22 Gen 2024

Il Parlamento Ue approva la legge contro il greenwashing – #864

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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L’Unione europea ha approvato un importante regolamento contro il greenwashing e l’obsolescenza programmata, che ci consentirà di fare scelte più consapevoli. Intanto in Ecuador, un tribunale affida una parte dell’Amazzonia alla gestione di una popolazione indigena, per la prima volta nel Paese. Parliamo anche del Cile che ha ratificato per primo il trattato Onu sull’Alto mare, e del Parlamento italiano che invece sta avviando gli iter di due leggi molto preoccupanti, una sulla caccia e l’altra sul commercio di armi. 

Il greenwashing è una delle pratiche che personalmente mi fa più arrabbiare. Consiste nel far passare per ecosostenibili e green pratiche che non lo sono per niente attraverso abili strategie di marketing. Mi fa arrabbiare perché crea confusione. E la confusione è nemica del cambiamento. 

La base della consapevolezza è l’accesso alle corrette informazioni. Per essere libero di scegliere, devo avere le informazioni corrette. Poi posso anche scegliere di fare una cosa “sbagliata”, passatemi il termine. Ma è importante che lo sappia. Il greenwashing rema contro questo schema, perché maschera scelte sbagliate di una facciata giusta, e quindi di fatto inganna le persone.

Comunque, questo per dire che sono stato molto contento quando ho letto che il Parlamento europeo ha dato il via libera definitivo a una direttiva che vuole ridurre questo fenomeno, lavorando sull’etichettatura dei prodotti e vietando l’uso di dichiarazioni ambientali fuorvianti. 

Leggo da un articolo della redazione Green&Blue di Repubblica che “La direttiva approvata con 593 voti favorevoli, 21 contrari e 14 astensioni – quindi praticamente all’unanimità – mira a proteggerci da pratiche di commercializzazione ingannevoli e ad aiutarci a compiere scelte di acquisto più informate. 

A tal fine, saranno aggiunte all’elenco Ue delle pratiche commerciali vietate una serie di strategie di marketing problematiche legate al cosiddetto greenwashing (ambientalismo di facciata) e anche – leggo, altra cosa interessantissima – all’obsolescenza precoce dei beni”. Che sarebbe l’obsolescenza programmata, altra questione annosa, o più che annosa dannosa, ovvero il fatto che le aziende producono beni progettati per durare poco, in modo da poterli continuare a vendere. Che è un’ottima strategia economica, ma una pessima cosa per gli ecosistemi, perché vuol dire continuare a estrarre materie prime e consumare energia per produrre e gettar via oggetti a un ritmo insostenibile.

Leggo ancora: “Le nuove regole mirano a rendere l’etichettatura dei prodotti più chiara e affidabile, vietando l’uso di indicazioni ambientali generiche come “rispettoso dell’ambiente”, “rispettoso degli animali”, “verde”, “naturale”, “biodegradabile”, “a impatto climatico zero” o “eco” se non supportate da prove. Sarà ora regolamentato anche l’uso dei marchi di sostenibilità, data la confusione causata dalla loro proliferazione e dal mancato utilizzo di dati comparativi.

In futuro nell’Ue saranno autorizzati solo marchi di sostenibilità basati su sistemi di certificazione approvati o creati da autorità pubbliche. Inoltre, la direttiva vieterà le dichiarazioni che suggeriscono un impatto sull’ambiente neutro, ridotto o positivo in virtù della partecipazione a sistemi di compensazione delle emissioni (offset, in inglese).

