Israele-Hamas, cosa c’è dietro lo storico accordo di cessate il fuoco – #1039
Sono passati più di 15 mesi da quel 7 ottobre 2023 che ha dato inizio a una guerra devastante, con decine di migliaia di morti fra i palestinesi, molti dei quali bambini, e una distruzione senza precedenti nella Striscia di Gaza, Israele e Hamas hanno finalmente raggiunto un accordo per un cessate il fuoco nella giornata di ieri, grazie alla mediazione di Stati uniti, Egitto e Qatar. Con tutte le incognite e le incertezze del caso, è un momento storico, che segna una svolta importante in un conflitto che sembrava senza fine.
L’accordo è stato annunciato ieri sera dal primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, Hamas ha poi confermato di aver accettato le condizioni del cessate il fuoco, mentre il governo israeliano deve ancora farlo ufficialmente, anche se sembra una formalità. Si riunirà questa mattina, giovedì, per farlo.
Ma cosa prevede, in concreto, questo accordo? Come mai è arrivato proprio adesso? E quante possibilità ha di durare a lungo? Cerchiamo di capirci un po’ di più. Partiamo dall’analisi dell’accordo. L’accordo entrerà in vigore ufficialmente domenica e si sviluppa in tre fasi.
Ve le leggo dalla concitata diretta di Al Jazeera che sta seguendo minuziosamente l’evolversi degli eventi.
La prima fase è quella che inizia appunto domenica e dovrebbe durare 6 settimane e prevede:
- il rilascio di 33 prigionieri israeliani, dando priorità a donne, bambini e civili sopra i 50 anni da parte di Hamas.
- In cambio Israele libererà un numero maggiore di prigionieri palestinesi (su altri giornali si legge in un rapporto di circa 30 a 1, quindi dovrebbe rilasciare circa 1000 prigionieri palestinesi.
- Le forze israeliane si ritireranno dai centri abitati di Gaza, mantenendosi entro 700 metri dal confine israeliano.
- I civili potranno tornare nelle loro case nel nord assediato di Gaza, e fino a 600 camion di aiuti umanitari al giorno saranno ammessi nell’enclave.
- I palestinesi feriti potranno lasciare Gaza per cure mediche, e il valico di Rafah con l’Egitto sarà aperto sette giorni dopo l’inizio della prima fase.
- Le forze israeliane ridurranno la loro presenza nel Corridoio di Philadelphi (al confine tra Egitto e Gaza) e si ritireranno completamente entro il 50° giorno dall’entrata in vigore dell’accordo.
Ed eccoci arrivare alla seconda fase, in cui:
- Se le condizioni della prima fase saranno rispettate, Hamas rilascerà tutti gli ostaggi rimanenti, per lo più soldati maschi, in cambio della liberazione di altri prigionieri palestinesi.
- E Israele avvierà il ritiro completo delle sue forze da Gaza.
Infine è prevista una terza fase in cui:
- Una volta soddisfatte le condizioni della seconda fase, anche i corpi degli ostaggi deceduti saranno restituiti.
- E in cambio, verrà avviato un piano di ricostruzione triennale o quinquennale sotto supervisione internazionale.
Avrete notato che mentre la fase 1 è molto dettagliata, le due fasi successive lo sono molto meno perché i dettagli verranno definiti, e quindi negoziati, durante la prima fase: se non sarà raggiunto un accordo entro i 42 giorni, il cessate il fuoco verrà prolungato.
È un passo enorme, un po’ atteso ma anche abbastanza inaspettato, ma restano tante incognite. Fra i dettagli che devono essere ancora definiti alcuni sono complicati, come il controllo del confine tra Gaza ed Egitto. E altri aspetti dovranno essere monitorati ora dopo ora, come la reale attuazione degli scambi di prigionieri, e soprattutto nella fase 2 il reale ritiro delle truppe da parte di Netanyahu, una cosa che per molti membri estremisti del governo israeliano – che stanno attaccando l’accordo – è vista come una disfatta e una resa.
Eppure, il sentimento che emerge da Gaza è di enorme sollievo. Dal centro di Gaza City il corrispondente di Al Jazeera Hani Mahmoud riferisce che i palestinesi sono scesi in strada per accogliere la notizia del cessate il fuoco.
Mahmoud descrive un sentimento di felicità travolgente: “La folla è più numerosa del previsto,” ha detto dall’ospedale di Deir el-Balah. “Molte di queste emozioni erano state represse per 15 mesi di bombardamenti intensi, lasciando la popolazione in uno stato di paura e incertezza.” “Stiamo vedendo persone in lacrime, madri che vivono in tende vicino all’ospedale abbracciare e baciare i loro figli, ringraziando Dio di essere sopravvissute.”
Insomma sono immagini di liberazione, emozioni forti che non possiamo capire, che penso solo chi è sopravvissuto all’inferno di questi mesi può capire, ma che possiamo comunque nel nostro piccolo celebrare.
Ma perché proprio ora? Diciamo che sembrano esserci diversi elementi che hanno concorso al fatto che questo accordo venisse accettato. Innanzitutto il ruolo degli Usa.
