8 Ott 2024

Per salvare le popolazioni indigene dobbiamo uscire dall’era dei combustibili fossili – #997

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Sappiamo bene e da anni che l’utilizzo dei cosiddetti combustibili fossili è inconciliabile con la salute del clima degli ecosistemi e anche con la sopravvivenza di molte popolazioni indigene. Oggi vediamo due notizie in cui questo aspetto emerge molto chiaramente. Ci occupiamo poi di autoproduzione energetica nelle piccole isole, con una sperimentazione molto interessante, del report sulla salute dei fiumi e della crescita del mercato dei formaggi vegetali. Notizie che forse vi sembreranno distanti fra loro ma che, come scoprirete, sono tutte molto interconnesse.

Ci sono tanti motivi per cui sarebbe una buona idea smettere di utilizzare i combustibili fossili come fonte di energia. Il motivo principale, che tutti citiamo e conosciamo, è ovviamente che bruciandoli fanno finire un sacco di Carbonio in atmosfera, causando il riscaldamento climatico. Ma spesso i danni cominciano prima che vengano bruciati, fin dalle devastazioni per estrarli alle tante e frequenti perdite che distruggono interi habitat. E tutto ciò spesso a discapito delle popolazioni che hanno meno capacità di far sentire le loro voci. In particolare, gli indigeni.

Ci sono due notizie di questi giorni che mostrano come questo pattern continui a ripetersi. La prima riguarda una perdita di petrolio su un fiume, in Perù, sta facendo parecchi danni all’ecosistema fluviale e sta lasciando senz’acqua interi villaggi di popolazioni indigene.

Leggo da un articolo di Germana Carillo su GreenMe: “Solo pochi giorni fa, sul fiume Pastaza, a Iquitos, in Perù al confine con l’Ecuador, sono stati dapprima i cittadini delle comunità indigene circostanti a riferire che il bacino stava subendo una fuoriuscita di petrolio di origine incerta.

A confermalo è stata poi la stessa compagnia statale, la Petroperú, che conferma una rottura nell’oleodotto peruviano settentrionale (ONP), precisamente al chilometro 11 del ramo settentrionale, nel distretto di Pastaza, provincia di Datem del Marañón, nella regione di Loreto.

Secondo la compagnia petrolifera “La rapida attivazione del piano di emergenza ha permesso di chiudere le valvole e installare barriere di contenimento, evitando che il greggio si espandesse”. Ma, secondo l’ong Amazon Frontlines, la fuoriuscita ha colpito tre comunità indigene Andwa che hanno visto compromesso il loro accesso all’acqua e al cibo. Parliamo di centinaia e centinaia di persone la cui sopravvivenza, il cui approvvigionamento di cibo e di acqua dipende da questo fiume.

L’articolo da anche una serie di numeri sulla frequenza di fenomeni come questo, che sarebbero secondo uno studio quasi 500 fra il 2021 e il 2023, 500 emergenze in 3 anni solo in Perù, legate agli sversamenti di petrolio. Uno sversamento ogni due giorni, in pratica.

Una delle principali cause è la corrosione degli oleodotti e i guasti operativi, che causano il 73% di questi incidenti, per via di infrastrutture vecchie e operazioni poco coordinate. 

L’altra notizia di cui vi parlavo proviene da un altro continente, dall’Australia, dove una miniera di carbone rischia di distruggere un sito sacro alle comunità indigene della zona. Ne parla Helena Horton sul Guardian.

Siamo a pochi chilometri da Sidney, nella miniera di carbone di Dendrobium, e qui un’ispezione di routine della miniera ha rilevato fratture e cadute di rocce sotto un luogo dove sono presenti opere d’arte di rilevante valore culturale appartenenti agli aborigeni australiani.

Le autorità attribuiscono le crepe al cedimento del terreno, causato dal collasso di suolo e rocce nelle cavità lasciate vuote dall’estrazione mineraria.

Come racconta al Guardian Paul Knight, ex direttore dell’Illawarra Local Aboriginal Land Council, un consiglio degli aborigeni locale, si tratta di danni di entità importante, che aprono una ulteriore ferita nella cultura aborigena che potrebbero rovinare i “songlines”, o “vie dei canti”, ovvero dei percorsi geografici ma anche spirituali tipici della cultura aborigena che vengono tramandati attraverso canti, storie e danze e hanno a che fare col mito della creazione. 

A proposito, se siete affascinati dalla cultura e dalla storia degli aborigeni australiani andatevi a recuperare la puntata di INMR+ dedicata a questo argomento.

Inoltre, oltre ai danni culturali, sembra realistico che i cedimenti del terreno abbiano influenzato anche le falde acquifere, disperdendo parte dell’acqua che confluiva nei fiumi locali.