Un altro importante obiettivo della nuova legge è far sì che produttori e consumatori siano più attenti alla durata dei prodotti. Secondo le nuove norme, le informazioni sulla garanzia dovranno essere più visibili e verrà creato un nuovo marchio armonizzato per dare maggiore risalto ai prodotti con un periodo di garanzia più esteso. Vietate anche le indicazioni infondate sulla durata (ad esempio, dichiarare che una lavatrice durerà per 5.000 cicli di lavaggio, se ciò non è esatto in condizioni normali), gli inviti a sostituire i beni di consumo prima del necessario (spesso accade, ad esempio, con l’inchiostro delle stampanti) e le false dichiarazioni sulla riparabilità di un prodotto. La direttiva deve ora ricevere l’approvazione definitiva del Consiglio per essere poi pubblicata nella Gazzetta ufficiale. Gli Stati membri avranno 24 mesi di tempo per adeguarsi alle nuove regole.

Per il filone, popolazioni indigene che riconquistano diritti e territori, arriva una bella notizia dal cuore dell’Amazzonia ecuadoriana, dove grazie alla sentenza di un tribunale la comunità dei Siekopai ha riottenuto il possesso delle sue terre ancestrali dopo ben 80 anni di espropriazione. 

Leggo da GreenMe, articolo a firma di Rosita Cipolla, che “la comunità indigena Siekopai è in festa per una sentenza storica emessa dal tribunale provinciale di Sucumbíos, in Ecuador, che ordina al ministero dell’Ambiente del Paese sudamericano di restituire loro un’area nota col nome Pë’këya ed estesa circa 42.360 ettari, nella foresta pluviale ecuadoriana.

L’articolo riporta poi anche una dichiarazione di Justino Piaguaje, leader dei Siekopai che dice: “Noi Siekopai apparteniamo da sempre a questo territorio. Tuttavia, ci sono voluti decenni di lotta per cercare di convincere lo Stato ecuadoriano a riconoscere questo territorio sacro come nostro. I nostri anziani e i nostri giovani sono così felici di tornare finalmente a casa nostra. Sebbene i colonizzatori abbiano tentato di sradicarci da questo territorio, hanno fallito”.

Fra l’altro noto un piccolo dettaglio molto molto significativo.  “Noi Siekopai apparteniamo da sempre a questo territorio”. Capite? Il leader intervistato non dice, come invece afferma la giornalista in precedenza, e come siamo portati a pensare noi occidentali, “questo territorio ci appartiene”, dice “noi apparteniamo a questo territorio”. In questa apparentemente sottile differenza semantica sta il motivo, credo, per cui i migliori custodi della biodiversità sono le popolazioni indigene. Perché hanno capito che siamo noi esseri umani a dipendere dagli ecosistemi, e non viceversa.

Comunque, tornando alla notizia, scrive ancora la giornalista che “Si tratta di una (ri)conquista che non ha precedenti in Ecuador: è, infatti, la prima volta che il Governo ecuadoriano concede a una comunità indigena la proprietà di un territorio ancestrale che rientra in un’area protetta a livello nazionale. Questa decisione accende la speranza  per altre tribù che da decenni lottano per tornare a vivere nelle terre che sono state loro sottratte.

Salto alla fine dove si spiega il prezioso lavoro che questa popolazione fa per difendere le sue terre ancestrali: “Per i Siekopai le foreste sono parte integrante della cultura e della storia e da sempre si sono impegnati per proteggerle. Negli ultimi anni si sono avvalsi anche di trappole fotografiche e droni per monitorare le temute attività estrattive portate avanti in questi luoghi incontaminati e proteggere questi ultimi dall’inquinamento”.

Peraltro, “L’area in questione, al confine col Perù e conosciuta anche col nome di Lagarto Cocha, è uno scrigno di biodiversità, dove vivono specie minacciate come il delfino rosa del Rio delle Amazzoni (Inia geoffrensis) e la lontra gigante. Questa porzione di foresta ospita anche specie vegetali che rischiano di sparire, come la splendida Pau-rosa (che sarebbe un enorme albero che quando è fiorito è completamente rosa), sfruttata per il suo prezioso olio essenziale e il suo legno”.

Insomma, ogni volta che leggo una notizia come questa, sono felice non solo per la popolazione in questione, ma un po’ per tutto il genere umano, che ha il massimo interesse affinché questi particolari equilibri ecosistemici siano preservati, cosa che accade molto più probabilmente sotto la guida delle culture native che di quelle che chiamiamo “civilizzate”.

