Il rinnovo dell’accordo della vergogna Italia-Libia e altre notizie “africane” – Io Non Mi Rassegno #612
RINNOVATO L’ACCORDO ITALIA-LIBIA SUI MIGRANTI
Lo chiamano il memorandum della vergogna ed è una delle poche cose che sono rimaste invariate al variare dei più diversi governi. Si tratta dell’accordo fra Italia e Libia sulla migrazione, che ieri si è di fatto rinnovato automaticamente per altri tre anni.
Si tratta di un accordo tra i due paesi per arginare gli arrivi di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Scrive il Sole 24 Ore: “Il Memorandum prevede che il governo italiano fornisca aiuti economici e supporto tecnico alle autorità libiche per ridurre i flussi migratori, ai quali viene affidato la sorveglianza del Mediterraneo attraverso la fornitura di motovedette, di un centro di coordinamento marittimo e di attività di formazione”.
Si tratta di un accordo aspramente criticato da molte organizzazioni e Ong. “Secondo Save the Children, ad esempio, sostenere la Guardia costiera libica, attraverso fondi, mezzi e addestramento equivale nella sostanza a sostenere i centri di detenzione libici, definiti ufficialmente “centri di accoglienza”, dove le persone vedono quotidianamente calpestati i propri diritti, sottoposte a trattamenti inumani e degradanti.
Dal 2017 all’11 ottobre 2022, osserva l’ong, quasi centomila bambini, donne e uomini sono stati intercettati in mare dai dalla Guardia Costiera Libica, per poi essere riportate in un Paese che non può essere considerato sicuro. Sono numerosi i report delle Nazioni Unite, confermati anche dalle testimonianze dei migranti che riescono a lasciare il Paese, che riportano come episodi di violenza, torture e riduzione in schiavitù siano all’ordine del giorno nei centri di detenzione in Libia”.
Come racconta a Desirée Altobelli su Left Alice Basiglini, volontaria di Baobab experience, associazione romana che assiste migranti in transito «I migranti che aiutiamo giunti qui dalla Libia principalmente di origine eritrea e sudanese, hanno tutti vissuto esperienze più o meno sfortunate, legate al tipo di centro detentivo dov’erano inseriti, alla durata la permanenza obbligatoria in quei luoghi, a quante volte sono stati truffati, venduti e rivenduti sul mercato degli schiavi, a quante volte hanno subito violenze anche fuori dai lager libici, dai centri detentivi ufficiali e non ufficiali, nelle strade, in abitazioni private».
Le violenze nei confronti della popolazione migrante, i raid continui soprattutto nelle città libiche e nelle loro periferie, sottopongono sistematicamente le persone migranti a una situazione di forte pericolo e rischio. «Il lager è solo una delle dimensioni di un inferno che è un inferno globale. Stiamo attualmente lavorando all’evacuazione di tre donne, una mamma con due figlie. Una delle figlie aveva già avuto un’esperienza orribile nel lager. Sono state derubate e abusate in un appartamento privato».
Insomma, stiamo parlando di andare a favorire e anzi finanziare, come Stato, questo tipo di situazione. Alla faccia di aiutarli a casa loro, come ha detto Meloni nel suo discorso d’insediamento. Tuttavia sarebbe scorretto addossare colpe specifiche a questo governo, perché come vi dicevo all’inizio, questo accordo ha una storia ormai quinquennale, è al suo terzo rinnovo ed è trasversale a tutti gli ultimi governi.
Spiega il Sole che l’accordo fu “Siglato il 2 febbraio del 2017, sotto il governo Gentiloni, e sottoscritto per i libici da Fayez Mustafa Serraj, presidente del Consiglio presidenziale, Governo di accordo nazionale libico.
L’articolo 8 prevede che il Memorandum abbia validità triennale e sia tacitamente rinnovato alla scadenza per un periodo equivalente, «salvo notifica per iscritto di una delle due parti contraenti, almeno tre mesi prima della scadenza del periodo di validità (il 2 novembre di quest’anno, ndr)». L’esecutivo Draghi prima e ora quello Meloni non hanno chiesto di rivedere l’intesa, nonostante il pressing delle ong, che in più di un’occasione hanno ricordato i casi di violazione dei diritti umani nei centri di detenzione libici, dove vengono trattenuti i migranti intercettati in mare. Di qui il rinnovo automatico”.
CONGO SULL’ORLO DI UNA GRANDE GUERRA?
Restiamo in Africa, ma ci spostiamo un po’ più a Sud. Daniele Bellocchio su Inside Over ricostruisce la complicata situazione del Congo, dove i caschi blu dell’Onu sembrano essere sul punto di ritirarsi lasciandosi alle spalle una situazione potenzialmente esplosiva.
