere i fondali marini per compierla. Ovvero, se consumeremo molta meno energia (tutta rinnovabile), avremo molte meno macchine (tutte elettriche) e così via. 

Da ieri per fortuna si è tornati a respirare in quasi tutta Italia, anche se in molte regioni ancora si stanno scontando i danni del meteo estremo di questa settimana. Sicilia e Puglia sono ancora scosse dagli incendi, e a Palermo adesso è allerta diossina dopo l’incendio di ieri alla discarica di Bellolampo. Anche in Sardegna sono scoppiati diversi incendi fuori controllo. A Milano sono ancora in corso i lavori necessari per riaprire le strade bloccate a causa degli alberi caduti nel nubifragio di due notti fa, solo dopo i soccorritori potranno occuparsi degli edifici e dei parchi, che sono ancora chiusi al pubblico.

Questo rapido aggiornamento però è solo una sorta di premessa per introdurre una nuova, anzi ue nuove notizie sempre relative al cambiamento climatico. Sono due nuovi, ulteriori, campanelli d’allarme. So che passata questa ondata molte e molti di noi vorranno solo scordarsi almeno per qualche giorno queste tematiche e pensare ad altro, è naturale e anche sano. Nel caso saltate questa notizia e passate alla successiva, trovate il minutaggio delle varie notizie in descrizione. Io dal canto mio devo darvele perché sono notizie molto importanti.

La prima riguarda il ghiaccio antartico e parte dall’osservazione di un grafico sull’andamento del ghiaccio antartico che sta circolando molto in rete (ma si dirà ancora in rete?). Grafico che mostra l’andamento anno dopo anno, nel tempo dell’estensione del ghiaccio. C’è una variazione che tende sempre verso il basso, a indicare che il ghiaccio è sempre meno esteso col passare degli anni, ma la curva è sempre la stessa. È bassa nei mesi estivi, poi sale nei mesi invernali e torna a scendere riandando verso l’estate. Quest’anno la curva d’inverno, semplicemente, non sale (adesso è inverno nell’emisfero Sud). È proprio un’altra curva. Ed è posizionata molto pi+ in basso rispetto anche banalmente allo scorso anno.

Vi leggo una spiegazione interessante del fenomeno, anche se un po’ tecnica, e lo faccio rispolverando una vecchia rubrica di questo format, ovvero “Io non mi rassocial”. Vi leggo infatti un post molto chiaro di Claudio Cassardo, professore presso il dipartimento di fisica dell’università di Torino.

“Non sono sicuro di riuscire a rendere l’idea di quanto inusuale sia il dato di area di mare ricoperta dal ghiaccio nell’emisfero sud, che attualmente differisce di SEI deviazioni standard dal valore medio. Immaginiamo di avere (sto facendo un esempio che non c’entra con i ghiacci antartici) un insieme di cento numeri distribuiti secondo la cosiddetta distribuzione normale di Gauss (la classica curva a campana, per intenderci). 

I valori di questo insieme vanno da 978,4 a 1017,7 unità (non importa quale sia la variabile in questo discorso). Il valor medio di questo insieme è 1001 e la deviazione standard è 6. Ora, un numero che differisce di SEI deviazioni standard da quell’insieme (ovvero 35 unità) è 965, oppure 1036 dall’altra parte della distribuzione. Vale a dire che – in entrambi i casi – è un numero totalmente esterno a quell’insieme.

La statistica ci dice anche che, in una distribuzione normale, la probabilità di differire di una sigma dal valor medio è del 31,7%; di due sigma, del 4,4%; di tre sigma, dello 0,27%; di quattro sigma, dello 0,0063%; di cinque sigma, dello 0,000057%; e di sei sigma, dello 0,0000002%. Insomma, detto in altro modo, se avessi un insieme di un miliardo di numeri, solo due di essi differirebbero di SEI sigma dal valor medio. Ma il mio insieme ha solo cento numeri (e le misure dei ghiacci marini antartici sono “solo” 33). Quindi quel valore non può far parte di quell’insieme di dati.

