25 Lug 2024

Presidenziali Usa, la rimonta di Harris. Può battere Trump? – #969

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Dopo il ritiro di Biden si sta facendo strada la figura di Kamala Harris, che cresce anche nei sondaggi cercando di trovare il suo spazio mediatico e nell’immaginario popolare. Intanto in Uk il nuovo premier Keir Starmer sta applicando quello che Politico definisce un radicalismo silenzioso in materia ambientale. Parliamo anche della situazione a Gaza e di Netanyahu che è volato negli States e dell’arresto del fondatore di Sea Shepherd Paul Watson.

Tarda mattinata di domenica, la Vicepresidente Kamala Harris ha convocato un piccolo gruppo dei suoi più stretti consiglieri e alleati all’Osservatorio Navale, dove vive e lavora, con poco preavviso e ancora meno informazioni.

Il Presidente Biden l’aveva informata quella stessa mattina che si sarebbe ritirato dalla corsa. La vicepresidente aveva radunato il suo team in modo che, esattamente nel momento in cui Biden avrebbe formalmente annunciato il ritiro, alle 13:46 fossero pronti ad agire.

Il tempo era essenziale. Una vasta lista di chiamate dei più importanti leader Democratici da contattare era stata preparata in anticipo. La vicepresidente, in sneakers e felpa, ha iniziato metodicamente a chiamare i potenti del partito.

“Non potevo lasciare che questa giornata passasse senza che sentissi la mia voce”, sembra aver detto ripetutamente Harris nel corso di queste telefonate, secondo alcuni dei chiamati.

Ha chiamato gli ex presidenti Democratici, molti dei suoi potenziali rivali — inclusi i governatori Gretchen Whitmer del Michigan, JB Pritzker dell’Illinois e Josh Shapiro della Pennsylvania — i leader congressuali Democratici, il senatore Bernie Sanders, i capi dei vari influenti caucus e altri importanti Democratici.

La raffica di chiamate ha dimostrato esattamente il tipo di vigore ed energia che Joe Biden era mancato nelle ultime settimane. Si dice che Biden abbia fatto 20 chiamate ai Democratici del Congresso nei primi 10 giorni circa dopo il dibattito, mentre la sua candidatura era in bilico. Kamala Harris ha fatto 100 chiamate in 10 ore”.

Questo articolo di Shane Goldmacher sul NYT mostra in maniera evidente tutta la differenza di passo fra Harris e Biden. Non si tratta qui tanto di idee politiche ma proprio di vigore, di capacità d’azione. Anche, banalmente, dei molti anni in meno. 

E questo vigore sembra aver sortito già i primi effetti. Due i principali. Uno è di aver sbloccato nuovamente i finanziamenti, fiume, da parte degli sponsor dei democratici. L’altro è quello di aver fatto immediatamente recuperare punti nei sondaggi rispetto a Trump. 

Come racconta Alessandro D’Amato su Open “Il primo sondaggio effettuato dopo l’ufficialità del ritiro di Biden dà Harris in vantaggio di due punti su Trump: 44% a 42%. Kamala vincerebbe anche in una gara a tre: 42% contro il 38% di Trump e l’8% di Robert F. Kennedy. 

Ciò non significa che i democratici siano effettivamente favoriti. Come racconta sempre ad Open il sondaggista Tony Fabrizio, “Si tratta di una crescita in qualche modo prevedibile”. «Per un paio di settimane vedremo una luna di miele Harris grazie alla copertura mediatica positiva e che questo la farà crescere nei sondaggi (specialmente nazionali), permettendole di raggiungere o anche superare Trump», poi il trend potrebbe riassestarsi.

Ieri sera (nella notte italiana)  Biden ha tenuto un discorso in diretta Tv in cui ha spiegato pubblicamente le motivazioni della sua scelta di ritirarsi. Ha detto che meritava la rielezione ma che è tempo di farsi da parte e lasciare spazio alle nuove generazioni, perché in ballo c’è la democrazia. Quindi non ha spiegato granché, tutto sommato. Intanto Harris nelle sue primissime uscite ha cercato di trovare la sua cifra stilistica. Come racconta Matteo Muzio su Domani, “Harris, nelle sue prime uscite, sta cercando di trovare una sua cifra per arrivare a novembre con una base motivata. Una è la narrazione di sé come ex procuratrice che perseguita il «criminale condannato» Donald Trump, l’altra è quella di portabandiera dei grandi risultati raggiunti in questi quattro anni sui temi economici e sui diritti civili, compresa la legge varata a difesa del matrimonio egualitario.”

Certo, non mancano i problemi. Come ad esempio il tema della ricca eredità di Biden. In pratica, Harris in quanto vicepresidente ha ereditato automaticamente una eredità di 91,5 miliardi di dollari per la campagna elettorale raccolti da Biden, ma i repubblicani non ci stanno. Trump l’ha definita una rapina e alcuni suoi colleghi di partito hanno già chiesto l’impeachment, ma sembra al momento una iniziativa con poche speranze di riuscita. 