Comunque, anche qui è un pattern che si ripete. Come spiega sempre Knight i danni causati dall’estrazione del carbone rappresentano solo l’ultimo caso di danni culturali e ambientali nella regione del Woronora Plateau. 

Il precedente più famoso, ma non l’unico, è quello avvenuto nella Juukan Gorge, un sito sacro per gli aborigeni australiani, distrutto nel 2020 dalla compagnia mineraria Rio Tinto che ospitava caverne con reperti archeologici e culturali risalenti a più di 46.000 anni, testimonianza inestimabile della storia e della cultura indigena, andati perduti.

Insomma, come spesso accade, se vogliamo cogliere l’immagine più ampia, c’è una correlazione fra attività estrattiva, industria dei combustibili fossili e devastazione di ambienti e culture native. Perché quando si danneggia un habitat lo si danneggia in tutte le sue sfaCcettature, comprese quelle degli umani che quell’habitat lo popolano da millenni. 

Notizie come questa ci danno la cifra di quanto sia importante e urgente abbandonare lo sfruttamento delle fonti fossili. Chiedere ai nostro governi di farlo, alle aziende, e chiederlo anche a noi stessi, nelle nostre abitudini quotidiane, nelle nostre abitazioni, nei modi che scegliamo per spostarci. 

Certo, dobbiamo essere anche consapevoli che la transizione energetica non è esente da rischi e speculazioni. È qualcosa di importante, urgente e necessario, ma anche estremamente delicato e contraddittorio. E in cui è comunque importante fare dei distinguo e delle valutazioni caso per caso, nonostante l’urgenza, nonostante l’importanza. Vi segnalo ad esempio una pubblicazione di INDIP, la testata di giornalismo investigativo sardo nostra partner su SCC, che prova a fare il punto sulla situazione energetica in Sardegna.

Un tema delicatissimo, ma che è importante affrontare. Trovate intanto un articolo che racconta e spiega questa pubblicazione sotto fonti e articoli, ne riparliamo presto.

A proposito di isole, è uscito un primo report su un interessante esperimento di ENEA, l’agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, nelle isole minori. Leggo dall’articolo di Ansa che ne parla: “Vivere in un ecosistema fragile come quello insulare comporta anche la responsabilità di tutelare l’ambiente circostante. Per questo motivo, molte isole stanno cercando di implementare soluzioni sostenibili che migliorino l’efficienza energetica e riducano l’inquinamento, senza compromettere il benessere della comunità”.

Per le isole minori italiane, queste sfide sono ancora più accentuate. In particolare, la produzione di acqua calda sanitaria rappresenta una porzione significativa del consumo energetico. Su isole come Lampedusa, ENEA ha avviato un progetto sperimentale per ridurre questi costi, tutelando sia l’ambiente che l’economia locale.

Il progetto, si concentra sull’implementazione di un impianto ibrido, combinando fotovoltaico e pompe di calore per garantire la massima autosufficienza energetica. La sperimentazione vuole anche capire quale è il miglior mix di accumulo elettrico e termico, ottimizzando così la produzione e il consumo.

E i primi risultati a Lampedusa sono promettenti. L’installazione di un sistema composto da pannelli fotovoltaici, un inverter ibrido e una pompa di calore con accumulo ha permesso di raggiungere un autoconsumo del 63%, un dato significativo per ridurre la dipendenza dalla rete elettrica.

Come sottolinea l’articolo è una soluzione sostenibile, a basso impatto ambientale e soprattutto replicabile anche in molti altri contesti. Ovviamente qui parliamo di autoconsumo per le abitazioni, in particolare per l’acqua calda, parliamo di contesti dove non c’è bisogno di apporti enormi di energia perché non esistono industrie energivore, non esistono grosse infrastrutture e così via. È un sistema pensato per queste scale piccole, ma comunque davvero interessantissimo.

Abbiamo parlato dei fiumi, in apertura, e del rischio dell’inquinamento legato al petrolio. Un rischi che non dovremmo mai correre, ma che diventa davvero insostenibile vista la situazione attuale dei fiumi. Questa è una parte della rassegna odierna un po’ angosciante, ve lo premetto, perché parliamo di un nuovo report dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale che ci da delle notizie non buone. Niente che non potessimo immaginare eh, però sentirle fa sempre un certo effetto. Quindi vale il consiglio di sempre. Se non siete nel mood, saltate alla notizia successiva.

Siamo ancora sul Guardian, stavolta la firma è di Helena Horton che racconta di come nel 2023 i fiumi si sono prosciugati al tasso più alto almeno degli ultimi tre decenni, mettendo a rischio l’approvvigionamento idrico globale.

