13 Mag 2024

L’Assemblea generale dell’Onu riconosce la Palestina, che significa? – #929

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Venerdì l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha chiesto di inserire la Palestina fra i paesi membri. Si tratta di un voto più simbolico che pratico, perché il veto Usa in sede di Consiglio di sicurezza è abbastanza scontato, ma che ha comunque una sua rilevanza, in un momento in cui gli usa minacciano di bloccare l’invio di armi a Israele. Parliamo anche delle balene a cui è stata attribuita personalità giuridica da alcune popolazioni native, del nostro viaggio alla scoperta della Calabria che Cambia e infine delle inondazioni in Afghanistan.

Venerdì, con un voto storico, l’Assemblea generale dell’Onu ha determinato che la Palestina è «qualificata» per presentare richiesta di ammissione come membro delle Nazioni unite, e ha raccomandato al Consiglio di Sicurezza di «riconsiderare favorevolmente la questione». I voti sono stati 143 a favore, 9 contrari, tra cui Usa ed Israele, e 25 astensioni, tra le quali quelle di Italia e Ucraina.

Che vuol dire questa cosa e che succede adesso? 

Vi faccio prima un breve riassunto di come funzionano le Nazioni Unite. In pratica le Nazioni Unite sono nate dopo la seconda guerra mondiale con l’intento di garantire la pace e impedire che guerre come quella si ripetessero in futuro. In realtà esisteva anche prima una cosa simile, chiamata Società delle nazioni, che però si era mostrata inefficace nel prevenire proprio lo scoppio della guerra e quindi fu di fatto sostituita da questo nuovo organismo.

Le Nazioni unite hanno diversi organi, ma due sono quelli più importanti per quanto riguarda le decisioni, l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza. 

L’Assemblea Generale è formata da tutti i paesi riconosciuti al mondo, che sono 193 Paesi membri. L’Assemblea generale costituisce il potere consultivo e deliberativo dell’organizzazione. E ogni Paese membro ha un voto, secondo il criterio di uguaglianza.

Il Consiglio di Sicurezza invece è formato da 15 membri, di cui 5 permanenti (che sono Usa, Cina, Russia, Regno Unito e Francia) e 10 a rotazione con un mandato di due anni. Il Consiglio di sicurezza possiede i principali poteri in materia di pace e sicurezza internazionale. 

Ora, come racconta Marina Catucci sul manifesto, dal 2012 la Palestina è uno stato osservatore dell’Onu. Significa che non è conteggiato nei 193 paesi votanti, ma ha questo status speciale, che condivide con la Santa Sede (sono gli unici due paesi al momento osservatori non membri). La decisione del 2012 ha un effetto soprattutto simbolico che ha consentito ai rappresentanti della Palestina comunque la partecipazione ai dibattiti delle Nazioni unite. 

Adesso questa risoluzione invita il Consiglio di Sicurezza a riconsiderare il caso della Palestina. Perchè la procedura per l’ingresso di un paese nell’Onu prevede che il Consiglio di Sicurezza faccia un’analisi sull’ammissibilità, e uno dei criteri è che il paese richiedente sia a tutti gli effetti uno Stato. Se poi il consiglio di Sicurezza lo ritiene idoneo, allora l’Assemblea generale delibera se ammetterlo oppure no, ma quella è più che altro una formalità, perché tendenzialmente si vota positivamente.

Il fatto è che nel Consiglio di Sicurezza c’è il diritto di veto di ciascun membro, ed è quasi sicuro che gli Usa metteranno il veto a qualsiasi tipo di rivendicazione. Anzi, nei fatti lo hanno già dichiarato. Quindi in realtà anche questa nuova risoluzione ha un valore più simbolico che effettivo, ma come spiega la giornalista, apre la porta a “qualche spazio di azione maggiore per la Palestina. 

La Palestina continuerà a non poter votare le risoluzioni discusse dall’Assemblea generale, ma potrà proporre dei temi da dibattere, i suoi rappresentanti potranno partecipare alle discussioni su tutti gli argomenti e non solo a quelli legati al Medio Oriente, e prendere parte alle conferenze e ai dibattiti organizzati dalle Nazioni unite”. 

Comunque, al di là dei benefici pratici, il voto ha mostrato come al di fuori della nostra bolla, la stragrande maggioranza dei rappresentanti dei Paesi del mondo appoggi la causa palestinese, e di fatto condanni l’aggressione israeliana. 

La risoluzione ha naturalmente fatto infuriare la rappresentanza israeliana. L’ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan ha detto: «Avete aperto le Nazioni unite ai nazisti moderni. Questo giorno sarà ricordato con infamia». Erdan ha parlato di uno «stato terrorista palestinese» che sarebbe guidato «dall’Hitler dei nostri tempi. State facendo a pezzi la Carta Onu con le vostre mani. Vergognatevi», ha detto mentre passava alcune pagine del documento in un tritacarte.

