27 Set 2023

Serve una moratoria europea sugli inceneritori? – #799

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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È uscito un nuovo report di Zero waste Europe che mostra come gli inceneritori in Europa siano in buona parte sottoutilizzati e che quindi propone una moratoria sulla costruzione di nuovi inceneritori. Intanto la Lego annuncia che non proverà più a fare mattoncini in plastica riciclata perché sarebbe controproducente dal punto di vista ambientale. Parliamo anche della nuova puntata della nostra inchiesta mensile sul rigassificatore di Vado Ligure, dell’assurdo referendum sui migranti in Polonia e della probabile chiusura della rivista MicroMega.

È uscito il nuovo report di Zero waste Europa sull’incenerimento dei rifiuti e ci fornisce alcuni dati sorprendenti. Ad esempio, scopriamo che in Europa c’è un surplus di capacità di incenerimento e che forse avrebbe senso mettere una moratoria sulla costruzione di nuovi inceneritori e anzi, iniziare a pensare a un piano di smantellamento. 

Ma vediamo meglio cosa dice il report, dal nome già abbastanza esplicito di “Enough Is Enough: The case for a moratoria on inceneration”. Leggo direttamente dall’executive summary che:

“All’interno dell’UE, nel 2020 (ultimo anno per il quale erano disponibili dati Eurostat), la capacità di trattamento presso gli inceneritori di rifiuti classificati come “D10” (smaltimento) e gli impianti di incenerimento di rifiuti urbani e di coincenerimento di rifiuti (R1) era di:

● 183,5 milioni di tonnellate negli impianti R1;

● 15,3 milioni di tonnellate negli impianti D10; e

● 198,8 milioni di tonnellate negli impianti R1 e D10 insieme.

La tendenza storica dell’evoluzione della capacità nell’UE è stata quella di aggiungere 8 milioni di tonnellate di capacità all’anno nel periodo 2004-2020. Su questa base, la capacità potrebbe ora, nella seconda metà del 2023, aver raggiunto circa 220 milioni di tonnellate (anche se la pandemia COVID-19 potrebbe aver rallentato il ritmo di costruzione di nuovi impianti).

Le statistiche sui rifiuti di Eurostat indicano che nel 2020 la quantità combinata di rifiuti effettivamente trattati attraverso R1 e D10 era di 10,5 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi e 128,2 milioni di tonnellate di rifiuti non pericolosi.

Questi dati suggeriscono che esiste già una capacità di trattamento di circa 60 milioni di tonnellate di rifiuti aggiuntivi attraverso gli impianti D10 e R1 esistenti nel 2020. Insomma, se prendiamo l’Europa nel suo complesso abbiamo più inceneritori rispetto alla richiesta di incenerimento di rifiuti. 

Certo, come specifica il report, “potrebbe esserci uno squilibrio tra le categorie di rifiuti disponibili per il trattamento e la natura degli impianti in cui la capacità non è pienamente utilizzata”. In altre parole, potrebbero esserci tipi di rifiuti per cui questo surplus non è disponibile. Così come, aggiungo, potrebbero esserci delle differenze nei periodi dell’anno, o nelle regioni, che magari posso creare intasamenti nella gestione dei rifiuti temporanei o locali. 

Resta il fatto che 60 milioni di tonnellate su 200 sono quasi un terzo della capacità che resta inutilizzata. Che è tanto. E che porta il report a suggerire la necessità di rivalutare le strategie e le politiche di gestione dei rifiuti.

Leggo da un articolo su L’eco della città a firma di Bruno Casula che Janek Vahn, manager di Zero Waste Europe che abbiamo anche intervistato lo scorso anno per il nostro podcast “Rifiuti: Ri-evoluzioni” in corso, che “Gli Stati membri in cui esiste già una capacità in eccesso dovrebbero prendere in considerazione l’imposizione di moratorie e, potenzialmente, la gestione di una riduzione della capacità. Qualsiasi smantellamento pianificato trarrebbe vantaggio da un attento coordinamento”.

