6 Lug 2023

Perché Israele attacca Jenin? – #760

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
Salva nei preferiti

Seguici su:

Sembra terminata, almeno per adesso, l’offensiva israeliana nel campo profughi palestinese di Jenin, il più grande attacco militare israeliano da anni. Ma quali cicatrici e quali conseguenze lascia? Parliamo anche di aree marine protette, che non sono così tanto protette e che andrebbero protette per davvero e dello strano rapporto, molto simbolico, dell’Arabia Saudita con il calcio.

Nella giornata di ieri il governo di Israele ha ritirato le sue forze militari dalla città palestinese di Jenin, mettendo fine a una delle sue più grandi operazioni militari nella Cisgiordania occupata da parecchi anni. Un attacco militare tremendo, su una popolazione perlopiù indifesa e civile. 

Comunque, come al solito partiamo dai fatti. L’inviato a jenin del Guardia Bethan McKernan  racconta la difficile alba dei residenti del campo profughi di Jenin, che hanno raccolto i cocci lasciati dall’attacco da terra e da cielo israeliano: “All’alba, i residenti del campo profughi di Jenin, sconvolti dalle granate, hanno iniziato il lungo e duro lavoro di pulizia e riparazione delle loro case, facendosi strada tra le macerie e i terrapieni improvvisati”.

I bulldozer hanno cercato di sgomberare le auto bruciate, mentre i cherry-pickers (che sono dei mezzi di cui non conosco la traduzione in italiano, che hanno un braccio meccanico con in cima una piattaforma recintata dove sta una persona) hanno sollevato i tecnici fino ai tralicci per cercare di ripristinare la rete elettrica.

Gli ultimi resti fumanti di pneumatici e cassonetti in fiamme sono stati spenti con tubi di gomma.

Uomini mascherati, armati con M-16 e bandiere di diverse fazioni hanno trasportato un corpo su una barella mentre i combattenti iniziavano a riunirsi per i funerali del pomeriggio. Si sentivano canti, tra cui: “Quanto è fortunata la madre del martire, vorrei che fosse mia madre e non la tua”, e: “Stai tranquillo martire, continueremo la tua lotta”.

Queste immagini molto suggestive, dipinte dalla penna del giornalista, fanno da cornice a un bilancio di Dodici palestinesi uccisi, di cui almeno cinque combattenti, gli altri probabilmente civili, e un soldato israeliano ucciso.

Altre decine di persone, di cui molti civili, sarebbero invece state ferite nel corso del raid. 

L’obiettivo dichiarato del governo israeliano era di distruggere infrastrutture militari e depositi di armi. Il campo profughi di Jenin infatti – un piccolo spazio dove 14.000 palestinesi vivono in meno di mezzo chilometro quadrato – è considerato uno dei luoghi dove la resistenza palestinese organizza i propri attaccho contro Israele, che sta occupando quei territori in maniera illegale, in violazione degli accordi del 1967, e dove prosegue il processo di costruzione di colonie. 

Tuttavia, quando c’è una guerra, un’aggressione, sappiamo bene che un conto sono gli obiettivi dichiarati, un conto è quello che succede nella pratica. E se da un lato le forze israeliane hanno scoperto nascondigli di esplosivi sotterranei, confiscato 1.000 armi e arrestato 30 sospetti, dall’altro sono stati riportati molti casi di fuoco aperto su civili indifesi. 

Ad esempio il ministro della Sanità palestinese, Mai al-Kaila, ha accusato l’esercito di aver sparato contro i palestinesi in un cortile dell’ospedale pubblico di Jenin. Anche l’associazione Medici Senza Frontiere ha condannato le forze israeliane per aver sparato gas lacrimogeni all’interno dell’ospedale Khalil Suleiman di Jenin.

Dal canto suo invece, il governo israeliano, nella figura del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha giurato di “sradicare il terrorismo”. Durante una visita a una base militare nei pressi di Jenin, ha detto che “In questo momento stiamo portando a termine la missione e posso dire che la nostra vasta attività a Jenin non è un’operazione isolata”, lasciando presagire che seguiranno altre operazioni simili.