In tutto ciò, formalmente la nomina del nuovo o della nuova candidata alla presidenza avverrà durante la convention democratica che si terrà dal 19 al 22 agosto. In cui i delegati eleggeranno il potenziale presidente e vice. Anche se si inizierà a votare già dalla prossima settimana in forma virtuale. Comunque la candidatura di Harris appare abbastanza scontata.

Staremo a vedere.

Ci spostiamo nel Regno Unito e cis postiamo su Valori, per un articolo che mostra un lato nascosto del nuovo premier Keir Starmer. Leggo dall’articol oa firma di Lorenzo Tecleme: “Via alla moratoria sulle pale eoliche a terra, stop a nuove trivelle nel mare del Nord, tasse sulle multinazionali del comparto energia e luce verde a un’azienda 100% pubblica dedicata alla transizione ecologica. Che l’annunciata vittoria del partito laburista nel Regno Unito avrebbe messo fine all’accanimento dei governi conservatori contro le politiche climatiche era atteso. 

Ma gli analisti non si aspettavano l’iper-attivismo che l’esecutivo guidato da Keir Starmer sta dimostrando nelle prime settimane al potere. Molto del merito è di Ed Miliband, già guida del partito tra il 2010 e il 2015 e ora Segretario di stato per i cambiamenti climatici e il net-zero. Sta a lui dimostrare che i Labour sono pronti a superare le loro tante contraddizioni in materia ambientale e climatica”.

In pratica l’articolo spiega che appunto, la propensione ecologista e volta alla transizione energetica di Starmer sta superando ogni attesa. Anche per la velocità con  cui arrivano queste novità, a raffica.

Continuo, più avanti, che si scende nei dettagli: “A pochi giorni dalla vittoria, l’appena nominato ministro Ed Miliband ha iniziato la sua girandola di annunci. Come prima cosa il governo laburista ha revocato le leggi che rendevano quasi impossibile installare parchi eolici in-shore, cioè a terra, nel Regno Unito. Si trattava di una moratoria de facto, composta da un insieme di regole che rendevano estremamente facile bloccare nuove pale. Le ragioni che spinsero i Tories a promulgare queste norme nel 2015 erano essenzialmente di tipo paesaggistico. Ora il governo Starmer centralizza le autorizzazioni del settore, che verranno erogate direttamente da Londra. 

La seconda novità riguarda le trivelle off-shore, cioè in mare. Le acque al largo della Scozia sono ricche di petrolio e gas naturale e il Regno Unito, prima di Brexit, era il principale produttore di idrocarburi dell’Unione europea. Già durante la campagna elettorale i laburisti avevano promesso di non autorizzare nuovi impianti estrattivi, pur lasciando in funzione quelli esistenti. Ora, secondo il Financial Times, Miliband starebbe considerando l’ipotesi di bloccare anche quei progetti il cui iter autorizzativo è già iniziato. Stando all’autorevole testata specializzata Carbon Brief, in seguito a questa svolta il Regno Unito potrebbe aderire alla Beyond Oil&Gas Alliance (BOGA). 

Si tratta di un piccolo consorzio di Stati, capitanato da Danimarca e Costa Rica, uniti dall’impegno a non cercare nuovi combustibili fossili nel proprio territorio. Se la decisione verrà confermata – gli esperti ipotizzano la Cop29 di Baku a novembre come location per l’annuncio – il Regno Unito diventerebbe la nazione più ricca di idrocarburi ad entrare in BOGA.

Altre novità sono la scelta di ritirare l’appoggio governativo a una nuova miniera di carbone in Cumbria, nel nord-ovest dell’Inghilterra, e aumentare delle tasse sulle compagnie del settore energetico. Ma la decisione potenzialmente più trasformativa è la prossima istituzione di Great Britain Energy. Si tratterà, secondo quanto spiegato dal governo, di una compagnia 100% pubblica col compito di intervenire direttamente nella transizione alle fonti energetiche pulite. L’azienda, scrive Bloomberg, «investirà in produzione, distribuzione, stoccaggio e fornitura di energia pulita, nonché nella riduzione delle emissioni di gas serra derivanti dall’energia prodotta da combustibili fossili». 

Il budget di partenza dovrebbe essere più che significativo: 8,3 miliardi di sterline. Una decisione, quella di istituire GB Energy, che rompe in parte con il blairismo, la lunga stagione politica che ha visto i laburisti in prima fila nel ridurre l’intervento dello Stato in economia. A picconare la strategia delle privatizzazioni, d’altronde, erano stati già i Tories. In piena emergenza Covid fu l’allora premier conservatore Boris Johnson a rinazionalizzare alcuni vettori ferroviari per evitarne il fallimento.

