14 Lug 2023

I soldi del Pnrr per le armi e la questione dell’Ucraina nella NATO – #766

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Mentre dagli Usa arrivano le prime bombe a grappolo all’Ucraina, il Parlamento Ue approva l’invio di nuove armi, per le quali si potranno usare anche i fondi del recovery fund. Si parla anche dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Intanto in Francia ci sono nuove regole per aumentare la riparabilità dei vestiti, in Kenya scoppiano le proteste contro il carovita e in India la povertà sembra un fenomeno in netta regressione.

Mentre è arrivata in Ucraina la fornitura di bombe a grappolo dagli Usa, ci sono altre due questioni non esattamente nuove, ma che si stanno evolvendo abbastanza velocemente, legate alla situazione del conflitto in Ucraina, entrambe abbastanza controverse e su cui è interessante soffermarci. Sto parlando del piano europeo che prevede la possibilità di usare i fondi del recovery fund per inviare armi all’Ucraina e della questione dell’ingresso dell’Ucraina stessa nella Nato. 

Partiamo dalla prima. Come racconta Tommaso Coluzzi su Fanpage, “Il piano della Commissione europea per inviare nuove forniture di armi all’Ucraina si chiama Asap, che sta per Act in support of ammunition production – atto di supporto alla produzione delle munizioni – ma potrebbe tranquillamente essere interpretato nella versione più famosa dell’acronimo (ovvero, aggiungo io, As soon as possible, il prima possibile). Mezzo miliardo di euro sul tavolo per aumentare le munizioni prodotte dagli Stati membri, e se non bastassero si possono utilizzare anche i fondi dei Piani nazionali di ripresa e resilienza.

Il piano in questione in realtà è del 7 luglio, quindi di una settimana fa, ma nella giornata di ieri c’è stato il voto finale e il parlamento ha approvato il piano con una larghissima maggioranza (505 a favore, solo 56 i contrari e 21 le astensioni). 

Come vi dicevo, la parte più contestata del piano è quella che consente di attingere dagli stanziamenti dei Pnrr – questione che ha creato non pochi imbarazzi nel gruppo socialista, Partito democratico in primis. La cosa curiosa, come spiega ad esempio un articolo di Lorenzo De Cicco su Repubblica e uno di Tommaso Coluzzi su Fanpage, è che in Italia la Camera ha votato all’unanimità una mozione, promossa proprio dai Dem, che impegna il governo a non utilizzare i soldi del Piano di ripresa e resilienza per munizioni, armi e componentistica affine. 

Quindi nel caso dell’Italia il problema non si pone. Ma è curioso che il Pd abbia sposato una linea in Italia, mentre in Europa abbia sposato la linea opposta. Da questo punto di vista segnalo che l’unico partito che ha mantenuto una coerenza è stato il M5S, oltre a singoli parlamentari. 

Al di là di questo, resta il trend di continui rifornimenti di armi da artiglieria all’Ucraina, che l’Europa continua a rifornire nella guerra con la Russia. Ne abbiamo già parlato altre volte. A me quello che turba non è tanto l’invio di armi in sé, quello onestamente lo capisco anche, se serva a tamponare un’emergenza, a resistere contro un tentativo di invasione. Ma il fatto che lì si fermi la strategia Nato e Ue. Cioé, se l’invio temporaneo di armi servisse a tenere la situazione in equilibrio mentre si lavora alacremente per un piano di pace, allora avrebbe anche un senso. Ma qui non succede niente, non si muove niente su quel fronte e nessuno sembra intenzionato a sedersi a un tavolo a trattare. Devo dire che l’unico paese che, con tutte le sue contraddizioni, ha fatto qualcosa in tal senso è stata la Cina. Anche se al momento anche il piano cinese sembra essere in stand by. 

L’altra questione che vi accennavo è l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, tema forse ancor più spinoso. Di recente sembra essersi sbloccato l’iter per l’ingresso della Svezia, dopo che Erdogan ha tolto il veto in seguito a una serie di concessioni e promesse ricevute dagli alleati, in particolare dall’amministrazione Usa. 

Per l’Ucraina invece la questione è più complicata perché, senza girarci intorno, l’Ucraina nella Nato comporterebbe un ulteriore inasprimento dei rapporti con la Russia. Va detto che è fuori discussione, al momento, un ingresso dell’Ucraina a guerra in corso, dato che ciò comporterebbe un automatico ingresso in guerra di tutto il blocco contro la Russia, mentre si parla dell’ingresso dopo la fine del conflitto.

Martedì e mercoledì c’è stata una riunione Nato a Vilnius, in Lituania, e la questione ha provocato alcune discussioni piuttosto tese e qualche disaccordo. Come spiega un articolo del Post “L’Ucraina era arrivata alla riunione di Vilnius con due obiettivi piuttosto ambiziosi: ottenere un invito formale per entrare nella NATO una volta che la guerra fosse finita oppure, meglio ancora, ottenere un piano di ingresso nell’Alleanza con scadenze temporali ben specifiche, che avrebbe determinato in maniera vincolante i tempi e i modi del processo”. 

