10 Mag 2024

Il ritorno delle balenottere azzurre antartiche! – #928

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Le Balenottere azzurre antartiche stanno forse tornando a crescere in numero e questa è un’ottima notizia non solo perché sono animali bellissimi e maestosi, ma perché sono forse i nostri migliori alleati nella lotta al cambiamento climatico (noi evidentemente, al contrario non siamo i loro migliori alleati in questo). Sempre a proposito di cetacei parliamo della mattanza di globicefali delle isole Faroe, una tradizione molto cruenta e secolare, che però sembra sul punto, forse, di scomparire, e poi parliamo di biodiversità e di come i tentativi umani di proteggerla sembrino funzionare abbastanza. Infine chiudiamo con le notizie di oggi di ICC e con le novità dalla Sardegna.

Non è di certo la notizia con cui aprono tutti i giornali, ma forse dovrebbe esserlo. Anche se è sempre la questione dell’albero che cade e quelli che crescono. Comunque, in questo caso a crescere non sono alberi ma balene. Balenottere azzurre dell’antartico, nello specifico. 

Ne parla il Guardian in un articolo a firma di Luca Ittimani, che racconta di come i sistemi di monitoraggio acustico delle balene stiano registrando, in Australia, un numero sempre maggiore di segnali, che potrebbe indicare una crescita costante della popolazione di questa specie di balene.

Le balenottere azzurre antartiche sono questa sottospecie di balenottera azzurra che vive appunto nei mari dell’antartico e sono la sottospecie più grande di balenottera azzurra, che a sua volta è l’animale più grande della terra, quindi le balenottere azzurre antartiche sono l’animale più grande esistente sulla Terra. Non solo di adesso, ma nella storia del nostro Pianeta a quanto ne sappiamo. 

Nonostante il nome richiami il circolo polare antartico, queste balene trascorrono solo metà dell’anno nelle acque antartiche, mentre per il resto sono delle vere e proprie globetrotter. Dirigendosi verso nord verso l’Australia, il Sud Africa, il Sud America e persino attraverso l’equatore. E fra l’altro sono anche una delle specie animali più intelligenti, in grado verbalizzare comunicazioni complesse.

Comunque, come spiega l’articolo, “Secoli di caccia industriale alle balene hanno lasciato in vita solo poche centinaia di balenottere azzurre antartiche, rendendo quasi impossibile trovarle in natura”. Prima che la caccia alle balene andasse in disuso in buona parte del pianeta, a partire dalla metà del secolo scorso, la balenottera azzurra antartica era già quasi scomparsa e si temeva che la sua estinzione fosse irreversibile. Le stime più recenti, del 1998, che suggerivano che ce ne fossero meno di 2000 vive sul Pianeta.

Queste nuove ricerche, però, suggeriscono che la popolazione potrebbe essere in ripresa. Scienziati australiani e colleghi internazionali hanno trascorso due decenni ad ascoltare i loro canti e richiami distintivi, scoprendo che queste balene nuotano attraverso l’Oceano Meridionale con regolarità crescente.

L’analisi di migliaia di ore di audio, raccolto con microfoni subacquei e dispositivi di ascolto di sottomarini rilasciati dall’esercito, suggerisce che il numero delle balene è stabile o in aumento.

Le balene, infatti, sono state ascoltate sempre più spesso nell’Oceano Meridionale dal 2006 al 2021. E questo, come afferma Brian Miller, responsabile dello studio, può significare solo due cose: “O stanno aumentando di numero o stiamo migliorando nella nostra capacità di trovarle, e entrambe queste cose sono buone notizie”.

I ricercatori hanno trascorso ore ad ascoltare canti ripetitivi di circa 20 secondi, chiamati richiami Z, insieme a richiami D più corti e acuti, nel tentativo di tracciare e studiare la salute di questa specie, considerate fra quelle a rischio critico di estinzione, in un diametro di circa 150mila km nell’Oceano Meridionale, tracciando le apparizioni delle balene attorno all’Antartide. 

