ARTEMIS: PARTITA LA NUOVA MISSIONE LUNARE
Ieri è iniziata una nuova avventura spaziale per il genere umano. È partito il nuovo programma lunare Artemis-1 che a distanza di 50 anni dovrebbe riportare l’uomo sulla luna. Vi leggo come Antonio Lo Campo descrive il lancio di ieri su La Stampa: “Il lampo che ha illuminato la notte della Florida, è stato considerato come un flash sull’inizio della nuova fase di esplorazione spaziale con astronauti. A cinquant’anni esatti dall’ultimo sbarco di uomini sulla Luna, quello dell’Apollo 17 e delle ultime impronte di Eugene Cernan (dicembre 1972), ecco scattare finalmente il nuovo programma lunare, anche se con questa prima missione, essendo il primo test, non vi sono astronauti a bordo, che invece verranno inviati verso la Luna con la successiva, la Artemis-2 in programma per il 2024”.
A bordo questa volta ci sono dei manichini dotati di apparati elettronici e dosimetri per la rilevazione della radiazione ionizzante che, quando ci si allontana dalla Terra, aumenta considerevolmente.
Se tutto andrà bene con questa prima missione, la successiva, Artemis-2 , prevista nel 2024, porterà quattro astronauti fino alla Luna, ma senza sbarco, quando Orion arriverà fino a 8.889 chilometri oltre la Luna, più lontano dalla Terra di quanto gli esseri umani siano mai stati, e compirà una ricognizione della Luna.
Poi, entro fine 2025 dovrebbe anche arrivare lo sbarco, l’equivalente di ciò che fu Apollo 11 con il programma degli anni sessanta. Quattro astronauti verranno inviati verso la Luna, in una regione del Polo Sud, si agganceranno alla stazione lunare Gateway, e due di loro, compresa una donna, scenderanno sulla Luna con un veicolo in fase di sviluppo dalla compagnia SpaceX di Elon Musk.
L’articolo mette in luce, come spesso si fa in questi casi, che c’è anche un po’ di Italia in questa missione e cita le varie aziende, Leonardo in primis, che hanno fornito o forniranno componentistica. Ma l’aspetto a mio avviso più interessante è quello che riguarda gli obiettivi a medio termine della nuova missione. Questa volta non si punta solo a mettere piede sulla luna ma a realizzare, nel decennio dal 2030, un vero e proprio villaggio lunare.
Il progetto in realtà risale a diversi anni fa, ma solo adesso sta prendendo concretezza. L’idea è quella di mandare in pensione la stazione spaziale internazionale, quella stazione in orbita terrestre bassa che adesso è usata come punto di partenza per diverse missioni specifiche, e sostituirla con una base lunare, da costruire con risorse estratte in loco e che dovrebbe diventare una nuova base per future missioni di esplorazione dello spazio.
Nell’idea iniziale – ad esempio leggo da un articolo del 2016 su Astronauti news – questo progetto dovrebbe coinvolgere tantissimi paesi, dagli Usa all’Ue, alla Cina, alla Russia a tanti altri. Chissà se è rimasto così. Lo spazio è stato per anni al centro della guerra fredda, dopodiché è diventato un simbolo prezioso di collaborazione internazionale. Sarebbe importante, anche solo a livello simbolico, mantenere questa forma di collaborazione nel fare missioni che a tutti gli effetti ci investono come genere umano, più che come singole nazioni.
AGGIORNAMENTI SUI MISSILI IN POLONIA
Continuiamo a parlare di missili, ma cambiamo radicalmente la tipologia del missile. Torniamo infatti a parlare di quei missili che ieri hanno colpito un impianto per la produzione di cereali in un paesino in Polonia vicino al confine con l’Ucraina, uccidendo due persone, e che hanno sollevato un polverone mediatico e politico mai visto.
Ieri il presidente polacco Andrzej Duda e il segretario della NATO Jens Stoltenberg hanno confermato l’ipotesi che già stava circolando dalla sera prima: «probabilmente» l’esplosione è stata causata da un missile antiaereo lanciato dall’esercito ucraino per intercettarne un altro sparato dalla Russia e diretto verso l’Ucraina.
Isomma, l’esplosione sarebbe stata un incidente e Stoltenberg ha anche aggiunto che non ci sono «indicazioni che la Russia stia preparando azioni militari offensive contro la NATO» e che sulla base dei risultati preliminari dell’indagine, non c’è stato bisogno di invocare l’attivazione dell’articolo 4 del trattato fondativo della NATO, che prevede consultazioni tra i membri se uno degli alleati si sente minacciato, né tantomeno l’articolo 5, che invece prevede un meccanismo automatico di mutua difesa.