Provo a riassumervi la situazione, che è abbastanza complessa e va avanti da molti anni. Considerate che la stessa missione Onu, che oggi sembra sul punto di abbandonare il paese, è presente ormai da 23 anni e non sembra aver conseguito grandi risultati.
La situazione è una vera e propria guerra – con un andamento carsico – fra l’esercito del paese, più vari alleati, e un gruppo ribelle chiamato M23. Il gruppo, composto principalmente da soldati di etnia tutsi, nel 2012, diede origine all’ultima grande guerra nel Nord Kivu. Il motivo era la rivendicazione di maggiori diritti per i soldati e la popolazione tutsi. La formazione avanzò per mesi nelle regioni orientali, prese controllo della frontiera con il Ruanda e arrivò a occupare la città di Goma. L’insurrezione venne sconfitta nel 2013 e il leader del gruppo Sultani Makenga ripiegò in Ruanda insieme ai suoi fedelissimi. Dopo nove anni le forze irregolari si sono ricompattate e, meglio armate e addestrate, hanno di nuovo dato vita a una guerriglia nell’est del Paese.
A giugno c’è stata una vera e propria escalation con M23 che ha preso controllo di svariate città e distretti nell’est del paese. E quest’ennesima ribellione avrebbe avuto, fra i vari effetti, anche una “crisi di fiducia” della popolazione nei confronti della missione dei caschi blu, ragione alla base del ritiro del contingente di pace che dovrebbe avvenire entro il 2024.
Anche se lo scetticismo verso la missione delle nazioni Unite non è cosa recente. Continua Bellocchio: “In realtà è da anni che la popolazione del Nord Kivu, del Sud Kivu e dell’Ituri osteggia l’operato dei peacekeepers poiché l’est del Paese, nonostante la presenza decennale delle forze di pace, rimane una delle zone più instabili del pianeta e da oltre mezzo secolo si susseguono guerre e ribellioni. Oggi si conta la presenza di oltre 120 gruppi armati e sono più di 5 milioni gli sfollati interni”.
E la guerra di giugno sembra aver messo a nudo i limiti del contingente internazionale, con lo stesso segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres che ha dichiarato che: “le Nazioni Unite non sono in grado di sconfiggere l’M23. La verità è che l’M23 oggi è un esercito moderno, con un equipaggiamento militare più avanzato di quello della MONUSCO” (nome della missione Onu in Congo).
Alla delicata situazione interna, e intrecciata ad essa, aggiungeteci anche gli altrettanto delicati equilibri della regione, tra RDC, Uganda e Ruanda. Insomma, ci sono tutti gli ingredienti per una escalation bellica, con il ritiro delle Nazioni Unite, che non avranno ottenuto questi grandi risultati ma comunque tamponano la situazione con un contingente di 12500 uomini e un budget di circa un miliardo di dollari all’anno.
Ma quindi cosa succede adesso? La volontà dell’ONU sarebbe quella di passare il testimone ad attori regionali come il Kenya e l’Angola, Paesi però che da poco hanno affrontato le elezioni presidenziali e che al momento sono maggiormente impegnati in questioni di politica interna. In più la disattenzione internazionale a causa della crisi energetica globale e della guerra in Ucraina, l’assenza di una forza di interposizione africana solida e con un peso specifico politico considerevole; sono tutti fattori di un’equazione che fa temere che il risultato finale possa essere il divampare di un nuovo conflitto di vasta portata nel Paese africano.
Sullo sfondo però si stanno muovendo altri attori. Ad esempio Macron, che vuole riportare la Francia a giocare un ruolo di mediazione centrale nella regione e vorrebbe guidare o meglio mediare la formazione di un contingente africano da parte dei paesi che fanno parte della East African Community (EAC) che dovrebbe comprendere dai 6’500 ai 12’000 uomini e avrebbe l’obiettivo (da statuto, che esiste già) di “contenere, sconfiggere e sradicare le forze negative”.
Conclude l’articolo: “La fine della missione dei Caschi blu, il dispiegamento di una forza africana ondivaga, le elezioni presidenziali in Congo l’anno prossimo e in Ruanda nel 2024, la situazione politica dell’intero continente estremamente precaria come dimostrano i colpi di stato che stanno destabilizzando l’Africa, la necessità sempre maggiore di risorse a livello globale e il consequenziale aumento degli appetiti internazionali per il forziere africano, la presenza di una ribellione ben organizzata sul piano militare e che controlla una delle frontiere del Paese; sono tutti aspetti che mostrano la massima tensione che regna nell’ex Congo belga”.
Sono situazioni davvero complesse, e come occidentali troppo spesso facciamo finta che non esistano, salvo approfittare della debolezza del continente africano per depredarlo di risorse. Sembra un luogo comune, ma è un luogo comune tristemente vero.
