21 Giu 2023

L’Onu adotta un trattato vincolante per proteggere gli Oceani – #749

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Dopo 20 anni le Nazioni unite sono riuscite a firmare un accordo vincolante sulla protezione degli oceani, considerato per molti versi storico. Parliamo anche di incontri diplomatici, come quello fra Xi Jinping e il segretario di stato usa Antony Blinken, o quello fra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron, e del referendum in Ecuador sull’estrazione di petrolio in una riserva naturale.

Dopo quasi vent’anni di negoziati, finalmente ieri gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno adottato il trattato globale per la protezione degli Oceani. Un traguardo ritenuto storico in quanto l’accordo sulla tutela della biodiversità marina è vincolante per le varie nazioni, che adesso saranno chiamate ad impegnarsi concretamente.

Ne parla Rosita Cipolla su GreenMe: “Ora tutti i Paesi firmatari, Italia inclusa, devono procedere con urgenza alla ratifica e iniziare a creare una rete efficace di santuari marini anche nelle loro acque territoriali e Zone Economiche Esclusive. La scienza è chiara: solo proteggendo almeno il 30% degli oceani entro il 2030 daremo ai mari del Pianeta la possibilità di riprendersi e prosperare” commenta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, che ha sostenuto fortemente questa iniziativa.

Ci sono almeno due punti cardine su cui si basa questo accordo. Il primo è la riduzione dell’inquinamento degli oceani: “I nostri oceani sono soffocati da sostanze chimiche e tonnellate di rifiuti di plastica, che stanno uccidendo pesci, tartarughe marine e uccelli, ma che finiscono anche nella catena alimentare umana. Soltanto nel 2021 oltre 17 milioni di tonnellate di plastica  sono finite negli ecosistemi oceanici e di questo passo questa cifra questo potrebbe addirittura triplicare ogni anno entro il 2040, in base a quanto previsto nell’ultimo report sugli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG)”.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, entro il 2050, nei mari potrebbe esserci più plastica che pesci. Per questo motivo il trattato stabilisce che le parti devono valutare i potenziali impatti ambientali di qualsiasi attività pianificata al di fuori delle loro giurisdizioni. Inoltre, l’accordo contiene disposizioni basate sul principio “chi inquina paga”.

Il secondo punto chiave è la lotta alla pesca insostenibile. “Secondo le Nazioni Unite, oltre un terzo degli stock ittici globali è sfruttato in modo eccessivo ed è il momento di agire nell’ottica di una maggiore sostenibilità. L’accordo sottolinea l’importanza del rafforzamento delle capacità e del trasferimento della tecnologia marina, oltre ad una maggiore collaborazione tra le organizzazioni marittime regionali e le organizzazioni che si occupano di gestione della pesca”.

L’accordo porterà anche alla creazione di nuovi strumenti di gestione territoriale, comprese le aree marine protette, per preservare e gestire in modo sostenibile habitat e specie marine. 

Ora, come al solito ci vuole un po’ di sano scetticismo quando parliamo di grandi accordi globali, perché finché questi accordi non si traducono in politiche di conservazione e azioni concrete restano delle parole scritte su carta. ma il fatto che questo accordo esista, e sia almeno in teoria vincolante è già un traguardo importante. Insomma: non facciamo l’errore di pensare che sia tutto risolto, ma nemmeno quello opposto di partire già sconfitti. 

La strada da fare per una reale tutela degli ecosistemi oceanici è lunga, ma un pezzetto di questo cammino è stato fatto. 

C’è stato un incontro molto importante a livello internazionale lunedì, di cui credo sia importante parlare. Mi riferisco alla visita del segretario di stato Usa Antony Blinken in Cina ed al suo incontro con il Presidente cinese Xi Jinping. Si tratta di quell’incontro che inizialmente era stato programmato a febbraio, ma poi rinviato dopo che un presunto pallone spia cinese aveva attraversato lo spazio aereo statunitense. Ma che si sono detti?

Provo a farvi una sintesi a partire dal lungo resoconto scritto da Humeyra Pamuk per Reuters. Innanzitutto, fatto significativo, il Presidente cinese Xi Jinping ha accolto Blinken nella Grande Sala del Popolo, un luogo di solito riservato al saluto dei capi di Stato.

L’alto diplomatico statunitense e Xi hanno entrambi sottolineato l’importanza di avere una relazione più stabile, poiché qualsiasi conflitto tra le due maggiori economie del mondo creerebbe disordini a livello globale.