Questi a grandi linee gli aggiornamenti. Per un commento ho contattato Alessandro Marescotti. Alessandro è uno dei massimi esperti dell’inquinamento a Taranto dovuto alla fabbrica ex ilva, ma in questo caso l’ho contattato in quanto co-fondatore di PeaceLink, associazione che si occupa di diffondere una cultura della pace e dei diritti umani.
CONTRIBUTO MARESCOTTI DISPONIBILE NEL VIDEO/PODCAST
ROSY BATTAGLIA E TARANTO
Visto che abbiamo nominato l’ex Ilva di Taranto, vi segnalo anche che su Italia che Cambia è uscita una bella intervista a Rosy Battaglia, giornalista investigativa che sta realizzando un documentario sull’ex Ilva di Taranto. L’ex Ilva è davvero un coacervo malsano di interessi che racchiude tutto il peggio che il nostro paese può offrire. ma paradossalmente – o forse no – è anche un luogo di resistenza civica, di speranza e di rinascita.
Vi leggo l’incipit dell’articolo realizzato da Daniel Tarozzi: “Il dolore non muore mai”. Queste cinque parole le ho incise a fondo nel cuore e nella pelle. Le ho scritte circa dieci anni fa, dopo aver visitato Taranto e aver conosciuto Alessandro Marescotti, Piero Mottolese e tante altre persone che “grazie” all’ex-Ilva si sono ammalati o hanno perso i propri cari.
Nell’articolo è presente anche un estratto dello spettacolo di Daniel “La realtà è più avanti” e ovviamente l’intervista a Rosy Battaglia, che fra l’altro ha avviato anche una campagna di crowdfunding per finanziare questo documentario. Trovate l’articolo sotto fonti e articoli, qua in fondo.
AGGIORNAMENTI DA COP 27
Allora veniamo a un po’ di aggiornamenti da Cop 27. Che poi saranno aggiornamenti non solo su Cop 27 ma anche attorno a Cop 27, perché le conferenze sul clima sono anche occasioni in cui pesso escono studi interessanti, report e così via, per cui ne vediamo alcuni.
Ad esempio Rinnovabili.it pubblica un articolo sul report di Urgewald, Reclaim Finance e altre 36 ong africane secondo cui Banche e investitori europei, americani e giapponesi continuano a finanziare abbondantemente lo sfruttamento di nuove fossili africane, ma lo fanno in maniera indiretta in modo da aggirare gli impegni di emissioni nette zero. Tra il 2019 e luglio 2022, sono 325 le banche commerciali che hanno mobilitato denaro per lo sviluppo di nuovi progetti di gas e petrolio nel continente africano. In tutto, si arriva alla cifra di 98 mld di euro. E il 70% di questo ammontare proviene da istituti di credito che hanno sottoscritto gli impegni della Net-Zero Banking Alliance (NZBA). Che però investono attraverso intermediari, sottoscrivendo obbligazioni emesse da prestatori africani per conto delle società, con operazioni che non sono coperte dal codice su cui si basa la NZBA. E quindi non pesano, formalmente, sulla performance green dei soggetti finanziari. Le banche quindi salvano la loro faccia, ma continuano ad affossare il clima. “E la situazione non è molto diversa . leggo nell’articolo – quando si considerano fondi pensione, assicurazioni e altri grandi investitori”.
Un altro report molto interessante è quello pubblicato da Re-common dal titolo “La campagna d’Egitto – Gli affari dei “campioni” italiani con il regime di al-Sisi” in cui vengono messi a nudo i legami, fortemente incentrati anche qui sulla compravendita di fonti fossili, di Eni, Snam, Intesa Sanpaolo e Sace con il regime di Al Sisi, legami economici che nemmeno l’omicidio si Giulio Regeni è riuscito a incrinare.
Ad esempio L’Egitto è un punto di investimento centrale per Eni, che lì possiede circa il 20% delle proprie riserve di gas con una produzione annuale di 15 miliardi di metri cubi (pari al 30% del totale dell’azienda e al 60% di quella egiziana) per un utile di 5,2 miliardi di euro in cinque anni, che costituisce circa un terzo degli utili complessivi della divisione “Esplorazione e produzione”.