Più avanti Vahn afferma: “In un’era in cui la gestione dei rifiuti e la sostenibilità ambientale sono al centro della scena, i risultati di questo studio sono chiari: è tempo di una moratoria sull’incenerimento. Con la sovraccapacità incombente e gli obiettivi di riciclaggio all’orizzonte, l’Unione Europea deve rivalutare il ruolo dell’incenerimento nella gerarchia di gestione dei rifiuti”.

Il rapporto suggerisce anche come fare: ogni anno potrebbe essere smantellato il 5% degli inceneritori. Tuttavia “l’ostacolo al ridimensionamento deriva dalla posizione privilegiata dell’incenerimento all’interno della gerarchia dei rifiuti”, che secondo il report “è in gran parte “ideologica”. 

Secondo ZWE una soluzione potrebbe essere quella di mettere inceneritori e discariche “sullo stesso livello – il più basso – della gerarchia”, cosa che “darebbe probabilmente maggiore flessibilità agli Stati membri che perseguono tassi di riciclo più elevati e consentirebbe progressi più rapidi verso la mitigazione del clima”.

Ovviamente questo è un tema che in Italia ci tocca da vicino perché ci sono diversi progetti di costruzione di nuovi inceneritori, come soluzione alla crisi dei rifiuti, una crisi reale in alcune parti del nostro paese, ma per la quale probabilmente la soluzione non è costruire nuovi mega inceneritori. 

Il tema dei rifiuti è uno di quelli centrali per la nostra epoca. Il concetto di rifiuto è una roba abbastanza recente e molto umana, nel senso che è un concetto che da un punto di vista ecologico non ha senso perché in natura tutto ciò che è rifiuto per una specie diventa nutrimento per qualche altra. 

Nel nostro caso il problema è dato dal fatto che siccome siamo tanti e di rifiuti ne produciamo moltissimi, abbiamo intasato gli ecosistemi con i nostri rifiuti, ecosistemi che non sono in grado di reggere il colpo con i nostri ritmi di produzione, sia per questioni di quantità, che per questioni di tipologia, nel senso che abbiamo fabbricato con la chimica un sacco di molecole nuove che non servono da nutrimento a nessuno e quindi restano lì e si accumulano.

Spesso si propone come soluzione a tutto ciò il riciclo, che sicuramente è utile in alcuni casi, ma lo è meno in molti altri. Ad esempio nel caso della plastica, materiale che si trova praticamente ovunque ma con il quale non è che si riesca a combinare chissà cosa, nel processo di riciclo. I case study su questo si sprecano e l’ultimo esempio ci arriva proprio da una notizia di attualità riportata dal Guardian: l’azienda Lego, quella dei mattoncini, dopo anni di tentativi, ha mollato il colpo e ha smesso di provare a realizzare una linea di lego con plastica riciclata. 

Il progetto prevedeva di realizzare i mattoncini con bottiglie di bibite riciclate anziché con plastica a base di petrolio, nell’ambito del piano di transizione ecologica dell’azienda danese che produce miliardi di pezzi Lego all’anno. 

Nel 2021 Lego ha iniziato a studiare un potenziale passaggio dalla plastica che utilizza adesso, ovvero l’acrilonitrile butadiene stirene (ABS) prodotta direttamente dagli scarti del petrolio, al polietilene tereftalato (PET) riciclato.

Il problema però è che fatti i conti, Lego ha scoperto che avrebbe emesso più CO2 invece che meno. “È come cercare di fare una bicicletta con il legno invece che con l’acciaio”, ha dichiarato Tim Brooks, responsabile della sostenibilità della Lego, riferendosi al fatto che il materiale non a base di petrolio era più morbido e richiedeva ingredienti aggiuntivi per la durata, oltre a una maggiore energia per la lavorazione e l’essiccazione.

Nel 2021 l’azienda ha dichiarato di avere più di 150 persone che si occupano di sostenibilità. Ma l’amministratore delegato della Lego, Niels Christiansen, ha dichiarato al FT che il produttore di giocattoli ha “testato centinaia e centinaia di materiali” ma non è riuscito a trovare un “materiale magico” per risolvere il problema della sostenibilità.

