Le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale e come già stanno cambiando il mondo – #985
L’Intelligenza artificiale è entrata improvvisamente nelle nostre vite e ha avuto un impatto enorme in brevissimo tempo sulla nostra società. Ovviamente parliamo di una tecnologia ancora agli albori, e di cui non ci rendiamo nemmeno del tutto conto. Però è presente, un po’ sottotraccia, ormai ovunque. Abbiamo parlato in scorse rassegne dell’utilizzo sempre più ampio in ambito militare, ad esempio per efficientare l’uccisione di persone a Gaza – se vi sembra un’espressione brutale lo è, ma è esattamente così.
Oggi però vorrei analizzare due tendenze, una ormai completamente affermata ma di cui penso non ci rendiamo del tutto conto, l’altra che secondo gli analisti rappresenta il prossimo futuro dell’IA.
La tendenza già affermata riguarda la creazione di contenuti. I contenuti creati da algoritmi di IA ormai proliferano sul web. Però ci sono tanti modi di utilizzare Chatgpt e simili. Ad esempio, nel giornalismo l’IA può essere un ottimo alleato nella ricerca di fonti e dati, ovviamente da verificare poi.
Il punto però è: che tipo di contenuti vengono creati dall’AI e perché? La mia sensazione è che sempre più persone stiano utilizzando l’IA per creare con il minimo sforzo enormi quantità di contenuti che poi vendono online. C’è infatti questo trend in crescita, testimoniato dai tanto corsi dei vari guru del business online, che suggeriscono di usare chatgpt e affini per creare in pochi minuti libri e manuali che poi si possono vendere su Amazon attraverso l’opzione del self-publishing.
Ovviamente si tratta di contenuti di scarso interesse, che sono nient’altro che la rielaborazione di quello che si trova già online, se va bene, o possono essere persino rischiosi e pericolosi se va male, quando ad esempio toccano temi delicati come la salute, il benessere, l’educazione ecc. Fra l’altro, perché il business stia in piedi occorre che ciascun publisher pubblichi centinaia e centinaia di libri, sfruttando il concetto di long tail, quindi tanti prodotti che vendono poche copie ciascuno, di cui nessuno diventerà un best seller.
Solo che se moltiplicate questa cosa per le sempre più persone che utilizzano questo sistema, e se considerate che dinamiche simili stanno avvenendo in altri ambiti legati ai contenuti, come quello dell’informazione online (giornali generati interamente dall’Ia, o con contenuti tradotti automaticamente dall’IA, per attirare traffico e vendere pubblicità) capite bene che il web è già invaso da contenuti generati da algoritmi.
Che ripeto, non è un problema in sé il fatto che siano generati dagli algoritmi, perché con le giuste dritte gli algoritmi possono fare degli ottimi articoli. E questo tipo di contenuti esistevano anche prima eh: non è che siano nati adesso i siti con contenuti acchiappaclick pensati solo per vendere pubblicità. Il fatto è che prima dovevi pagare anche una miseria qualcuno che producesse articoli scadenti in grande quantità. Ora invece l’IA permette improvvisamente di scalare questo modello di business in maniera vertiginosa. E tutto ciò riempie il web di contenuti continuamente rimasticati, con grosse criticità.
Vediamo un po’ di dati. Uno studio condotto dai ricercatori di Amazon Web Services (Aws), riportato da Wired, rivela che già oggi ben il 57% dei contenuti presenti in rete è generato dall’AI o tradotto con il supporto di uno dei modelli AI attualmente in circolazione.
E tutto ciò, fra l’altro, genera un circolo vizioso che rischia di far collassare sia i modelli di AI che il web stesso. Gli attuali modelli di AI in grado di produrre contenuti infatti, i cosiddetti chatbot come Chatgpt o Gemini, sono addestrati dandogli in pasto dati acquisiti tramite lo scraping del web. In pratica succhiano costantemente e analizzano contenuti dal web – in una zona d’ombra legislativa e con tanti interrogativi legati al diritto d’autore.