Snam invece ha acquistato a dicembre 2021 il 25% della East mediterranean gas company (Emg), proprietaria del gasdotto Arish-Ashkelon che collega Israele ed Egitto, anche noto come “Gasdotto della pace”. Azienda che fra l’altro avrebbe dei legami sospetti con i servizi segreti egiziani, che probabilmente sono anche dietro all’omicidio Regeni.
Tutti questi investimenti infrastrutturali vengono attuati grazie agli istituti di credito e alle istituzioni finanziarie. In prima fila c’è Bank of Alexandria, la sussidiaria locale del primo gruppo bancario italiano, Intesa Sanpaolo”, ricorda ReCommon. Mentre a garanzia degli investimenti c’è Sace, l’assicuratore pubblico italiano controllato dal ministero dell’Economia, che tra il 2016 e il 2021 ha emesso garanzie a progetti oil&gas per un totale di 13,7 miliardi di euro, ponendosi così al terzo posto per il supporto finanziario all’industria fossile dopo le controparti canadesi e statunitensi.
In Egitto, Sace ha emesso garanzie per 3,9 miliardi di euro. Tra le infrastrutture supportate dall’istituto vi sono due raffinerie: la Middle East oil refinery (Midor) e l’Assiut oil refinery (Aor), entrambe in capo all’Egyptian general petroleum corporation (Egpc), l’azienda petrolifera di Stato.
Infine un altro report, pubblicato questa volta in occasione del G20 che si sta tenendo proprio in questi giorni a Bali mette in luce l’ipocrisia delle grandi economie mondiali. Leggo da un articolo di Andrea Barolini su Lifegate: “Nonostante i proclami, le promesse e gli impegni, le nazioni più ricche della Terra stanno continuando a finanziare pesantemente il settore delle fonti fossili. A confermarlo è un nuovo report di Bloomberg Nef e Bloomberg Philanthropies, secondo il quale nel solo 2021 i paesi del G20 hanno concesso a chi sfrutta a vario titolo carbone, petrolio e gas quasi 700 miliardi di dollari”.
Vi riporto tutti questi dati non per farvi prendere depressione e scoramento ma perché è importante renderci conto della situazione da cui ci muoviamo. Nonostante tutti i proclami e magari anche delle buone intenzioni da parte di alcuni politici o di alcune aziende, la situazione di partenza è una società che è profondamente innervata nelle fonti fossili ed emanciparsene è complesso e richiede cambiamenti profondi e strutturali. Di tutto il sistema. In tutte le sue parti. Non ci sono scorciatoie, non ci sono soluzioni facili. È importante capirlo, e capirlo bene, perché qui il punto non è tanto . o non solo – prendersela coi governi o con le aziende brutte e cattive, ma iniziare a costruire il nuovo. Su Italia che Cambia, se siete in cerca di spunti, ve ne offriamo quotidianamente.
Una notizia più interessante mi pare invece quella che riguarda la proposta del presidente brasiliano neoeletto Lula. Lula ieri ha annunciato alla Cop27 che il suo Paese è candidato a ospitare la Cop30 nel 2025 in Amazzonia.
Leggo su Ansa la dichiarazione di Lula: “Siamo venuti alla Cop27 per parlare con il segretario generale delle Nazioni Unite e chiedergli che il summit del 2025 si svolga in Brasile e in particolare in Amazzonia, nello Stato di Amazonas o nello Stato di Parà”. “Mi sembra molto importante che sia fatto in Amazzonia, che le persone che difendono il clima conoscano l’Amazzonia”.
Mi sembra un messaggio importante perché potrebbe aprire le porte anche a un ruolo più centrale delle popolazioni indigene nella difesa del clima e della biodiversità, di cui dati alla mano sono di gran lunga i migliori custodi. pur non organizzando summit, cop, G20 e via dicendo.
Fra l’altro, un’ulteriore dimostrazione di quest’ultimo fatto viene riportata in un articolo a firma di Sara Tonini su L’Indipendente (che a sua volta cita un reportage del NYT) che parla di come il Nepal abbia raddoppiato le sue foreste proprio grazie agli indigeni. Scrive Tonini: “In soli ventiquattro anni la percentuale della superficie del Nepal coperta da alberi è raddoppiata, passando dal 26,2% del 1992 fino al 44,9% del 2016. Questo incredibile risultato è dovuto alla presenza indigena e alla cura delle comunità locali: il governo nepalese, infatti, a partire da metà degli anni Ottanta, ha deciso di affidare la tutela e la gestione delle foreste a comunità native e volontari, strategia che si è rivelata vincente sotto molti aspetti. I dati che ne rivelano il successo provengono da alcuni studi indipendenti che il New York Times ha citato in un lungo approfondimento, mentre altri report parlano di numeri più ridotti, ovvero di una crescita della copertura forestale del 22% dal 1988 ad oggi”.