Ed è probabilmente la prima indicazione scientifica di cosa sta succedendo alle balenottere azzurre antartiche da un ventennio a questa parte. 

Il fatto che probabilmente le balenottere azzurre antartiche si stiano riprendendo è davvero una notizia bellissima ed emozionante. Non solo per la bellezza di questi animali, la loro maestosità, che sono tutte cose un po’ antropocentriche e lasciano il tempo che trovano, ma anche perché le balene, e questo lo sappiamo da non così tanti anni, svolgono un ruolo cruciale nella lotta al cambiamento climatico. 

Sono una specie di nastro trasportatore degli oceani e con il loro movimento costante, per respirare, dalle profondità degli abissi fino in superficie, visto che hanno questa massa gigantesca, creano delle correnti ascendenti che trasportano i nutrienti depositati sui fondali marini fino in superficie. E questi nutrienti, fra cui anche le stesse feci delle balene, sono poi la base dell’alimentazione del fitoplancton. E il fitoplancton, che sono degli esserini che fanno la fotosintesi, assorbe oggi circa il 40% di tutta la CO2 prodotta. La quantità di anidride carbonica sequestrata dal plancton è paragonabile a quella di quattro foreste amazzoniche.

Più balene significa più plancton e più cattura di CO2. Mica male.

Certo, ancora siamo piuttosto lontani da un mondo perfetto, e se sono innegabili i progressi fatti nella conservazione di tante specie di balene, rimangono luoghi del mondo dove restano in vita tradizioni piuttosto macabre, note come mattanze. Una di quelle più tristemente famose è quella della baia di Klaksvik nelle Isole Faroe, (a metà strada fra Norvegia e Islanda) dove vengono uccisi ogni anni, più volte all’anno, centinaia di globicefali. I globicefali sono quei cetacei molto simili ai delfini, sembrani dei delfini dalla pelle più scura e – da qui il nome – con la testa particolarmente rotonda e sporgente.

Ma di recente forse qualcosa sta cambiando e stanno aumentando le pressioni, anche dall’Europa, per far smettere questa pratica.

Come scrive Giacomo Talignani su la Repubblica, “La tradizione è iniziata, la prima mattanza è stata compiuta. Il sangue di 40 globicefali, tra cui almeno quattro esemplari molto giovani, il 4 maggio ha colorato di rosso la baia di Klaksvik nelle Isole Faroe. La tradizionale e storica caccia ai cetacei, chiamata “Grindadrap” o semplicemente “Grind”, osteggiata dagli ambientalisti e difesa strenuamente dalla popolazione locale, anche nel 2024 si è svolta con le solite modalità: barche che accerchiano e spingono i globicefali verso riva e una ventina di persone armate di particolari coltelli che recidono il midollo spinale degli animali, interrompendo il flusso del sangue al cervello e uccidendoli il più velocemente possibile, come richiede la pratica stessa “per non farli soffrire”.

La carne sarà poi suddivisa fra la popolazione che in questo rituale che può svolgersi da maggio fino a settembre celebra, di fatto, una mattanza che un tempo era necessaria per la sopravvivenza nelle Isole Faroe, autonome ma appartenenti al Regno di Danimarca, mentre oggi – nelle Faroe dove tra supermercati e prodotti importati manca ben poco – viene mantenuta come tradizione.

L’articolo spiega successivamente che questa pratica, che appare decisamente cruenta e anche “orribile e inutile” ai nostri occhi, è appunto una pratica tradizionale che un tempo era una forma di sostentamento, necessaria per ottenere la carne dei cetacei di cui cibarsi, in quelle isole nel mezzo dell’Atlantico dove vivere di sole coltivazioni era complesso. 

Tuttavia, come spesso accade, l’epoca moderna ha emancipato gli esseri umani dalla lotta per la sopravvivenza ma si è portato dietro, sotto forma appunto di tradizioni, degli strascichi di rituali passati. Che in alcuni casi sono anche molto belli, mentre in altri sono ormai degli involucri cruenti svuotati di significato.