«Le scelte di Starmer vanno inserite nel contesto britannico, cioè nel Paese che ha avuto e tutt’ora ha il più forte movimento ecologista d’Europa» spiega a Valori Alberto Manconi, ricercatore dell’Università di Losanna ed esperto di mobilitazioni ambientali nel Regno Unito. «Il partito laburista esprime oggi il governo più a destra della sua storia. Ma anni di pressione dal basso lo costringono a concedere delle vittorie all’ecologismo. Anche perché alla sua sinistra la crescita dei Verdi e l’ingresso in Parlamento di alcuni candidati indipendenti – tra cui l’ex segretario Jeremy Corbyn – rappresentano un piccolo campanello d’allarme per il partito».

Fatto sta che, vuoi per scelta vuoi per una sorta di imposizione dal basso, vuoi per gli equilibri interni al partito, Starmer si sta trovando ad essere l’esponente di una nuova corrente ecologica che Politico ha definito «quiet radicalism», radicalismo silenzioso. Che se ci pensate è un po’ il contrario del greenwashing, che si basa sullo sbandierare un impegno inesistente. È un fenomeno molto interessante da notare.

Fra l’altro alcuni dei temi trattati sono temi caldi anche da noi. Ad esempio quello del contrasto fra eolico e paesaggio, che è più complesso di quanto sembra e sta diventando l’ennesimo tema polarizzante, in cui si stanno creando due fazioni nette e spesso ideologiche. Stiamo raccontando la questione anche su ICC, raccogliendo voci anche in contrasto fra loro. Oggi vi segnalo un articolo a firma di Paolo Piacentini, sul tema.

Anche sul fronte israelo palestinese sono successe cose. Ieri il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu era negli Usa per incontrare Biden e il congresso. «America e Israele devono rimanere uniti. Noi insieme vinceremo», ha esordito Netanyahu davanti al Congresso.

Ma il suo discorso è stato accolto dalle proteste ed è stato disertato proprio da Harris (e da Nancy Pelosi) che, in teoria, doveva presenziare nella sua veste di vicepresidente del Senato, ma che ha preferito essere a un evento in Indiana. Sottotraccia, corre anche l’accusa dei dem a Netanyahu di aver prolungato artatamente la durata del conflitto soltanto per arrivare fino all’insediamento di Trump il prossimo 20 gennaio 2025, evitando quindi una difficile gestione del tempo di pace dove dovrebbe rispondere su vari temi di fronte all’opinione pubblica, non ultimo il fallimento dell’intelligence di Tel Aviv lo scorso 7 ottobre.

Il premier israeliano vedrà il tycoon, con il quale ha rapporti altalenanti ma comunque migliori di quelli che potrebbe avere con Harris, nella sua residenza di Mar-a-Lago. Nel frattempo, al Cairo, sono ripresi i colloqui per un possibile cessate il fuoco. E il risultato delle presidenziali, tornato in bilico, fa sfondo a un conflitto che si prolunga senza una precisa ragione.

Nel frattempo Hamas ha annunciato di aver firmato a Pechino un accordo di “unità nazionale” con altre organizzazioni palestinesi, tra cui il partito rivale Al Fatah. Secondo il governo cinese, l’accordo prevede un’amministrazione congiunta per il dopoguerra.

I rappresentanti di quattordici gruppi palestinesi avevano raggiunto Pechino alcuni giorni fa, su invito del governo cinese, per lavorare a un’intesa. Secondo il capo della diplomazia cinese, l’accordo prevede la creazione di un “governo ad interim di riconciliazione nazionale”.

Secondo l’accordo questa amministrazione di unità nazionale, che metterebbe d’accordo tutte le principali forze politiche palestinesi, amministrerebbe sia la striscia di gaza che la Cisgiordania. Nell’occasione il ministro degli esteri cinese Wang ha anche lanciato un appello per “un cessate il fuoco completo e duraturo nella Striscia di Gaza, in modo da garantire l’accesso agli aiuti umanitari”.

Molti giornali hanno riportato la notizia dell’arresto di Paul Watson, fondatore di Sea Shepherd e in precedenza cofondatore di GreenPeace. Watson è stato arrestato in Groenlandia e ora rischia l’estradizione in Giappone. Ne abbiamo parlato anche noi su ICC con un articolo che mi permetto di definire piuttosto diverso dagli altri. Un articolo molto personale, anche intimo a suo modo, scritto un po’ di getto dal nostro direttore DT. 

Come si può parlare in maniera intima e personale dell’arresto di una persona, vi starete forse chiedendo? Be’ si può, perché Daniel coglie l’occasione per mettere a nudo alcuni aspetti del nostro animo, la pigrizia, l’ignavia, aspetti che appartengono un po’ a tutti noi almeno in qualche momento, ma che è importante non ignorare, ascoltare, conoscere, per capire anche quando è il momento di superarli. Non vi dico altro, trovate l’articolo sotto fonti e articoli.

Allora prima di salutarvi alcune cose importanti. Come ormai saprete in queste settimane estive INMR esce in maniera un po’ più frammentata, al ritmo di 2-3 puntate a settimana. Però: domani esce INMR sardegna e sabato, per abbonati/e, esce INMR+, a tema aborigeni australiani.

Noi ci rivediamo la prossima settimana.

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