Come si concilia, quindi, un dato distante oltre sei sigma dal valor medio di una distribuzione che contiene poche decine di dati? Semplice: non ne fa parte. Ovvero è sbagliata l’ipotesi di partenza. Quella che la distribuzione dei dati sia normale. Ma siccome, quando ho tanti numeri, mi attendo che la loro distribuzione sia normale, a meno che non ci sia qualche fattore, interno o esterno, che sta cambiando il sistema, questo significa che il mio sistema in effetti sta cambiando. In questo caso, il sistema che sta cambiando è quello dei ghiacci marini antartici. E il fatto che la statistica ci evidenzi che il sistema sta cambiando potrebbe tradursi nell’affermazione che si sta superando un punto di non ritorno. E questa non è una buona notizia.

La seconda anomalia riguarda la corrente del golfo e la rende nota uno studio pubblicato recentemente su Nature, di cui parla un articolo di ieri del Guardian. Come scrive Damien Carrington “Secondo un nuovo studio, il sistema della Corrente del Golfo potrebbe collassare già nel 2025. E questo arresto delle correnti oceaniche vitali, chiamate dagli scienziati Atlantic Meridional Overturning Circulation (Amoc), avrebbe impatti climatici catastrofici.

L’AMOC – che appunto è il nome tecnico di quella che comunemente chiamiamo Corrente del Golfo – è un grande sistema di correnti oceaniche che trasportano acqua calda dai Tropici verso nord verso l’Oceano Atlantico settentrionale determinando il clima mite dell’Europa. Questo sistema di correnti trasporta l’acqua calda degli oceani a nord, verso il polo, dove si raffredda e affonda, guidando le correnti atlantiche. Ma l’afflusso di acqua dolce proveniente dall’accelerazione dello scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia e da altre fonti sta soffocando sempre più le correnti. 

Si sa che l’Amoc è già al suo punto più debole da 1.600 anni a questa parte a causa del riscaldamento globale e i ricercatori hanno individuato i segnali di allarme di un punto di svolta nel 2021.

La nuova analisi stima un periodo di tempo per il collasso tra il 2025 e il 2095, con una stima centrale del 2050, se non si riducono le emissioni globali di carbonio. Si tratta di una stima ancora abbastanza grezza e incerta e altri scienziati sostengono che il margine di incertezza sia troppo grande per fare delle stime accurate. Tuttavia quello su cui tutti concordano è che la prospettiva di un collasso dell’Amoc è estremamente preoccupante e dovrebbe spingere a ridurre rapidamente le emissioni di carbonio.

Ma cosa significherebbe un collasso di queste correnti? Leggo ancora: “Un collasso dell’Amoc avrebbe conseguenze disastrose in tutto il mondo, interrompendo gravemente le piogge da cui dipendono miliardi di persone per il cibo in India, Sud America e Africa occidentale. Aumenterebbe le tempeste e le temperature in Europa e porterebbe a un innalzamento del livello del mare sulla costa orientale del Nord America. Inoltre, metterebbe ulteriormente in pericolo la foresta pluviale amazzonica e le calotte antartiche”.

“Penso che dovremmo essere molto preoccupati”, ha dichiarato il Prof. Peter Ditlevsen, dell’Università di Copenaghen in Danimarca, che ha guidato il nuovo studio. “Si tratterebbe di un cambiamento molto, molto grande. L’Amoc non è stato spento per 12.000 anni”. L’Amoc è collassato e ripartito ripetutamente nel ciclo di ere glaciali che si è verificato da 115.000 a 12.000 anni fa. Si tratta di uno dei punti di svolta climatici più preoccupanti per gli scienziati, dato che le temperature globali continuano a salire.

C’è una ricerca condotta nel 2022 che ha già dimostrato che cinque pericolosi punti critici potrebbero essere già stati superati a causa del riscaldamento globale di 1,1 C fino ad oggi, tra cui l’arresto dell’Amoc, il collasso della calotta glaciale della Groenlandia e un brusco scioglimento del permafrost ricco di carbonio.