Il problema delle tradizioni è che anche se svolgono una funzione, vengono spesso mascherate da altro, per essere tramandate. Sono delle credenze che offrono un vantaggio evolutivo e quindi liberarsene non è semplice anche quando quel vantaggio scompare o persino diventa uno svantaggio. 

Se, come dicevamo, anche in questo 2024 abbiamo già assistito alla prima mattanza di 40 globicefali, ci sono però segnali di un possibile declino futuro di questa pratica. Il primo è legato a una questione politica. Da anno è nato un gruppo “Stop the Grind” che raduna più associazioni nel tentativo di fermare i massacri. Di recente un eurodeputato, Francisco Guerreiro, ha presentato una mozione al Parlamento europeo affinché l’Ue chieda la sospensione dei finanziamenti alle isole Faroe finché la mattanza continuerà. 

Un’iniziativa sostenuta anche da Sea Shepherd, che fra le altre cose invita i cittadini europei “contattare i propri deputati nazionali in vista delle elezioni europee chiedendo di sostenerla”. Le isole Faroe sono in Europa, ma hanno uno status autonomi che permette loro di aggirare i divieti dell’Europa e del Regno Unito, che invece proteggono i globicefali.

Ovviamente si tratta di un tema delicato. Se possiamo dirci tranquillamente che uccidere globicefali – che fra l’altro sono animali intelligentissimi e dotati di emozioni molto elaborate – senza motivo non sia una cosa particolarmente bella – per usare un eufemismo – né utile per nessuno, e che in un contesto di crisi globale di biodiversità questa cosa dovrebbe essere vietata, è vero che quando queste cose vengono imposte dall’esterno, facendo leva su ricatti finanziari, c’è sempre il rischio che vengano vissute come un tentativo di colonizzazione culturale.

Nel difendere questa tradizione, fra l’altro, gli isolani fanno presenti anche le nostre contraddizioni, ovvero come in altre culture (anche europee) si uccidano animali nelle forme più svariate e incontrollate, mentre il Grindadrap è per loro una pratica “umana e veloce” che mira a non far soffrire globicefali e delfini. 

C’è però un altro aspetto che mi pare ancor più interessante, che apprendo sempre dall’articolo di Repubblica. L’articolo afferma che sarebbe in atto – e ne parlano diversi giornali locali – una sorta di disaffezione degli stessi isolani verso questa pratica, ed è probabile che il “Grind” non regga nei passaggi generazionali. 

Per organizzare e portare avanti la mattanza infatti c’è bisogno del lavoro degli iscritti al Grindamannafelagið, l’associazione di balenieri che è responsabile (e sono gli unici a poterlo fare) del Grind. Il gruppo conta circa mille iscritti ma come dichiarato dai vertici stessi negli ultimi tempi solo 100 associati hanno pagato e saldato le loro quote. Un segnale che indica meno fondi e meno impegno da parte degli stessi cultori della tradizione.

Pensate che il presidente dell’associazione Esmar Joensen ha recentemente proposto di sviluppare un film o un documentario per insegnare il Grind (la mattanza) ai bambini. Altrimenti, scrive lo stesso Joensen, “non passeranno molte generazioni prima che smetteremo di uccidere le balene”. 

Che da una parte può sembrare una cosa raccaprocciante, ma è anche un buon segno. Se c’è bisogno di insegnare una tradizione cercando di indottrinare i bambini, significa che quella tradizione è morta. E in genere, i tentativi di tenere in vita artificialmente qualcosa non funzionano, se non per poco. 

Ultimo elemento di pressione sugli abitanti dell’isola sono gli studi scientifici. Sui globicefali c’è ancora una forte carenza di dati a livello internazionale, la specie non è considerata in pericolo di estinzione ma di certo questi ritmi di uccisioni non sono sostenibili. Quando nel 2022 si era arrivati a uccidere quasi 1400 cetacei, dopo le proteste della comunità internazionale, le autorità delle Faroe avevano deciso di limitare le uccisioni a 500 esemplari. Che è meglio di niente, ma non basta.