Per i paesi della NATO entrambe le richieste erano eccessive. Tutti i leader della NATO sono ormai convinti che l’Ucraina prima o poi entrerà nell’Alleanza, ma la maggior parte di loro (a partire dal presidente americano Joe Biden) ritiene che sia prematuro, e forse perfino pericoloso, creare un percorso vincolante finché la guerra è ancora in corso. Per questo l’obiettivo dei leader NATO era di fornire all’Ucraina alcune rassicurazioni sul fatto che il suo percorso di ingresso era in avanzamento, senza però fare promesse vincolanti.

Il risultato è stato un comunicato in cui si scrive che «il futuro dell’Ucraina è nella NATO», ma in cui si dice anche che «estenderemo un invito all’Ucraina per entrare nell’Alleanza quando gli alleati concorderanno e le condizioni saranno esaudite». 

Questa dichiarazione ha però lasciato molto socntento Zelensky che martedì aveva pubblicato un tweet severissimo in cui descriveva come «inaudito e assurdo» il fatto che l’Ucraina non avesse ricevuto garanzie più concrete. Secondo il New York Times, una volta arrivato a Vilnius, Zelensky avrebbe perfino minacciato di boicottare alcuni eventi pubblici con i leader della NATO. 

Probabilmente come compensazione, mercoledì i paesi del G7 (che sono tutti membri della NATO tranne il Giappone) hanno reso pubblico un comunicato in cui garantiscono all’Ucraina nuove armi e sostegno di lungo periodo.

Insomma, queste sono le cose in ballo adesso. Dinamiche che dimostrano che siamo ancora in fase di escalation e che la situazione al momento non si sta tranquillizzando. 

Spostiamoci in Francia, paese dal quale continuano ad arrivare notizie confortanti sul tema della transizione ecologica. L’ultima novità è quella che un articolo del Fatto Quotidiano definisce “il bonus rammendo”. In pratica la ministra dell’Ecologia francese Bérangère Couillard ha annunciato che a partire da ottobre in Francia sarà possibile richiedere un “bonus réparation” tra i 6 e i 25 euro ogni volta che si sceglie di far rammendare un proprio indumento in una sartoria o calzoleria che aderisce al programma invece di buttarlo via. 

L’idea nasce da uno studio commissionato dal governo che mostra che “ogni anno in Francia vengono buttate via circa 700mila tonnellate di vestiti, due terzi delle quali finiscono in discarica”.

Come spiega un pezzo sul Post “Il “bonus réparation” è soltanto il più recente tra gli sforzi del governo francese per ridurre la produzione di rifiuti nel contesto della “legge anti-spreco” introdotta nel 2020: finora la Francia ha vietato l’uso di sacchetti di plastica per la frutta e la verdura nei supermercati e le confezioni monouso nei fast food e ha incoraggiato le aziende a pubblicare un “indice di riparabilità” dei propri prodotti per indicare quanto facile sarebbe ripararli invece di comprarne di nuovi. Ha inoltre ordinato la costruzione di fontanelle d’acqua in tutti gli spazi pubblici per ridurre l’uso delle bottiglie di plastica”.

Ora arriva questa nuova misura, molto interessante, peraltro accompagnata da una campagna di educazione e sensibilizzazione sui temi della riduzione dell’acquisto, il riutilizzo e il riciclaggio dei prodotti. 

Nel 2021 erano entrati in vigore dei bonus simili per la riparazione di elettrodomestici e prodotti tecnologici. E già nel 2016 la Francia aveva vietato ai supermercati di distruggere il cibo invenduto, obbligandoli invece a donarlo a un circuito di redistribuzione.

Ma come funzionerà nella pratica? Il governo ha messo da parte un fondo da 154 milioni di euro da cui attingere i soldi per finanziare il bonus nell’arco dei prossimi cinque anni. A ottobre tutti gli artigiani, i calzolai e i sarti che vogliono aderire al programma potranno iscriversi a una piattaforma gestita da Refashion, un’azienda finalizzata a riformare l’economia tessile per renderla più sostenibile e ridurre l’impatto del cosiddetto “fast fashion”. I negozi che rispondono ai requisiti in termini di competenze otterranno un bollino che segnali ai clienti la propria aderenza al “bonus réparation”.

Insomma, un ottimo esempio di come si può agire per allungare il ciclo di vita dei prodotti, che è uno dei tanti rami dell’economia circolare.

Spostiamoci in Kenya, dove è in atto una violenta protesta legata al carivita, che sta venendo repressa in maniera ancor più violenta, tant’è che si contano già diversi morti. Ne parla Luigi Mastrodonato su Lifegate, che scrive “In alcune città del Kenya sono scoppiate violente proteste a causa di un nuovo progetto di legge che aumenta le tasse. L’alta inflazione nel paese sta mettendo in difficoltà le famiglie e ora il governo ha annunciato una nuova misura che raddoppia la tassazione su alcuni beni come la benzina. Il leader di opposizione Raila Odinga ha chiesto alla popolazione di far sentire la propria voce e la polizia ha represso con la violenza le proteste, sparando gas lacrimogeni anche contro bambini. Il primo bilancio è di sei morti”.