Pochi minuti dopo che i giornali hanno diffuso la notizia dell’accordo Donald Trump si è imputato la paternità di questa vittoria con un post suo social Truth, che aveva creato dopo essere stato bannato da Twitter, in cui scrive: “Abbiamo potuto avere questo epico accordo di cessate il fuoco solo come risultato della storica vittoria di novembre, che ha segnalato al mondo intero che la mia amministrazione cercherà la pace e negozierà accordi per garantire la sicurezza di tutti gli americani e dei nostri alleati”, ha scritto il presidente eletto Usa Donald Trump dopo quello in cui ha annunciato l’accordo su Gaza”.
Anche l’amministrazione Biden si è in parte presa il merito delle trattative che sono dirate mesi e che ha condotto lungamente, anche se in effetti sembra che la mano della nuova amministrazione alle porte si sia sentita. Non tanto nella figura di Trump direttamente quanto in quella del suo inviato speciale Steven Witkoff, che ha partecipato agli ultimi incontri. Peter Beaumont sul Guardian ricostruisce i retroscena.
L’impasse si sarebbe sbloccato grazie a una telefonata inaspettata di Witkoff che chiama direttamente dagli Emirati il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Witkoff, l’inviato di Trump, è un noto miliardario e figura imponente, vuole un incontro immediato. È venerdì sera, inizia lo Shabbat, il sabato ebraico, ma lui non sente ragioni. E così si presenta il sabato mattina dal premier israeliano con un messaggio chiarissimo: Trump vuole un cessate il fuoco e uno scambio di ostaggi, subito.
Netanyahu si trova alle strette. Per mesi aveva detto che Israele non avrebbe mai mollato, che non ci sarebbe stata tregua finché non si fosse raggiunta una vittoria totale. Ma ora le cose sono cambiate. Trump vuole chiudere la partita prima del suo insediamento, probabilmente per potersi dedicare ad altre priorità, e in qualche modo – sembra – impone questa cosa con la forza. E così l’accordo prende forma.
Ma perché Netanyahu cede proprio ora? È davvero tutto merito di Trump o il prossimo presidente si sta intestando meriti non suoi? Se da un lato posso capire e immaginare come il ruolo di Trump sia stato significativo in una trattativa fra due leader, lui e Netanyahu, che per molti versi si somigliano e vivono la politica come un semplice rapporto di forza in cui alla fine chi è più forte vince, dall’altro la sola presenza di Trump non basta a spiegare l’accaduto.
A pesare probabilmente è stato anche il fatto che Israele e il governo Netanyahu sono in crisi nera: l’economia traballa, ci sono proteste continue, le infrastrutture cedono, e il governo è meno stabile.
Su Al Jazeera Ori Goldberg, analista politico di Tel Aviv, sostiene che il primo ministro israeliano abbia accettato l’accordo dopo 15 mesi di guerra perché “Israele sta implodendo internamente.” “I prezzi aumentano ogni giorno, c’è un’emorragia di cervelli incredibile, le istituzioni pubbliche stanno crollando e le infrastrutture si stanno sgretolando. Israele è probabilmente nella condizione peggiore dalla sua fondazione,” ha dichiarato Goldberg ad Al Jazeera. “Netanyahu sapeva che c’era una data di scadenza per questa situazione, e quella data è ora.”
Fatto sta che l’accordo accettato da Netanyahu è molto simile a quello che gli era stato presentato già a maggio 2024, ma all’epoca aveva respinto.
Ma quindi che succede adesso? Nel senso, quello che dovrebbe succedere lo abbiamo visto, ma quanto è probabile che questo cessate il fuoco si trasformi in una pace duratura? Qui la domanda diventa difficile e la situazione complicata da prevedere.
Restando su Al Jazeera, che devo dire sta facendo un grandissimo lavoro di copertura e analisi di quello che sta avvenendo, l’analista senior Marwan Bishara, avverte che l’ottimismo riguardo al cessate il fuoco deve essere cauto, data la complessità della sua attuazione.
“Ci sono molte condizioni che devono verificarsi simultaneamente: aiuti umanitari, scambio di prigionieri e ostaggi, il ritorno delle persone nelle loro case e molto altro”. E poi c’è il problema grosso della rimozione delle macerie, che potrebbero contenere i resti di circa 10.000-12.000 persone disperse e che sono un gigantesco ostacolo ad un ritorno alla normalità.
Molto importante sarà anche in questa fase il ruolo americano, soprattutto nei confronti di Israele, vista l’ampia assistenza militare e diplomatica fornita al paese. Secondo Sultan Barakat, docente di politiche pubbliche all’Università Hamad Bin Khalifa in Qatar, “Gli Stati Uniti sono la linea di rifornimento di questa guerra. Se fossero seri nel voler garantire l’accordo, potrebbero farlo interrompendo il flusso di forniture, denaro, eccetera,”.
Le prossime settimane comunque ci daranno un quadro più chiaro della situazione e delle reali prospettive di questo cessate il fuoco. Intanto non possiamo non celebrare.