Com’è la situazione adesso? Nel campo di Jenin diciamo che si sta normalizzando. le circa 3000 persone che erano state evacuate stanno lentamente rientrando e si lavora per riattivare le forniture di energia elettrica e acqua che erano state interrotte dai danni dei bombardamenti.

Tutto ciò però ha portato a un’ulteriore escalation. Martedì ci sono stati un attacco con auto e accoltellamento, rivendicato dal gruppo militante palestinese Hamas, nel centro commerciale israeliano di Tel Aviv, in cui otto persone sono rimaste ferite.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha dichiarato che si riunirà a porte chiuse per discutere la situazione, come richiesto dagli Emirati Arabi Uniti. Arabia Saudita e Bahrein hanno condannato l’operazione. Gli Stati Uniti hanno detto che il loro alleato Israele ha il diritto di “difendere il suo popolo contro… i gruppi terroristici”, ma hanno chiesto di proteggere i civili.

Venendo al commento, e mettendo le mani avanti sul fatto che non ho nessuna prova, ma nemmeno un indizio a corroborare quello che dirò, però questo mi sembra uno di quei pochi casi, di cui parlavamo giorni fa, in cui è plausibile – non dico probabile, ma plausibile – ipotizzare che questa improvvisa escalation di violenza da parte di Israele nei territori occupati sia un’operazione di distrazione. Vi ricordo che queste settimane saranno cruciali per approvare la riforma della giustizia tanto voluta dal governo di estrema destra che guida il paese, riforma che accentra notevolmente il potere nelle mani dell’esecutivo e che è stata aspramente contestata dalla popolazione israeliana, che ha dato vita a manifestazioni oceaniche come non se ne vedevano da decenni.

La riforma è stata congelata ma adesso verrà ripresentata con alcune modifiche, che però non ne cambiano la sostanza. Devo dire che un po’ il sospetto mi viene che una grossa operazione militare adesso “contro il terrorismo”, possa tenere occupata l’opinione pubblica e anche in una certa maniera compattarla contro un nemico esterno. Anche perché, lo abbiamo già visto, operazioni del genere portano a un’escalation e a ritorsioni da parte di organizzazioni tipo Hamas, che in questo momento potrebbero paradossalmente far molto comodo al governo israeliano. 

È una spiegazione, ripeto, plausibile ma prendetela davvero con tutte le cautele del caso. Diciamo che è possibile che un pezzetto di motivazione risieda anche qui.

Mentre il Parlamento europeo si prepara a un voto cruciale sulla Legge per il Ripristino della Natura, che include un emendamento cruciale che chiede di istituire aree marine veramente protette, il tema della aree marine protette è fonte di dibattito e di interesse di studi e ricerche.

In particolare è uscito un articolo scientifico su Marine Conservation and Sustainability che evidenzia un problema cruciale delle aree marine protette per come le abbiamo realizzate finora: che non sono poi così tanto protette.

Leggo dall’articolo scientifico: “Le aree marine protette (AMP) sono fondamentali per arrestare la perdita di biodiversità marina e salvaguardare gli ecosistemi. Tuttavia, gli sforzi per designare ulteriori AMP hanno generalmente avuto la precedenza sul garantire che i siti designati siano effettivamente protetti. Esistono serie preoccupazioni riguardo ai “parchi marini di carta” in Europa, soprattutto in relazione alla minaccia della pesca. 

Ci siamo concentrati su 1.945 AMP nelle acque dell’UE e del Regno Unito, designate per proteggere gli habitat, e abbiamo valutato l’entità della pesca al loro interno con attrezzi che notoriamente minacciano direttamente gli stessi habitat. Tale pesca “ad alto rischio” era diffusa, in 510 AMP che rappresentavano l’86% dell’area valutata, ed era più diffusa nei siti più grandi e al largo. Una pesca più intensa e ad alto rischio all’interno delle AMP per scogliere e banchi di sabbia è stata associata a uno stato di conservazione peggiore di questi habitat nelle acque dei Paesi. I nostri risultati indicano che senza restrizioni sistematiche sugli attrezzi da pesca dannosi, è improbabile che le AMP contribuiscano a invertire il declino in corso degli habitat marini europei”.