Il report si chiama “Stato delle Risorse Idriche Globali” e spiega che negli ultimi cinque anni, i livelli dei fiumi sono stati inferiori alla media in tutto il mondo e anche i bacini idrici si sono mantenuti a livelli bassi. Nel 2023 in particolare, oltre il 50% delle aree fluviali analizzate ha mostrato condizioni anomale di siccità, compresi i grandi fiumi come il Rio degli Amazzoni e il Mississippi. Dall’altra parte del globo, in Asia e Oceania, i grandi bacini dei fiumi Gange, Brahmaputra e Mekong hanno registrato condizioni inferiori alla norma su quasi tutto il loro territorio.

Va detto che secondo l’OMM, queste condizioni estreme sono state influenzate anche dal passaggio da La Niña a El Niño a metà del 2023. Quindi dal sistema di correnti fredde del Pacifico a quelle calde. Tuttavia, gli scienziati affermano che la crisi climatica sta esacerbando gli impatti di questi fenomeni meteorologici, rendendoli più difficili da prevedere.

E anche i ghiacciai hanno sofferto gravemente l’anno scorso, perdendo oltre 600 gigatonnellate d’acqua, la cifra più alta in 50 anni di osservazioni. 

Ovviamente queste condizioni mettono a rischio idrico milioni, anzi miliardi di persone. Attualmente, leggo, 3,6 miliardi di persone affrontano un accesso inadeguato all’acqua per almeno un mese all’anno, e l’agenzia delle Nazioni unite che si occupa di acqua prevede che questo numero aumenterà a più di 5 miliardi entro il 2050.

Ora, direte voi, che ci facciamo con questi dati allarmanti? Ha senso pubblicare report su report o servono solo ad angosciare le persone? Premesso che l’angoscia non è un buon motore di cambiamento, a meno che non venga elaborata correttamente, ma sì, un senso ce l’hanno. 

Monitorare l’andamento dei fenomeni ci aiuta a prevedere il futuro, e prevedere il futuro, se siamo saggi, ci può aiutare a costruire società a basso impatto idrico. Il consumo di acqua sarà un tema sempre più centrale nei prossimi anni e sappiamo ancora troppo poco di questo tema. Quindi report come questo servono da un lato a chi dovrà fare politiche per il risparmio idrico a fare i conti con la realtà, dall’altro a tutte e tutti noi a fare attenzione al consumo di acqua. Non so se ci avete fatto caso ma stiamo pubblicando molti contenuti su questo argomento su ICC e altri ne pubblicheremo nel prossimo futuro. Ve ne lascio qualcuno sotto fonti e articoli.

Ci sono molti modi per consumare meno acqua, alcuni sono molto evidenti, come farsi meno docce o raccogliere l’acqua piovana per innaffiare il giardino o l’orto. Altri meno immediati, tipo quelli legati all’alimentazione. Non so se lo conoscete ma c’è un’indicatore che si chiama improta idrica degli alimenti e ogni alimento ha un suo quantitativo di acqua che viene consumata per produrlo. 

Come al solito in cima alla piramide sta la carne rossa, ma in generale molti alimenti di origine animale stanno in cima alla piramide. Inclusi i formaggi. Vi ho fatto tutto questo pippone per arrivare a dirvi che il settore dei formaggi vegani è in piena espansione. Sono prodotti che oltre a consumare meno acqua calorie per essere prodotti, non si basano sulle sofferenze animali. 

Ma anche qui, come spesso accade, non è che formaggio vegano sia per forza sinonimo di prodotto ecologico e salutare. Ci sono prodotti di ottima qualità, così come prodotti scadenti. Ieri su ICC Salvina Elisa Cutuli ha intervistato Martina Macellari di laboratorio Prodor, un’eccellenza italiana dei formaggi vegetali. Martina Macellari che, in nomen tutt’altro che omen, l’ha guidata alla scoperta di questo mercato in vera e propria esplosione e di prodotti buoni e genuini. 

Che stanno andando incontro ai gusti e direi alle sensibilità di un pubblico sempre maggiore, pur con certe resistenze di una fetta di popolazione e soprattutto di una fetta di politica, soprattutto quella dell’attuale governo in Italia, che sta facendo della tutela delle tradizioni culinarie e del made in Italy un cavallo di battaglia. Che poi, vabbé, spesso è un made in Italy di facciata, perché molti formaggi vengono fatti con latti importati da altri paesi, con procedure molto distanti da quelle tradizionali. Ma tant’è. D’altronde già chiamare le eccellenze italiane made in Italy, con un anglicismo, fa capire che un po’ di confusione nell’aria c’è.

Voi lasciate stare il governo. Se siete curiosi, leggetevi intanto l’articolo.

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