Ecco.
I MONDIALI DI CALCIO IN QATAR HANNO MOLTI PROBLEMI
Domenica iniziano i mondiali di calcio in Qatar e allora anche su questo tema stanno uscendo molti articoli e inchieste che svelano tutti i lati più oscuri di questo avvenimento. Come per la scelta di organizzare la Cop in Egitto, anche quella di organizzare la coppa del mondo in Qatar sta sollevando molte critiche. Abbiamo già parlato dell’impatto ambientale e dell’impronta idrica di questa competizione, oggi vediamo il lato più legato ai diritti umani.
A tal proposito Vita pubblica un’intervista all’autore del libro Qatar 2022, i Mondiali dello sfruttamento Riccardo Noury in cui si mettono in luce soprattutto gli aspetti legati allo sfruttamento dei lavoratori migranti.
Scrive Anna Spena nell’articolo: “Dal momento dell’assegnazione la popolazione del Paese è cresciuta di quasi due terzi. Due i milioni di migranti che sono arrivati in Qatar per trovare occupazione: oggi costituiscono oltre il 90% della forza-lavoro di tutto lo Stato. Ma a che prezzo? «Ho scritto il libro “Qatar 2022, i Mondiali dello sfruttamento», spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, «per cercare di rispondere a due domande: per realizzare il sogno dei mondiali quante vite umane sono state sacrificate? E a quali limiti estremi è arrivato lo sfruttamento del lavoro migrante?»”
Domande a cui esistono delle risposte. Che non sono belle. “Nello scorso decennio migliaia di lavoratori migranti sono morti improvvisamente e senza alcuna avvisaglia, nonostante avessero superato tutti gli esami medici prima di arrivare in Qatar. Le autorità locali, contrariamente ai loro obblighi internazionali, non hanno indagato su queste morti per arrivare a conclusioni chiare circa le circostanze. Secondo i dati pubblicati dall’Autorità per la pianificazione e le statistiche, dal 2010 al 2019 sono morti 15.021 lavoratori stranieri di ogni età e occupazione. Di questi, 9.405 erano di origine asiatica, in gran parte, l’87%, erano uomini. Fino al 2015 di molti di questi decessi non è stata indicata nemmeno una causa.
Dall’anno successivo, nella maggior parte dei casi la morte è stata attribuita a un “arresto cardiaco”. Il risultato è stato che a numerosissime famiglie non è stato riconosciuto il diritto di conoscere cosa fosse accaduto ai loro cari e – circostanza grave, dato che la maggior parte di esse sopravviveva in patria grazie alle rimesse dall’estero – è stato negato il diritto a un risarcimento, contrariamente a quanto prevede la Legge sul lavoro. Del resto, moltissimi lavoratori non erano morti sul posto di lavoro, ma erano stramazzati nel sonno su una branda dei tuguri in cui risiedevano”.
Su La Svolta invece Alessia Ferri racconta il modo originale che che la piattaforma svedese d’inchiesta Blackspot ha scelto per trattare l’argomento: la realizzazione del sito Cards of Qatar, contenente un virtuale album di figurine che a una prima occhiata sembra raffigurare i volti degli idoli del pallone, ma che in realtà ritrae i tanti lavoratori dalla vita sacrificata affinché questi idoli potessero calcare campi verdi costruiti nel deserto.
Scrive Ferri: “L’idea di questo progetto-denuncia è merito del giornalista Martin Schibbye, direttore e fondatore di Blackspot, che l’ha poi realizzata grazie a una campagna di crowdfunding e al coinvolgimento di diversi inviati in Nepal, India e Bangladesh, i luoghi dai quali provenivano la maggior parte dei lavoratori. Lì i cronisti Udwab Bhatterai, Somya Lakhani, Muslima Jahan Setu, Mohammed Owasim Uddin Bhuyan hanno raccolto le testimonianze delle famiglie e aiutato nella ricostruzione delle storie di ragazzi morti nel nome di un gioco che gioco non è”.