Lo studio è molto più lungo e dettagliato, ma secondo me centra un punto fondamentale, che la legge europea sulla conservazione della Natura vorrebbe aggiustare, ovvero il fatto che abbiamo come tendenza, questo penso proprio come specie, di accontentarci di decidere le cose, senza verificare che poi funzionino davvero. Il fatto di trovare un accordo e prendere una decisione che ci sembra abbia risolto un problema causa una scarica di endorfine che ci appagano al punto che poi, se il problema lo stiamo risolvendo davvero o meno, diventa secondario.  

Ma dobbiamo essere bravi a verificare che le cose che mettiamo in atto poi risolvano davvero i problemi, e non siano appunto solo delle soluzioni sulla carta. Che sennò nel frattempo diventano sempre più gravi.

La cosa positiva è che adesso sembra esserci una densità culturale tale su almeno alcune tematiche ambientali, tipo la protezione del mare, che anche prendere decisioni più drastiche dovrebbe essere relativamente facile, almeno a livello di opinione pubblica. 

E lo dico non a caso: qualche giorno fa l’associaizone per la salvaguardia degli oceani BLOOM ha pubblicato i risultati di un sondaggio esclusivo IPSOS, a cui hanno partecipato 2.500  cittadini europei che rivela un chiaro sostegno pubblico per una vera protezione delle aree marine.

Ad esempio, il divieto di metodi di pesca distruttivi nelle aree protette è ampiamente sostenuto dai cittadini europei! Il problema qui è che la maggioranza degli intervistati è convinta, a torto, che tali misure di buon senso siano già state attuate. Come leggo nel comunicato stampa che presenta l’indagine, “il fatto che una così ampia frazione dei cittadini europei intervistati ritenga che la pesca industriale sia già vietata nelle AMP é un’illustrazione lampante della disinformazione riguardante le aree marine “protette”.

Adesso spetta ai rappresentanti europei assumersi la responsabilità di rispondere alle raccomandazioni scientifiche e alle aspirazioni dei loro concittadini di adottare le misure cruciali necessarie per rispondere all’attuale collasso del clima e della biodiversità.

In chiusura parliamo di calcio. Vi segnalo e vi leggo un pezzetto di un articolo di Francesco Battistini sul Corriere della Sera che racconta che cosa sta diventando il calcio per l’Arabia Saudita, fra sfarzi assurdi e investimenti miliardari. Mi sembra una cosa interessante perché ci da uno spaccato su un mondo abbastanza distante, ma dove si giocano partite sempre più globali. Non è un caso che, pur fra mille polemiche, la Cop 28, si terrà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. 

Leggo: “In business class, c’è un trono d’oro. Al piano superiore, le camere da letto king size. E le tovaglie di seta coi fiori, le poltrone relax, i tavoli da gioco, l’area massaggi, le sale riunioni. Che sfarzo: «Non avete visto ancora nulla… » spiega un reporter dell’Arab Times, che ci ha già viaggiato e si stupisce del nostro stupore. «Quel video twittato da Ogdon Ighalo, mentre con l’Al Hilal va in trasferta sul Boeing privato, mostra una cosa normale nel calcio saudita. Ighalo sembra un bimbo al luna park! Invece è solo all’ingresso, del luna park… ». L’attaccante nigeriano, che una volta si muoveva coi pullman del Cesena, ha postato le immagini dalla reggia volante. Incantandosi, incantandoci. Ma è ora che s’abitui: il Boeing 747-400 dell’Al Hilal, riedizione dell’Air Force One dei presidenti Usa, vale lo stipendio annuo d’un paio dei suoi compagni di squadra. 

Ed è un benefit piccin piccino. I calciatori in Arabia (CR7 docet) hanno a disposizione ben altro: campi da golf climatizzati, chef stellati, piscine olimpioniche, scuole internazionali, negozi privati, spa con le rubinetterie d’oro… Persino la loro servitù filippina può contare su ingressi riservati nei supermarket. «Oggi Riad — dice il giornalista — è il posto migliore per giocare e godersela».