LA RESISTENZA PACIFICA IN SUDAN
Restando nel continente, proseguiamo con un articolo di Francesca Sibani su Internazionale che racconta “Un anno di resistenza pacifica in Sudan”. “Nel paese africano la rivoluzione scoppiata nel 2018 aveva portato alla caduta del dittatore Omar al Bashir nell’aprile del 2019. Da quel momento è cominciata una difficile transizione verso la democrazia, che è stata dirottata il 25 ottobre 2021 dal colpo di stato del generale Abdel Fattah al Buhran”.
“Un anno fa Al Buhran ha estromesso il primo ministro Abdallah Hamdok e sciolto il governo di transizione (formato sia da militari sia da rappresentanti della società civile) proclamando lo stato d’emergenza”. Tuttavia questa che sembra l’inizio di una delle tante, l’ennesima, storia di i violenza e dittature militari comuni a tante latitudini, ha una svolta inaspettata. Continua l’articolo: “La dura repressione messa in atto dai militari non ha scoraggiato la popolazione, che ha continuato a scendere in strada sfidando le autorità per reclamare giustizia e un governo civile. “In Sudan i carri armati della giunta si trovano di fronte un concetto di resistenza non violenta chiamato silmiya” (pacifica, in arabo), che alcuni hanno chiamato anche “atmosfera dell’amore”. È una forma di protesta che compatta la società intorno a valori condivisi e, alla lunga, ha più probabilità di successo”.
Pochi giorni fa, nel primo anniversario del golpe di Al Burhan, decine di migliaia di sudanesi sono tornati a dare prova della loro determinazione partecipando a manifestazioni di protesta in ben diciannove città. Chiedevano il ritorno della democrazia e di un governo formato da civili. La polizia ha usato idranti, gas lacrimogeni e armi per disperderli, uccidendo una persona che è stata investita da un veicolo militare.
I cittadini si rendono conto che, con i militari al governo, le condizioni economiche, di vita e di sicurezza sono peggiorate, e la corruzione all’interno dello stato è rimasta tale e quale al passato. Dopo il colpo di stato “i rubinetti degli aiuti internazionali sono stati chiusi. Più di 4,6 miliardi di dollari di finanziamenti per progetti nei settori energetico, agricolo e sanitario, così come un programma di sostegno alle famiglie povere, sono stati congelati. Per fare cassa le autorità hanno aumentato le tasse. E il carovita è stato aggravato dalla crescita al livello mondiale dei prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari causati dalla guerra in Ucraina.
La situazione quindi è molto difficile, ed è complicata dal fatto che esistono ben due eserciti del paese, che sembrano destinati a scontrarsi. “Il primo è formato dalle forze regolari, dalle quali provengono dittatori come Al Bashir e lo stesso Al Burhan. Il secondo è composto dalle forze di supporto rapido, che derivano dalle milizie arabe del Darfur, i paramilitari janjawid protagonisti della sanguinosa controinsurrezione in quella regione. Il loro leader è il generale Mohammed Hamdan Dagalo, detto Hemetti”.
Ciononostante, i sudanesi continuano a scandire le loro proteste e a portare avanti la loro resistenza popolare la cui intensità e capillarità, scrive la ricercatrice Nada Wanni su Al Jazeera, spesso sfugge agli occhi degli osservatori esterni.
Insomma, spesso le modalità con cui si portano avanti certe battaglie sono in grado di cambiare notevolmente il risultato delle stesse, più delle motivazioni che le spingono.
VERSO COP 27: È INIZIATA LA CONFERENCE OF YOUTH
Va bene, chiudiamo la rassegna “africana” cambiando decisamente registro e spostandoci in Egitto, dove è iniziata la marcia di avvicinamento a Cop 27, la conferenza annuale delle Nazioni Unite sul clima, che quest’anno si tiene a Sharm-El-Sheik. È una conferenza un po’ atipica, quella di quest’anno, perché arriva in un momento in cui tutto il mondo sembra fare passi indietro sul tema della crisi climatica e della transizione ecologica per via di un’altra crisi, ad essa interconnessa, ovvero quella energetica.
Inoltre viene dopo la Cop 26 di Glasgow dello scorso anno, su cui c’erano grandi aspettative e che è stata un mezzo fallimento. Per cui qui partiamo con aspettative piuttosto basse e con un’attenzione mediatica altrettanto scarsa. Solo che nel frattempo la crisi climatica non è che sia diventata meno urgente e importante, anzi. E quindi proprio per questo, noi la seguiremo con attenzione costante.