La Cina ha rifiutato di accogliere la richiesta di Washington di riprendere i canali di comunicazione militare, citando le sanzioni statunitensi come ostacolo. Le due parti sono apparse arroccate sulle loro posizioni, da Taiwan al commercio, passando per le azioni degli Stati Uniti nei confronti dell’industria cinese dei chip, dei diritti umani e della guerra della Russia contro l’Ucraina.

Le parti hanno comunque concordato di continuare l’impegno diplomatico con altre visite nelle prossime settimane e mesi. In una conferenza stampa a conclusione del suo viaggio di due giorni a Pechino, il primo di un Segretario di Stato americano dal 2018, Blinken ha dichiarato che Washington ha raggiunto gli obiettivi del viaggio, tra cui sollevare direttamente le preoccupazioni, cercare di creare canali di dialogo ed esplorare aree di cooperazione. Ma ha detto che i progressi non sono stati immediati.

“Le relazioni erano a un punto di instabilità ed entrambe le parti hanno riconosciuto la necessità di lavorare per stabilizzarle”, ha detto Blinken prima di lasciare la Cina. “Ma i progressi sono difficili. Ci vuole tempo. E non è il prodotto di una sola visita, di un solo viaggio, di una sola conversazione. La mia speranza e la mia aspettativa è che in futuro le comunicazioni e l’impegno siano migliori”.

I funzionari statunitensi hanno minimizzato la prospettiva di una svolta importante, ma sperano che la visita di Blinken apra la strada a ulteriori incontri bilaterali, compresi eventuali viaggi del Segretario al Tesoro Janet Yellen e del Segretario al Commercio Gina Raimondo.

Insomma, il valore di questo incontro è stato soprattutto simbolico, anche se ci sono comunque state delle aperture su accordi specifici su alcuni temi. Ad esempio, come racconta Filippo Fasulo su ISPI online “su temi come la sicurezza alimentare globale, il commercio di oppioidi sintetici e gli scambi culturali. 

Pechino si è dimostrata disposta ad agire sul controllo alle esportazioni dei componenti necessari alla produzione del fentanyl, un oppiaceo sintetico più potente dell’eroina che sta provocando un’emergenza sanitaria negli Stati Uniti.

Più controversa e centrale è stata la questione Taiwan: durante i colloqui i funzionari cinesi hanno detto di non escludere in futuro un intervento militare, mentre Blinken in una conferenza stampa post incontro ha detto che gli Usa “Non sostengono l’indipendenza di Taiwan e restano contrari a qualsiasi modifica unilaterale allo status quo da entrambe le parti”. Una dichiarazione che è stata letta da diversi analisti come una apertura Usa sulla questione. Certo, a scapito di Taiwan. 

Un elemento di attrito è stato poi l’accusa cinese agli Usa di “interferire sconsideratamente con gli affari interni” di Pechino e di alimentare la “teoria di una minaccia cinese”. Cosa che ovviamente fa male alle aspirazioni di ripresa economica post pandemica della Cina.

Insomma, forse è presto per parlare di disgelo o addirittura di collaborazione, ma è importante tenere vivi dei canali di dialogo, pur nella differenza di obiettivi. Come commenta sempre Fasulo su ISPI “Il valore principale dell’incontro, così come era stato per il bilaterale Biden-Xi del G20 a Bali, è proprio nell’incontro stesso. Le due parti riconoscono come sia importante definire un meccanismo di consultazione – mentre prosegue la competizione strutturale – per evitare che ci possano essere incidenti che facciano precipitare in un confronto militare. Questo non vuol dire però che Pechino o Washington rinuncino ai propri propositi, rispettivamente, di revisione o mantenimento dell’ordine internazionale esistente. Prossimo appuntamento possibile, il G20 in India a settembre o il vertice Apec a San Francisco a novembre”.

Tornando alle nostre latitudini, ieri c’è stato un altro incontro a cui è necessario almeno fare un accenno, ovvero la visita della premier italiana Giorgia Meloni a Parigi, dove ha incontrato il Presidente francese Emmanuel Macron. Il viaggio è stato organizzato ufficialmente per sostenere la candidatura di Roma a ospitare l’Expo 2030, ma come spiega il Post la presenza di Meloni a Parigi è stata anche l’occasione per incontrare il presidente francese dopo mesi di relazioni diplomatiche complicate tra i due governi, causate soprattutto da questioni che riguardano l’immigrazione. 

Su questo fronte i due si sono mostrati piuttosto compatti, almeno pubblicamente. Dopo l’incontro Macron ha dichiarato: Di fronte ai “drammi” dei migranti ai quali “continuiamo ad assistere” bisogna che l’Europa “sia in grado di affrontare in modo più efficace la sfida dell’immigrazione rimanendo fedele ai nostri valori”. 