Come vi dicevo, durante il dibattito il portavoce della missione Usa all’Onu, Nate Evans, ha dichiarato che «L’Autorità palestinese attualmente non soddisfa i criteri per l’adesione previsti dalla Carta delle Nazioni unite. Il presidente Biden è stato chiaro sul fatto che una pace sostenibile nella regione può essere raggiunta solo attraverso una soluzione a due stati», ma «resta l’opinione degli Usa che le misure unilaterali, all’Onu e sul campo, non porteranno avanti questo obiettivo». 

Gli Usa hanno giustificato la propria posizione sostenendo inoltre che «l’adozione di questa risoluzione non porterà un cambiamento tangibile per i palestinesi. Non metterà fine ai combattimenti a Gaza né fornirà cibo, medicine e riparo ai civili. È qui che si concentrano gli sforzi degli Stati uniti: ottenere un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, continuando a fornire aiuti ai civili di Gaza».

Al di là della difesa americana di Israele in sede Onu, in realtà i rapporti fra le amministrazioni dei due paesi non sono proprio rosee al momento. Al centro dello scontro c’è il possibile attacco israeliano a Rafah, che è l’ultima città rimasta in piedi nella striscia di Gaza, dove si sono concentrati circa 1 milione e mezzo di palestinesi in fuga dai bombardamenti. 

L’esercito israeliano ha già mandato diversi ordini di evacuazioni e iniziato alcune operazioni e il governo, Netanyahu in primis, continua a dire che l’attacco a Rafah non è in discussione. Che si farà, punto. Mentre l’amministrazione Biden è apparentemente molto netta sul fatto che considera inammissibile un attacco a Rafah.

Sempre venerdì il Presidente Usa Joe Biden che ha minacciato di interrompere le forniture di armi se Netanyahu inizierà l’offensiva a Rafah. Minaccia a cui Netanyahu ha risposto prontamente: «Se dobbiamo restare da soli, resteremo da soli».

Biden è evidentemente in difficoltà perché da un lato, anche in ciave elettorale, non vuole apparire complice dei bombardamenti israeliani che hanno già fatto decine di migliaia di vittime palestinesi, ma allo stesso tempo non vuol dare l’impressione di abbandonare il suo alleato di lunga data. E con la sua base democratica ebraica che spinge in entrambe le direzioni.

In questo contesto, sempre venerdì, il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, ha presentato al Congresso degli Stati Uniti un rapporto sulla guerra in corso nella Striscia di Gaza e in particolare sulle pratiche adottate da Israele per la tutela dei civili, l’uso delle armi e l’invio di aiuti umanitari.

Rapporto che afferma che è «ragionevole valutare» che le armi e le munizioni inviate dagli Stati Uniti a Israele siano state usate in modo improprio e «non in linea» con il diritto umanitario, per esempio per uccidere o ferire i civili. 

Il dipartimento di stato dice che non ha trovato prove inconfutabili di questo, ma che ci sono vari episodi nei quali si ritiene probabile che le armi statunitensi siano state usate per ferire o uccidere civili. 

Ora, lo so cosa state pensando. Classica notizia della nostra inviata sul campo Grazia Arca… Se do armi a un paese che sta compiendo un massacro di civili, è abbastanza plausibile che quelle armi non vengano usate in violazione del diritto umanitario. Però non è questo il punto. Il punto è che un rapporto così non esce a caso, in questo momento. O meglio, non esce perché improvvisamente l’amministrazione Usa ha trovato delle prove. No. 

Esce perché il rapporto stesso diventa un’arma di contrattazione, un modo per fare pressione su Israele. Il messaggio Usa è chiaro: ci stiamo preparando per interrompere per davvero le forniture di armi, e con questo rapporto possiamo tranquillamente giustificare questa cosa all’opinione pubblica. Vediamo.

Torniamo a parlare di balene, come nella puntata di venerdì in cui raccontavamo di come la popolazione di balenottere azzurre antartiche stia tornando a salire e di come si aprono spiragli per la fine della macabra mattanza di globicefali nelle isole Faroe.

La notizia di oggi arriva invece dalla parte opposta del globo, dove i capi delle popolazioni native di Nuova Zelanda, Tahiti e delle isole Cook hanno firmato un importante documento per salvare le balene. 

La notizia in realtà risale a circa due mesi fa, ma dato che il Fatto Quotidiano le dedica un approfondimento adesso, a firma di Giuliana Lomazzi, e visto che non ne abbiamo parlato, parliamone. 