E iniziamo a seguirla raccontandovi quello che già a partire da ieri sta avvenendo a Sharm El Sheik, ovvero la Conference of Youth 17, la diciassettesima conferenza della gioventù, l’evento annuale dei giovani sul clima organizzato sotto l’egida di YOUNGO, La circoscrizione giovanile della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Non vi dico altro perché lascio la parola a un’inviata speciale che ci racconta meglio di cosa si tratta e cosa è successo in questa prima giornata. Lei è Elisabetta Reyneri, avvocato ambientale e scrittrice, una delle delegate italiane alla Conferenza.
AUDIO ELISABETTA REYNERI
MESSICO, IL GOVERNO RESTITUISCE LE TERRE AGLI YAQUI
Va bene, abbandoniamo il continente africano e voliamo in America del Nord, dove domenica il presidente del Messico Andrés Manuel López Obrador ha firmato un decreto con il quale il governo restituisce le terre che erano state espropriate ai popoli Yaqui originari: 29.241 ettari che si trovano in aree all’interno dei loro territori, come La Noria del Sahuaral e El Picacho de Mosobanco. Ne parla Lorenzo Poli su Pressenza.
Secondo i media locali, la restituzione della terra fa parte del piano di giustizia dell’attuale governo messicano nei confronti degli Yaqui, le cui terre ancestrali sono state loro sottratte negli ultimi 90 anni. “Gli Yaqui – riporta GreenReport – sono una popolazione di nativi americani che viveva in una regione che comprende il bacino dell fiume Yaqui e che si estende tra l’attuale stato messicano di Sonora e lo Stato Usa dell’Arizona”.
Questa decisione da parte del governo messiano mi pare un messaggio importante che si inserisce in un tentativo di cambio di rotta che sta avvenendo negli ultimi anni nei rapporti fra stato e popolazioni native. ovvio che la situazione è comunque complessa, e ad esempio il governo della regione di Sonora, che era presente alla restituzione e sostiene di essere alla base di questa decisione, è lo stesso che sta costruendo la grande diga Independencia che devia l’acqua dal fiume Yaqui verso la capitale dello Stato Hermosillo. Ad ogni modo, prendiamo la notizia di oggi come un segnale positivo.
LA SCELTA DEI SOTTOSEGRETARI E LE ELEZIONI IN ISRAELE
Allora, lo so che vi avevo promesso che oggi avrei parlato anche della scelta dei sottosegretari e viceministri da parte del governo (hanno giurato ieri) e di come sono andate le elezioni in Israele. Ma la verità è che tutta la questione dei sottosegretari e viceministri non mi sembra così avvincente (anzi mi annoia alquanto) e non ho trovato chiavi di lettura particolarmente brillanti in giro, per cui vi lascio un articolo del Fatto in cui vengono presentati i nuovi ingressi del governo, in modo che se proprio smaniate per conoscerli potete leggervi quello.
Sulla questione Israele, ben più importante e per molti versi preoccupante, qui il punto non è che non ci siano cose da dire ma che alla fine tutte le cose che avevamo anticipato ieri si sono rivelate corrette. Netanyahu tornerò a governare il paese con l’appoggio dell’estrema destra. Il che apre a scenari molto preoccupanti – e di cui certamente ci occuperemo – per quanto riguarda la questione palestinese. Ma lo faremo a tempo debito.
Invece voglio chiudere tornando brevemente sulla questione dei rave party, perché la mia collega Daniela Bartolini ha una chiave di lettura originale e molto interessante della questione che voglio sottoporvi. Vi lascio a lei e noi ci rivediamo per i saluti finali.
AUDIO DANIELA BARTOLINI
FONTI E ARTICOLI
#Italia-Libia
Il Sole 24 Ore – Migranti, termine scaduto: si rinnova per altri tre anni il Memorandum tra Italia e Libia
Left – «No al rinnovo degli accordi Italia-Libia sui migranti». La società civile alza la voce
#Messico
Pressenza – Messico, López Obrador firma decreto per restituire le terre ai popoli Yaqui
GreenReport – Il Messico restituisce 29.000 ettari ai popoli Yaqui
#Sudan
Internazionale – Un anno di resistenza pacifica in Sudan
#Congo
Inside Over – Una nuova guerra mondial africana bussa alle porte del Congo
#Sudan
Internazionale – Un anno di resistenza pacifica in Sudan
#sottosegretari
Domani – Ecco chi sono i sottosegretari e i viceministri del governo Meloni
il Fatto Quotidiano – Al Governo 19 senatori tra ministri e sottosegretari: numeri a rischio a Palazzo Madama. “Incontro Renzi-Santanchè”: poi la smentita
il Fatto Quotidiano – Governo Meloni, nominati viceministri e sottosegretari: dopo lo stop a Mangialavori Berlusconi piazza i suoi a Mise, Editoria e Giustizia