Come spiega ancora il giornalista “Il Kenya sta attraversando un periodo di grosse difficoltà economiche e deve far fronte a un indebitamento crescente e questo debito e i suoi interessi si fanno sentire in modo sempre più duro sulle casse statali. I pagamenti annuali dei soli interessi sul debito interno hanno raggiunto i 5,09 miliardi di dollari nel 2023, contro i 1,34 miliardi di un decennio fa.” 

Il  Kenya rischia di andare in default e per questo motivo il governo sta cercando nuove risorse, attingendo in primis da una popolazione già messa in ginocchio negli ultimi tempi da fattori come la pandemia o l’inflazione galoppante. L’ultimo progetto di legge riguarda l’imposizione di nuove tasse su alcuni beni come la benzina, oltre che un prelievo dell’1,5 per cento sul reddito per finanziare alloggi a prezzi accessibili. 

Già nel corso della primavera ci sono state proteste di piazza nel paese, che poi sono rientrate anche perché sono stati aperti negoziati tra il governo e l’opposizione. L’Alta Corte del Kenya peraltro ha sospeso l’implementazione della legge per una serie di dispute legali, ma il governo è comunque andato avanti per la sua strada riguardo ai prezzi della benzina. E questo ha fatto riesplodere le proteste.

I manifestanti hanno lanciato pietre contro la polizia, incendiato pneumatici in strada e assaltato attività commerciali. Gli agenti hanno risposto in modo brutale, sparando ad altezza d’uomo e lanciando lacrimogeni senza filtri. 53 bambini sono stati intossicati dai gas della polizia mentre si trovavano nella loro scuola a Kangemi, nei sobborghi di Nairobi, e sono finiti in ospedale. Un ufficiale di polizia ha rivelato che nel corso degli scontri sono stati uccisi almeno sei manifestanti: tre nella città di Mlolongo, due a Kitengela e uno a Emali. Almeno altre dieci persone si trovano ricoverate in ospedale. 

Per le prossime ore sono previste nuove proteste e il rischio per il Kenya è di sprofondare in un caos non più solo economico, ma anche sociale.

Chiudiamo con una notizia che arriva dall’India. Giorgia Audiello su L’Indipendente racconta come nel giro di 15 anni il paese abbia attuato delle politiche piuttosto sorprendenti, almeno apparentemente, in tema di lotta alla povertà.  “Secondo il Global Multidimensional Poverty Index (MPI), infatti, un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato in collaborazione l’Università di Oxford, in India un totale di 415 milioni di persone sono uscite dalla povertà in soli 15 anni, dal 2005/2006 al 2019/2020. 

In realtà il rapporto non parla solo dell’India, e sottolinea come, oltre all’India, 25 Paesi hanno ridotto il loro indice di “povertà multidimensionale”tra cui Cambogia, Cina, Congo, Honduras, Indonesia, Marocco, Serbia e Vietnam. 

L’articolo non spiega cosa sia la povertà multidimensionale, ma me lo son oandato a cercare e in pratica è un metodo per misurare la povertà basato non solo su un parametro economico ma su 5 parametri: 

  • Condizioni educative del nucleo familiare.
  • Condizioni dell’infanzia e della gioventù.
  • Lavoro
  • Salute.
  • Accesso ai servizi di base.
  • Comunque, tornando all’India, il dato impressionante è che circa 645 milioni di persone erano in povertà multidimensionale in India. Il numero è sceso a circa 370 milioni nel 2015/2016 e a 230 milioni nel 2019/2021. Tutti gli indicatori di povertà sono diminuiti: «gli Stati e i gruppi più poveri, compresi i bambini e le persone appartenenti a gruppi di caste svantaggiate, hanno registrato i progressi assoluti più rapidi». 

Coloro privi di combustibile per cucinare sono scesi dal 52,9% al 13,9% e quelli senza servizi igienici dal 50,4% nel 2005 all’11,3% nel 2019. Per quanto riguarda l’indicatore dell’acqua potabile, le persone che non ne possono disporre sono scese dal 16,4% al 2,7%; mentre quelle prive di elettricità sono diminuite dal 29% al 2,1%. L’indicatore “abitazione”, invece, ha registrato una diminuzione di persone prive di casa dal 44,9% al 13, 6%.

Una progressione molto interessante. Anche se mi viene da pensare, al tempo stesso, che un aumento del benessere e un aumento della popolazione, se non vengono affrontati assieme a una transizione ecologica vera, sono forieri di nuovi problemi. Dobbiamo imparare ad affrontare le cose tutte assieme, senza spacchettarle in obiettivi e sotto obiettivi.

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