Il documento in questione si chiama Dichiarazione per l’oceano e riconosce le balene come esseri senzienti, dotandole quindi dello status giuridico di persone, con tutta una serie di diritti. L’articolo spiega che questa procedura non è una cosa nuova. A livello globale, ci sono ormai circa 200 ecosistemi riconosciuti come persone giuridiche e di cui si tutelano i cicli naturali. Per esempio, i gruppi nativi della Nuova Zelanda avevano già riservato lo status al fiume Te Awa Tupua Whanganui, alla regione Te Urewera e al monte Taranaki maunga, mentre in Perù, a fine aprile, alcune donne del popolo Kukama hanno ottenuto da un tribunale lo status giuridico per il bacino del Marañón, uno dei più importanti fiumi dell’Amazzonia. 

Queste dichiarazioni possono sembrare forme folkloristiche ma in realtà assumono un valore giuridico abbastanza preciso. 

Le balene australi sono già protette. Per esempio, intorno all’Antartide c’è una zona di 50 milioni di chilometri quadrati istituita dall’International Whaling Commission, il Southern Ocean Whale Sanctuary, dove la caccia commerciale alla balena è vietata. Ma per i nativi questi cetacei, che ovviamente non conoscono confini, devono poter essere liberi di migrare e di riprodursi senza rischiare la vita. 

Ad esempio “La personalità giuridica permette di dare visibilità in acqua alle balene, rispetto alle imbarcazioni, che spesso le colpiscono anche involontariamente. Pensate che gli incidenti con navi, secondo le stime possono causare la morte di 10.000 balene all’anno.


Per i nativi, dunque, deve pagare chi ostacola i diritti naturali delle balene o danneggia il loro habitat, ma anche le grandi imbarcazioni che non adottano soluzioni tecniche per evitare l’impatto con i cetacei. E perché tutto ciò non resti lettera morta, i polinesiani intendono costituire un fondo di 100 milioni di dollari a sostegno del progetto e trattare con il governo della Nuova Zelanda per dare un quadro giuridico all’accordo, che prevede anche l’istituzione di aree marine protette. In sostanza, loro mettono a disposizione le proprie conoscenze e capacità per custodire le balene, ma chiedono in cambio il sostegno politico e scientifico. Interessante.

Piccolo break dalle notizie. La scorsa settimana il nostro direttore Daniel Tarozzi assieme a Selena Meli hanno girato per la Calabria a fare interviste e raccogliere nuove esperienze, progetti, ecc. Ho chiesto a Daniel di raccontarci come è andata.

Audio disponibile nel video / podcast

Ci sono state gravi inondazioni in Afghanistan. In pratica, raccponta il Post, tra venerdì e sabato le zone centrali e orientali dell’Afghanistan sono state colpite da forti piogge, che hanno provocato gravi inondazioni: secondo le Nazioni Unite almeno 300 persone sono morte e molte altre risultano disperse. Le inondazioni hanno anche distrutto migliaia di case e altri edifici, e molte zone sono state evacuate.

La provincia più colpita è stata quella di Baghlan, nella parte nord-orientale del paese, dove migliaia di case sono state distrutte o danneggiate, così come molte strade, infrastrutture e reti elettriche. Ci sono stati danni anche in alcune province nella parte centrale dell’Afghanistan, come quelle di Ghor ed Herat, mentre nella provincia di Badakhshan, al confine con il Tagikistan, circa 2mila animali da allevamento sono morti, secondo le autorità locali.

Nelle località più colpite sono stati inviati soccorritori, medici, ambulanze e rifornimenti di cibo e acqua, ha detto Sharafat Zaman, un portavoce del ministero della Salute. Le autorità stanno inoltre provvedendo a evacuare le zone più colpite o considerate a rischio, e molte persone sono state portate in ospedale. Vari video pubblicati sui social mostrano decine persone in un ospedale della provincia di Baghlan mentre cercano i propri amici o familiari. Altri video mostrano strade invase dall’acqua e dal fango.

Queste inondazioni in realtà sono solo le ultime di una lunga serie. Da circa metà aprile le piogge molto abbondanti hanno causato inondazioni diffuse e centinaia di morti. L’Afghanistan è un paese da sempre molto soggetto a eventi di questo tipo, ma i cambiamenti climatici con piogge sempre più intense e concentrate stanno peggiorando la situazione. In un paese che, fra l’altro, ha infrastrutture spesso poco solide, soprattutto nelle aree più povere del paese e che quindi è ancora più soggetto a subire conseguenze gravo da questi fenomeni.

Tant’è che l’Afghanistan è considerato uno dei paesi più a rischio a causa del cambiamento climatico. Che per via di questi meccanismi tende a essere poco equo e a colpire di più i paesi più poveri che sono anche i minori responsabili del problema.

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