Per continuare: “Non c’è una buona politica migratoria europea, ossia non c’è una politica coerente di difesa delle nostre frontiere comuni. È importante trovare un giusto equilibrio fra la responsabilità e la solidarietà fra tutti i Paesi”.

Occorre un coordinamento nelle relazioni con i Paesi di origine e di transito e in questa direzione va anche l’iniziativa con la Tunisia su cui Francia e Italia “hanno una visione condivisa”.

Era proprio questo, ha aggiunto, “il senso del pacchetto che abbiamo negoziato durante la presidenza francese, che ha portato a un accordo che considero positivo. È questo l’approccio pragmatico che vogliamo continuare a portare avanti e credo che su questo Italia e Francia possano lavorare nei prossimi mesi”.

Certo, il fatto che la linea di Francia e Italia sull’immigrazione trovi il suo compromesso o il suo bilanciamento negli accordi con la Tunisia, paese governata da un leader xenofobo e fautore della teoria della grande sostituzione non mi fa stare proprio benissimo. Ma questo è. 

Spostiamoci in Ecuador dove il 20 agosto c’è un appuntamento elettorale doppio molto importante. Innanzitutto si voterà per le elezioni anticipate, indette dopo che il presidente di destra Guillermo Lasso ha sciolto il Parlamento per non finire sfiduciato e affrontare un processo penale per corruzione. Elezioni che ovviamente racconteremo (magari con qualche giorno di ritardo perché in quel periodo INMR sarà in pausa, ma comunque le commenteremo). 

Ma si voterà anche per un’altra questione, meno nota ma altrettanto importante. Un referendum popolare sul destino del Parque Nacional Yasuní. È il più grande parco nazionale dell’Ecuador ed è uno scrigno di biodiversità che però, come racconta un articolo su GreenReport, deve fare i conti con la presenza di un grosso giacimento petrolifero: il Bloque 43-ITT.

Il referendum è stato convocato proprio per questo: per chiedere ai 13,45 milioni  di elettori ecuadoriani se vogliono continuare o meno con lo sfruttamento del petrolio nel parco naturale rispondendo sì o no al quesito “Sei d’accordo che il governo ecuadoriano mantenga il greggio dell’ITT, noto come blocco 43, indefinitivamente sotto terra?”.

Una domanda che – spiega l’articolo – divide trasversalmente la società ecuadoriana, compresa la sinistra “urbana” e quella indigenista. Da una parte  ci sono i difensori dell’ambiente e dei popoli incontattati o coloro che vivono in isolamento volontario negli Yasuní, come gli indios  Tagaeri ei Taromenani, dall’altra parte c’è chi vuole che lo stato continui a percepire le royalities derivanti dallo  sfruttamento petrolifero nell’area.

Fra l’altro proprio lo stesso parco e l’estrazione del petrolio dal suo sottosuolo +è stato all’origine della grande rottura, nel 2013, fra i movimenti indigeni e l’allora presidente di sinistra Rafael Correa, perché fu proprio Correa ad approvare per primo l’estrazione, bloccando una proposta dei movimenti indigeni nota come fideicomisos Yasuní ITT. 

Nell’agosto 2013 Correa – attualmente in esilio ma il cui Partito è dato favorito alle elezioni politiche e presidenziali del 20 agosto – annunciò: «Il mondo ci ha deluso […] Con profonda tristezza, ma anche con assoluta responsabilità nei confronti del nostro popolo e della nostra storia, ho dovuto prendere una delle decisioni più difficili di tutto il mio governo: oggi ho firmato il decreto d’ordine esecutivo per la liquidazione dei fideicomisos Yasuní ITT e quindi porre fine all’iniziativa».

Il referendum è promosso dalla coalizione nata in difesa del parco chiamata Yasunidos, formatasi proprio nell’agosto 2013 dopo la mossa di Correa. Come sottolineano i promotori: «Possiamo dare l’esempio al mondo mantenendo il petrolio sotto terra e prendendoci così cura dell’Amazzonia, il polmone del pianeta. Vogliamo preservare la biodiversità dello Yasuní, combattere il cambiamento climatico, proteggere popoli e cercare alternative all’estrattivismo».

Per garantire che comunque lo Stato recuperi le entrate petrolifere che perderà, Yasunidos propone la riduzione delle esenzioni fiscali, la rinegoziazione delle tariffe per le grandi compagnie telefoniche, la riscossione di debiti milionari dai primi 500 debitori del Servicio de Rentas Internas (SRI) e la promozione e l’aumento del turismo.

Vedremo come andrà a finire. Ci aggiorniamo.

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