Comunque ricapitolando: ci sono tanti segnali che mostrano come questa usanza stia fortunatamente cadendo in disuso. Sotto fonti e articoli vi segnalo anche le azioni che Sea Shepherd sta facendo a proposito.

Oggi restiamo sul filone altri animali e biodiversità. E chiudiamo con un interessante articolo di Focus, firmato da Elisabetta Intini, che può fare un po’ da cornice ai ragionamenti fatti fin qui. Che mostra come investire in azioni per la protezione della biodiversità stia portando ottimi risultati e che probabilmente dovremmo investirci di più. 

A confermare questa tesi è una ricerca pubblicata su Science e coordinata da Penny Langhammer, vicepresidente del programma Re:wild e Professoressa di Biologia dell’Arizona State University, che ha passato in rassegna i risultati di quasi 200 ricerche precedenti.

Studi come questo, in ambito scientifico, si chiamano “revisioni sistematiche” e “meta-analisi” perché non partono dall’osservazione diretta ma mettono insieme molti precedenti studi su un certo argomento cercando di trarre delle conclusioni generali. In questo caso, lo studio ha preso in considerazione i precedenti studi che misuravano come è cambiata la biodiversità nel tempo in ecosistemi che erano stati coinvolti in azioni di conservazione, rispetto ad altri che invece non avevano beneficiato di alcun aiuto.

In due terzi dei casi, i programmi di conservazione hanno o migliorato lo stato della biodiversità di un ecosistema (quello che gli autori dello studio definiscono un impatto “assolutamente positivo”, che ha riguardato il 45,4% dei progetti analizzati), o almeno rallentato il declino della biodiversità (avendo, cioè, un impatto “relativamente positivo”, 20,6% dei casi).

Il restante terzo dei casi riguarda interventi in cui lo zampino dell’uomo ha finito per peggiorare gli equilibri e la biodiversità di un ecosistema; contesti in cui la biodiversità è migliorata comunque, con o senza l’uomo, progredendo tuttavia in misura maggiore quando non è stato messo in campo alcun aiuto umano; o infine interventi che non hanno sortito alcun miglioramento. 

Quindi, ecco, alla luce di questi dati sembra che il mio invito a farci i fattacci nostri lasciando che gli ecosistemi facciano il loro corso non sia sempre valido. O almeno, credo, lo sarebbe se ci levassimo proprio di torno, tipo nell’ipotesi half word che riscuote sempre più successo in ambito ecologico, ovvero di lasciare almeno metà delle terre emerse alla natura incontaminata. Altrimenti, sembrerebbe una buona idea applicare politiche attive di conservazione e tutela della biodiversità.

In particolare, sembrano funzionare bene gli interventi indirizzati alla tutela delle specie e degli ecosistemi, come gli interventi per il controllo delle specie aliene invasive, o per la riduzione della perdita e del degrado degli habitat, l’istituzione di aree protette e la gestione sostenibile degli ecosistemi, che secondo lo studio sono le azioni più efficaci e con le ricadute più visibili. 

Tuttavia, come specifica lo studio, per avere davvero un impatto sullo stato della biodiversità globale questi interventi andrebbero ampliati in modo sostanziale, implementati su ancora più ecosistemi e con investimenti economici assai più significativi rispetto a quelli attuali. Insomma, delle due l’una: o facciamo un passo indietro o ne facciamo 10 avanti.

Ora, dopo tutte queste belle notizie, direi che possiamo chiudere in bellezza andandovi a raccontare le notizie pubblicate oggi su ICC. Come di consueto negli ultimi giorni, visto che il nostro direttorissimo è in Calabria a raccogliere nuove interviste e a scoprire la Calabria che Cambia, ho chiesto al caporedattore Francesco Bevilacqua di raccontarci di cosa parliamo oggi.

Audio disponibile nel video / podcast

E proprio ad Alessandro Spedicati do la parola perché ci racconti la notizia più “nazionale” di oggi, fra quelle trattate nella rassegna sarda.

Audio disponibile nel video / podcast

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