Restando il Sud America, ma spostandoci sul Fatto Quotidiano, apprendo che “Il Cile è ufficialmente il primo Paese al mondo ad aderire al Trattato globale sull’oceano, storico accordo ambientale dell’Onu raggiunto il 4 marzo 2023”. 

Se vi ricordate, ne abbiamo parlato anche qui, stiamo parlando di un trattato che serve a proteggere l’alto mare, ovvero le acque extraterritoriali a oltre 200 miglia nautiche dalla costa dove non vigono norme e leggi nazionali e prevede la protezione di un terzo dei mari entro il 2030, in linea con l’accordo Onu sulla biodiversità (con la differenza che quell’accordo è non vincolante, questo in teoria sì). 

Come ricostruisce il Fatto Quotidiano, “Conosciuto anche come Trattato sull’alto mare o Trattato sull’oceano globale, i negoziati, iniziati a New York il 20 febbraio 2023 si erano inizialmente incagliati sul tema della condivisione delle risorse genetiche marine, sugli eventuali profitti generati dalla loro commercializzazione e sulla procedura per la creazione di zone marine protette. L’Unione europea aveva però messo sul tavolo 40 milioni di dollari per facilitare la ratifica e l’attuazione iniziale dell’accordo. Accordo raggiunto infine nel marzo 2023 e approvato dall’Onu. 

Altro aspetto interessante, l’intesa di marzo è stata raggiunta grazia a un’inedita coalizione fra Ue, Usa, Gb e Cina. Il Trattato è considerato un grande passo avanti nella governance globale degli oceani e integra la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982.

Si tratta di un trattato molto importante perché il cosiddetto “Alto Mare è l’ecosistema che rappresenta il 95% della biosfera terrestre e che produce metà dell’ossigeno che respiriamo. 

La firma di questo trattato da parte del Cile è un primo passo verso la sua entrata in vigore, quindi è un passaggio importante. Affinché il trattato entri in vigore serve che aderiscano almeno 60 Paesi, un obiettivo che potrebbe essere raggiunto prima della Conferenza sugli oceani delle Nazioni Unite che si terrà in Francia nel giugno 2025”.  Anche qui, interessante notare è che in Cile il trattato è stato approvato all’unanimità dal Parlamento. Bene.

Per le ultime due notizie cambiamo registro e rispolveriamo ahimé la rubrica “Il governo odia il pianeta”. La prima riguarda la caccia selvaggia, che torna a fare capolino in Parlamento. Leggo su GreenReport che “Dopo il ddl sulla caccia selvaggia che Fratelli d’Italia ha ritirato in tutta fretta a fine dicembre, dopo la mobilitazione ambientalista e animalista contro il provvedimento, stavolta è un altro partito di governo, la Lega, a riprovarci.

Il riferimento è alla cosiddetta proposta di legge Bruzzone, dal nome del deputato leghista che l’ha presentata, che secondo una rete di associazioni ambientaliste fra cui Enpa, Lac, Lav, Leidaa, Lipu, Oipa, Federazione nazionale Pro natura e Wwf Italia metterebbe in pericolo la tutela della biodiversità.

Qualche esempio: si prevede che il calendario venatorio venga emanato per legge, impedendo ai cittadini di poter ricorrere; si elimina qualsiasi riferimento al limite della stagione venatoria, così da autorizzare la caccia anche nel delicato mese di febbraio; si depenalizzano i reati legati alla caccia, ad esempio lasciando la licenza di caccia a chi è condannato per reati di bracconaggio in periodo di stagione chiusa.

A questo si aggiunge «una serie di concessioni al mondo venatorio», più tecniche ma dal forte impatto, come la rimozione del limite di tre giornate cacciabili settimanali e dei giorni di silenzio venatorio, l’eliminazione dell’obbligo della scelta di forme di caccia, l’eliminazione della sospensiva della licenza di caccia per chi la esercita in periodo di divieto, fino all’allargamento delle maglie per la detenzione e l’allevamento di richiami vivi.