Poi l’articolo prosegue con una serie interminabile di posizioni riportate di vari studiosi e scienziati, in realtà molto interessanti ma che non vi sto a riportare. ll succo del discorso comunque è che, riassumendo brutalmente, è difficile stabilire se si siano superati dei punti critici di non ritorno per quanto riguarda la Corrente del Golfo, che i segnali che abbiamo non sono dei più incoraggianti e che se quella riba lì si blocca siamo in grossi casini.

Un articolo di ieri su la Repubblica titola “Cresce la richiesta di fentanyl e crolla quella della coca: così cambia la borsa della droga” e parla di come nel mondo si stia assistendo a una vera e propria esplosione di questa sostanza oppiacea, il cui nome a molti di noi forse non dirà niente. Ma è un argomento molto importante, soprattutto negli Usa. Pensate che nell’incontro fra il segretario di stato Usa Antony Blinken e Xi Jinping di circa un mese fa il fentanyl è stato uno degli argomenti principali.

Come spiega su Open Simone Disegni Il fentanyl è un oppioide sintetico, che nella sua versione farmaceutica approvata per la somministrazione viene utilizzato negli Usa come antidolorifico, per «lenire il dolore acuto, come ad esempio quello procurato dal tumore allo stadio avanzato». È considerato tra le 50 e le 100 volte più potente della morfina. Ma da anni negli Usa è esploso il consumo di versioni illegali del fentanyl: somministrato in forma pura o in combinato con altre droghe, attrae i consumatori di cocaina ed eroina. 

Con quest’ultima condivide la proprietà tipica – quella di instillare effetti d’euforia – ma è stimato essere 50 volte più potente di essa. Risultato: il fentanyl si rivela uno strumento altamente letale: senza un rapido intervento medico, può procurare la morte di chi lo assume nel giro di pochi minuti. Ciò che è successo negli ultimi anni a un numero esorbitante di americani, soprattutto giovanissimi. 

Secondo il National Center for Health Statistics, a morire per il consumo, consapevole o meno, di queste sostanze sono oltre 1.500 persone alla settimana. Un fenomeno di nicchia diventato un allarme nazionale negli ultimissimi anni. Delle 100mila vittime di overdose negli Usa registrate in ciascuno negli ultimi due anni, oltre due terzi sono considerate essere causate dal fentanyl. Nel 2021, il numero di morti causate da oppioidi sintetici è stato di 67.325, in aumento del 26% rispetto all’anno precedente. Numeri che fanno di questa la più grave crisi di droga nella storia degli Stati Uniti.

Ed è un problema, qui sta il paradosso, partito dagli eccessi di prescrizioni del farmaco antidolorifico, forse anche per via di una politica espansiva della casa produttrice, e poi dilagato a mano a mano che il mercato nero Usa è stato invaso di versioni illegali della sostanza – in forma pura, mescolata con altre polveri narcotiche o all’interno di pasticche. 

Ora, il problema è che il mercato si sta allargando. A dover gestire una crisi simile sono ora anche altri Paesi, quali Canada e Australia. 

In Italia, come spiega un articolo su Avvenire, la sostanza p regolamentata in maniera molto rigida ma ciononostante recentemente sono stati arrestati alcuni spacciatori che importavano il fentanyl dalla Cina e lo vendevano sul dark web a clienti italiani ed europei. 

In tutto ciò, che c’entra la Cina, direte voi? Be’, c’entra. Perché se nella forma «commercializzabile» il fentanyl arriva principalmente dal Messico, le autorità Usa sono convinte che la «materia prima», ossia le sostanze chimiche grezze di base, arrivino nel Paese centroamericano soprattutto via nave dalla Cina. I cartelli dei narcos messicani s’incaricano poi di assemblare la sostanza nella forma finale e distribuirla sui ghiotti mercati del Nordamerica. 

Ecco perché da tempo l’Amministrazione Usa premere perché Pechino agisca per fermare sul nascere il traffico illecito delle sostanze-killer. Fino ad ora, tuttavia, le autorità cinesi hanno alzato un muro di indifferenza sul tema, sostenendo che i precursori del fentanyl non sono che sostanze chimiche come molte altre vendute tramite regolari canali commerciali. 

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