Devo dire che è interessante perché ci mostra ancora una volta come non se ene esce con una soluzione magica. Il materiale magico non esiste in nessun campo. Dobbiamo lavorare, piuttosto, per produrre meno oggetti, utilizzare meno oggetti, e di qualità e durata maggiore, più facilmente riparabili, dobbiamo alimentare i circuiti di scambio, e così via. Certo per fare questo abbiamo bisogno di aziende flessibili, che possano diminuire la produzione senza fallire, e di stati flessibili, che possano fornire sistemi di paracadute alle persone quando perdono il lavoro. 

Intanto cresce la lista dei Paesi dell’Unione europea che hanno deciso di vietare una volta per tutti i barbarici allevamenti di animali da pelliccia nei proprio territori. Dopo l’Estonia è il turno della Lituania, i cui politici hanno votato la messa al bando degli allevamenti e del commercio di animali uccisi per le loro pellicce. 

Come scrive Francesca Capozzi su GreenMe, “La decisione è stata annunciata dal Seimas, il Parlamento nazionale della Lituania, lo scorso 21 settembre, che ha sottoscritto la revisione alla legge sul benessere e sulla protezione degli animali. Un passo storico per il Paese baltico che non è più disposto a tollerare il modo in cui visoni, volpi e altri animali da pelliccia vengono allevati, incompatibile con i criteri di benessere animale.

Le modifiche apportate riguardano il divieto di detenere, allevare, uccidere e vendere animali per la loro pelliccia e sono il risultato delle investigazioni dei gruppi animalisti negli allevamenti della Lituania”.

Il divieto entrerà ufficialmente in vigore nel 2027, ma a partire dal 2024 vi sarà un periodo di transizione in cui tutti gli allevatori che hanno registrato la propria azienda entro l’inizio del 2022 riceveranno unindennizzo per la riconversione dell’attività.

L’indennizzo sarà maggiore se le singole imprese decideranno di chiudere i battenti entro il 2025 piuttosto che entro il 2026 o 2027, un incentivo insomma per cambiare direzione prima ancora che il divieto diventi effettivo. Il Seimas ha previsto anche un risarcimento una tantum per smantellare gli impianti degli allevamenti e bonificare l’area circostante.

Attualmente, continua l’articolo, l’allevamento di animali da pelliccia è già stato vietato in ben 20 Paesi europei, tra cui alcuni Stati vicini come Lettonia, Estonia e Germania. 

Interessante.

Con colpevole ritardo vi informo che su Italia che Cambia è uscito il secondo episodio della nostra inchiesta a puntate, a firma di Emanuela Sabidussi, su rigassificatore di Vado Ligure. In questo articolo partiamo dal definire che cos’è e a cosa serve un rigassificatore, perché sono di quelle cose che sentiamo dire spesso, ma di cui difficilmente sappiamo realmente cosa sono.

Come ci spiega Emanuela Sabidussi “Le Floating Storage and Regasification Units (FSRU), chiamate anche navi-rigassificatore sono navi dedicate allo stoccaggio e alla rigassificazione, ovvero sono impianti capaci di trasformare il gas naturale liquefatto (Gnl) in stato gassoso.

Nel momento dell’estrazione infatti, per ridurre notevolmente i costi e i rischi di trasporto viene effettuata una prima trasformazione della materia prima dallo stato gassoso a quello liquido, processo che viene poi invertito prima di essere immesso nella rete dei gasdotti.

Questo procedimento di riconversione prevede che il gas liquefatto – che deve essere mantenuto ad una temperatura di -162° C per garantirne la stabilità – subisca un processo di riscaldamento controllato all’interno di un vaporizzatore: il gas liquefatto viene inserito quindi all’interno di tubi immersi in acqua marina che, sfruttando la differenza di temperatura, garantiscono la buona riuscita dell’operazione.

L’articolo poi spiega come la nave in questione dovesse inizialmente restare a Piombino, dove si trova attualmente, ma che una serie di proteste della popolazione abbiano convinto il governo a spostarla, dopo 3 anni, in un altro porto sempre nel tirreno settentrionale, scegliendo infine Vado Ligure. 