Dulcis in fundo – leggo – “la previsione del calendario venatorio quinquennale per legge, già ripetutamente censurato dall’Ue e dai tribunali, e la creazione degli istituti regionali per la fauna selvatica, che «sostituirebbero Ispra in quella che, di fatto, rappresenta un’anticipazione dell’autonomia differenziata ambientale e, in particolare, una regionalizzazione degli uccelli migratori”. Un assurdo logico, scientifico e gestionale, commentano le associazioni. 

Tutto ciò avviene, fra l’altro, con il nostro paese che In tema di caccia è già da tempo un osservato speciale della Commissione europea, che sarebbe «in procinto di attivare una o più procedure di infrazione dopo varie inchieste condotte.

Su Valori invece leggo un interessante e preoccupante articolo / appello a firma della Rete Pace Disarmo, che annuncia una forte mobilitazione per impedire che venga approvata una nuova legge che circonderebbe l’export di armi del nostro paese di una pericolosa opacità.

Leggo: “L’industria delle armi incassa un primo – grave e pericoloso – voto favorevole agli “affari armati” nell’iter del Disegno di legge presentato dal governo per la modifica della legge 185/90 sull’export militare predisposte dal governo.

La Commissione Affari esteri e difesa del Senato ha infatti approvato nella seduta di martedì 16 gennaio 2024 tre emendamenti che inficiano gravemente la trasparenza della Relazione annuale al Parlamento sulle esportazioni dall’Italia di materiali militari. 

E che si innestano su un testo che presenta già aspetti problematici perché modifica i meccanismi di rilascio delle autorizzazioni affidando il cuore delle decisioni all’ambito politico senza un adeguato passaggio tecnico che garantisca il rispetto dei criteri della legge italiana e delle norme internazionali sulla materia.

Se le modifiche votate in questa prima fase di dibattito parlamentare sul DDL 855 sopravviveranno ai successivi passaggi dell’iter, verranno sottratte al controllo di Parlamento, società civile e opinione pubblica le informazioni precise e dettagliate – oggi presenti nella Relazione annuale ufficiale – sulle esportazioni dei materiali militari autorizzate e svolte dalle aziende”. 

In particolare, “uno di questi 3 emendamenti prevede di eliminare ogni informazione riguardo agli istituti di credito attivi nel settore dell’import/export di armamenti. I correntisti non sapranno più dalla Relazione quali sono le banche, nazionali ed estere, che traggono profitti dal commercio di armi verso l’estero, in particolare verso Paesi autoritari o coinvolti in conflitti armati”.

Insomma, secondo quanto sostenuto dalla Rete pace e disarmo, le modifiche sarebbero volte a rendere più facile per il nostro paese esportare armi all’estero senza farlo sapere all’opinione pubblica, che quindi avrebbe – tornando al discorso del greenwashing – meno informazioni per fare scelte consapevoli (ad esempio su dove mettere i propri soldi).

L’articolo ricorda anche che diversi “sistemi d’arma italiani sono stati e sono tuttora inviati in decine di situazioni di conflitto, di violazione di diritti umani, di presenza di regimi autoritari come invece sarebbe espressamente vietato dalle norme in vigore”.

Alla fine, la Rete annuncia una mobilitazione, scrivendo: «Come eredi della grande mobilitazione della società civile che aveva portato all’approvazione di questa norma non permetteremo che i profitti di sistemi d’arma che alimentano guerre e militarizzazione vengano considerati più importanti del rispetto dei diritti umani, della vita delle popolazioni e degli sforzi di costruzione della pace». Sicuramente è un iter legislativo da monitorare. In questo momento di grande caos e crisi internazionale, è fondamentale avere informazioni attendibili per fare scelte consapevoli.

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