LA PACE TOTALE IN COLOMBIA
Ultima notizia del giorno, ma non per importanza, ce la da sempre L’Indipendente in un articolo a firma di Gloria Ferrari e riguarda la Pace totale in Colombia. La Camera dei deputati della Colombia ha approvato, dopo il Senato, il disegno di legge rinominato “pace totale”, fortemente voluto dal neo Presidente Gustavo Petro. Il testo dovrà ulteriormente essere valutato da una commissione prima della definitiva promulgazione, ma comunque prevede l’apertura di negoziati di pace tra le autorità governative e i gruppi ribelli ELN e FARC (oltre ad altre bande più piccole), con l’intento ultimo di arrivare ad un definitivo cessate il fuoco.
È un cambio di strategia netto rispetto agli scorsi governi che avevano sempre marciato sulla guerra totale al narcotraffico, per poi strizzargli l’occhio sottobanco. Come specifica l’articolo “quello per la “pace totale” sarà un cammino lungo e complicato: i risultati non saranno di certo immediati, soprattutto in un paese, come la Colombia, in cui la guerriglia interna va avanti da più di cinquant’anni, mietendo milioni di vittime. Usando le parole di Petro, «è una guerra che deve finire definitivamente, senza echi, affinché la società colombiana sia la vera padrona del paese». Le speranze e le aspettative sono molte e molto alte, e il rischio è che la Colombia ricada in un vortice di violenze più accentuate di prima. Non è la prima volta che si tenta la via del dialogo, ma fino ad ora processi così inevitabilmente lunghi non hanno fatto altro che portare all’inasprimento del conflitto.
A fare la differenza, questa volta, potrebbe essere il fatto che Petro, oltre all’apertura nei confronti dei ribelli, ha previsto di introdurre all’interno dello Stato una serie di importanti riforme. Due fra queste, in particolare, hanno un enorme valore simbolico perché toccano alcuni punti cruciali e scatenanti della guerra colombiana: agricoltura e narcotraffico. Due temi strettamente collegati fra loro per via della numerosa presenza di coltivazioni di coca all’interno del Paese. Ad esempio, tramite una serie di accordi, a inizio ottobre il Governo ha acquistato tre milioni di ettari di terreni, sparsi su tutto il territorio, da distribuire fra ex guerriglieri e piccoli agricoltori, un tema che spesso li ha visti armarsi gli uni contro gli altri. E ancora. Petro ha promesso che sospenderà la “caccia” ai membri dei gruppi armati e offrirà alcuni vantaggi, tra cui pene ridotte e garanzia di non estradizione, ai membri che collaborano con la giustizia fornendo informazioni sulle rotte del narcotraffico.
Insomma un cambio di rotta netto che forse, per la prima volta potrebbe portare a una reale pacificazione sociale, pur lunga e complicata. Petro, assieme a Lula e Boric, è un esponente di spicco di questa nuova ondata di presidenti latinoamericani che arrivano dai movimenti di sinistra o comunque da una visione socialista e progressista del mondo. Come sempre, stiamo a vedere.
FONTI E ARTICOLI
#Luna
La Stampa – Spazio: partenza riuscita, Artemis 1 va verso la Luna
Greenme – Artemis 1 è partito: stiamo tornando sulla Luna (grazie alla determinante partecipazione dell’Italia)
#Ucraina
il Post – Il missile caduto in Polonia era probabilmente ucraino, lanciato per intercettarne uno russo
#Taranto
Italia che Cambia – Taranto chiama, l’Italia risponde?
#clima
Rinnovabili.it – Chi finanza la corsa alle fossili africane?
Ansa – Cop27: Lula propone realizzare summit del 2025 in Amazzonia
Lifegate – Dal G20 altri 700 miliardi di dollari alle fossili nel solo 2021
Lifegate – Riscaldamento globale: Cina ed Europa riducono le emissioni
L’Indipendente – In Nepal grazie agli indigeni sono raddoppiate le foreste
La Svolta – L’appello dei media per il clima
#Qatar 2022
Vita – Qatar 2022, il mondiale sporco
La Svolta – Mondiali Qatar: le figurine che denunciano le vite perse
#Colombia
L’Indipendente – Colombia: firmato il disegno di legge per la “pace totale” con i guerriglieri
#energia
Nigrizia – Sudafrica: Eskom annuncia altri sei mesi di blackout elettrici
L’Essenziale – La crisi dell’energia spegne anche i teatri
#Cina
il Post – La inusuale e violenta protesta contro il lockdown a Guangzhou, in Cina
#allattamento
GreenMe – Finalmente anche in Italia le deputate potranno allattare in aula (e non solo in una saletta esterna)
#fertilità
GreenMe – Perché gli uomini hanno sempre meno spermatozoi