Sullo sfondo di questa scelta, restano tante domande irrisolte che andremo a toccare nei prossimi episodi, tipo: Sono davvero quindi necessari ulteriori investimenti nel settore dei grandi impianti legati al mercato del gas? Qual è lo scenario internazionale e chi sono i suoi protagonisti?

Ci aggiorniamo venerdì con una nuova puntata.

Cambiamo argomento, parliamo di migranti e di politiche xenofobe. AltrEconomia pubblica una bella intervista a Rut Kurkiewicz, definita “una delle poche voci indipendenti nel panorama dell’informazione polacca sulla situazione delle persone rifugiate e transitanti” che racconta di un referendum che si terrà appunto in Polonia il prossimo 15 ottobre, con domande un po’ tendenziose.

Leggo: “Sei d’accordo con l’ammissione di migliaia di immigrati illegali dal Medio Oriente e dall’Africa, a seguito del meccanismo di ricollocamento forzato imposto dalla burocrazia europea?”. “Sei d’accordo con la rimozione delle barriere al confine tra Polonia e Bielorussia?”. Sono due dei quattro quesiti che figurano nel referendum indetto dal partito polacco di estrema destra Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, Pis), attualmente al potere. Si vota il 15 ottobre, stesso giorno delle elezioni governative.

Rut Kurkiewicz chiama “geni della manipolazione” gli artefici di quelle domande, che trovano la loro ratio nello spostare l’attenzione su un nemico esterno piuttosto che sui temi che davvero dovrebbero trovare posto in una campagna elettorale. 

Segue poi l’intervista, in cui la giornalista ripercorre la situazione attuale, già drammatica, dei migranti in Polonia e prova a immaginare cosa potrebbe succedere in caso di vittoria del referendum. Trovate tutto sotto FONTI E ARTICOLI.

Paolo Flores d’Arcais ha annunciato che MicroMega, la rivista di politica e cultura che ha fondato e che dirige, cesserà le pubblicazioni quest’anno, a meno che nei prossimi giorni almeno 5mila persone non si impegnino a sottoscrivere un abbonamento. Attualmente però gli abbonati sono solo 500. Flores d’Arcais ha spiegato molto concretamente che l’assai probabile chiusura della rivista è dovuta alle perdite economiche cominciate dopo che nel 2021 il suo vecchio editore – il gruppo GEDI, che pubblica tra gli altri Repubblica e La Stampa – aveva rinunciato a continuare a pubblicarla.

Gli ultimi due numeri in programma, il quinto e il sesto del 2023 (MicroMega è un bimestrale), usciranno rispettivamente il 28 settembre e a fine novembre. Flores d’Arcais ha detto che attualmente la rivista ha 500 abbonati all’edizione cartacea, a cui si aggiungono circa 300 copie al mese vendute in libreria, e 1.200 abbonati “digitali” alla newsletter settimanale: «Per un bilancio saldamente in equilibrio ci serve almeno il triplo».

Flores d’Arcais ha detto che il processo che porterà alla chiusura della rivista è praticamente inevitabile, ma c’è ancora una piccola possibilità che venga evitato se entro il prossimo 8 ottobre almeno 5mila persone si impegneranno ad abbonarsi: è un numero grande e ambizioso, anche se non impensabile. Se non sarà raggiunto «MicroMega muore», ha scritto Flores d’Arcais.

Vi segnalo questa notizia perché MicroMega è una rivista storica e con un punto di vista spesso originale sui fatti. Ed è un peccato che chiuda. Ogni volta che una rivista chiude, quel particolare sguardo sul mondo smette di esistere. per carità, nel frattempo ne nascono di nuove e il mondo va avanti lo stesso eh. Però, ecco, in alcuni casi dispiace più che in altri. Per cui ecco, non so quanto costa l’abbonamento a Micromega ma se volete dare una mano, può essere un buon momento. Consapevoli però che potrebbe durarvi solo pochi mesi. 

Poi però, ve dico qui, se scopro che fate quello e non avete ancora fatto quello a ICC mi arrabbio eh!

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