“Ma perché tutto questo investire? E perché adesso?” si chiede più avanti il giornalista. “Non credete che l’ascesa del Qatar — l’emiro Al Thani al Psg, ma pure gli Emirati Uniti con Bin Zayed al Manchester City, o il Bahrein che sogna sempre di comprarsi una milanese — non credete che tanti petrogol spaventino solo noi europei. I primi a preoccuparsi sono gli altri paperoni del Golfo. Per esempio, i sauditi. Che sanno quanta egemonia nazionalpopolare, softpower si dice ora, passi per la diplomazia pallonara. Che non disdegnano lo sportswashing, il lavarsi le mani sporche, garantito dalla popolarità curvaiola (cosa c’è di meglio per propalare il «rinascimento saudita» di Mohammed Bin Salman e far dimenticare la repressione di donne e Lgbtq, le carneficine nello Yemen, la schiavitù dei migranti, la galera ai dissidenti, l’omicidio Khashoggi?). 

«L’arrivo dei sauditi è la grande novità — confida un manager sportivo che li conosce da sempre —. Ma è miope pensare che entrino nel calcio per rifarsi una verginità: sanno d’essere quel che sono e non gl’importa convincerci del contrario. Sanno d’avere molte donne nei posti di comando e che la loro sarà una lenta evoluzione. Hanno anche una visione della religione molto più pragmatica di quel che crediamo: non è un ostacolo, se si tratta di fare affari ovunque e con chiunque. A loro non interessa piacere agli europei. Sanno che occorre tempo. Loro, al momento, si rivolgono soprattutto a un certo mondo arabo».

Il mantra saudita è uno solo: fare come il Qatar, meglio del Qatar. E siccome il pallone è la continuazione della politica con altri mezzi, ecco che l’eterna sfida del Golfo fra due Paesi sunniti che hanno impiegato più di vent’anni a riconoscersi nei confini, e da altrettanti sognano di monopolizzare l’etere arabofono (Al Jazira contro Al Arabiya), ora è una sfida sportiva. A Doha e a Riad, da sempre pensano il peggio gli uni degli altri: con questi che proteggevano Bin Laden e però accusavano quelli di finanziare l’Isis; con quelli che contendevano a questi le basi Usa e il gas sottomarino; con questi che imponevano l’embargo a quei «terroristi» troppo amici del turco Erdogan, e quelli che temevano le incursioni saudite in Libia, a sostegno del generale Haftar… Due anni e mezzo fa, su pressione d’americani e israeliani, per la paura della minaccia sciita dall’Iran, qatarioti e sauditi hanno finto di chiudere le loro ostilità politiche. 

Aprendo però quelle sportive: Riad non ha ancora digerito che Doha le abbia scippato (in casa) la Coppa d’Asia 2019; Doha accusa Riad di piratarle le immagini d’un canale tv sportivo; Riad copia a Doha il progetto Vision che ha portato i Mondiali in Qatar; Doha irride Riad che s’è candidata ai Mondiali 2030 e poi s’è ritirata per non fare uno sgarbo al re del Marocco… Lo shopping di quest’estate è solo la continuazione dell’infinita sfida con altri mezzi: «A Riad però non ragionano come negli altri Paesi del Golfo — dice il manager —. E non vogliono fallire, come i cinesi col loro campionato. I grandi consulenti finanziari, Boston Group come McKinsey, sono tutti qui. Fra cinque anni, sarà normale venire in vacanza in Arabia. E guardare le loro partite stellari. Hanno una strategia di lungo periodo». Un tempo erano i nomadi del deserto, ora non più: «Sono arrivati per restare».

Mappa

Newsletter

Visione2040

Mi piace


Ucraina, ipotesi pace. Si lavora a un cessate il fuoco? – #961

|

Banca Etica è la prima banca italiana a stipulare un accordo con la BEI per sostenere donne, rifugiati e sviluppo nel Mezzogiorno

|

L’agroecologia come strumento per il cambiamento, a favore di pratiche agricole socialmente eque

|

Emergenza siccità, qual è la situazione in Sicilia?

|

Garden sharing: alle radici del fenomeno che può rivoluzionare il turismo in Italia

|

Cosa significa abitare ecologico

|

L’Italia in rete per l’ambiente: Rosa Fortunato ci racconta la battaglia per la tutela di boschi e foreste

|

Diritti umani e ambientali: dal Festival Life After Oil cinque preziose pellicole a tema da vedere

string(9) "nazionale"