Ma perché l’addestramento funzioni bene, è necessario che i contenuti del web siano validi. Se il web si popola di contenuti di scarsa qualità, l’IA si formerà su contenuti da essa stessa prodotta e i modelli ne risentiranno in termini di prestazioni. Un circolo vizioso, che per il momento sembra difficile interrompere: i siti web si riempiono di contenuti di bassa qualità, generati o tradotti dall’AI, e poi quegli stessi contenuti diventano materiale di formazione per i modelli, che finiscono con l’imparare cose del tutto sbagliate.
E la situazione inizia a preoccupare e non poco anche OpenAI e Google, che stanno iniziando a immaginare soluzioni alternative per la formazione dei loro modelli. Al netto di ciò, il dato utile per tutti al momento è che dobbiamo essere consapevoli che forse quel manuale di meditazione che abbiamo acquistato online o quel nuovo sito di notizie che ci appare in continuazione potrebbero essere prodotti dall’IA.
Il secondo trend che inizia ad affacciarsi adesso è quello degli agenti. Che secondo molti esperti saranno la prossima frontiera dell’IA, perlomeno di quella aperta al grande pubblico. Gli agenti sono degli algoritmi di IA in grado non solo di fornire risposte, come avviene adesso con i chatbot, ma di fare cose. Compiere azioni autonomamente.
Ad esempio io potrei avere un agente e addestrarlo per farmi la spesa online ogni volta che si accorge che nel frigo mancano certe cose. Oppure un agente che mi sceglie quali investimenti fare, o un altro che mi gestisce l’orto e decide come e quando irrigare le piante.
Come spiega un altro articolo su Wired, anche questo come il precedente a firma di Chiara Crescenzi, “Compagnie come Google, Microsoft e OpenAI stanno lavorando per insegnare ai loro agenti AI a lavorare con le API dei dispositivi degli utenti. Questo significa che, idealmente, potranno premere pulsanti, prendere decisioni, monitorare autonomamente i canali e inviare richieste.
Insomma, gli agenti potrebbero segnare l’inizio dell’era noi esseri umani deleghiamo sempre più azioni e decisioni agli algoritmi. E delegare le decisioni significa delegare il potere, sostanzialmente. E magari nel tempo diventare meno capaci di prendere decisioni autonome ed essere indipendenti, una volta che grossi pezzi del sistema saranno gestiti da algoritmi.
Come racconta ancora la giornalista, “più i modelli AI diventano indipendenti nelle scelte e più si espongono al rischio di commettere errori. Ma creare agenti perfetti non risulta conveniente per le aziende del settore, considerando che c’è una piccola – seppur molto rumorosa – schiera di esperti AI che teme che creare agenti troppo abili possa determinare la fine della civiltà umana.
Una preoccupazione che si contrappone all’entusiasmo dei tecnottimisti, fermamente convinti che la tecnologia non possa far altro che potenziare le capacità degli esseri umani. Nel mezzo a questi due estremi, stanno gli algoritmi che continuano ad evolversi. Verso quale direzione, lo scopriremo presto.
Restiamo nel mondo delle big tech. Ci sono due notizie che riguardano due colossi del web ma che ci dicono anche diverse cose su dove sta andando il mondo. La prima in realtà è più che altro un aggiornamento su una vicenda di cui abbiamo parlato qualche giorno fa. Ricorderete forse della multa da 1,5 miliardi di euro che la Commissione europea aveva inflitto a Google per aver penalizzato attraverso i suoi algoritmi delle aziende che offrivano servizi di comparazione dei prezzi offerti anche da Google stessa. In pratica l’accusa è che Google faceva uscire prima i suoi stessi servizi rispetto a quelli delle aziende concorrenti.
La notizia di ieri è che la Corte di Giustizia dell’UE ha confermato in gran parte le valutazioni della Commissione europea riguardanti Google, ma ha annullato la decisione di infliggere la multa pecuniaria. Infatti secondo il Tribunale la Commissione non ha considerato adeguatamente tutte le circostanze nella valutazione della durata delle clausole contrattuali, che erano state giudicate abusive. Insomma, l’accusa resta valida, ma una serie di dettagli sembrano aver salvato Google dal pagare la multa salata.
La seconda notizia è che Amazon ha annunciato che a partire da gennaio i dipendenti dovranno tornare in ufficio cinque giorni a settimana, eliminando completamente lo smart working introdotto durante la pandemia di Covid-19.
È la prima azienda Big Tech a fare questo passo, mentre altre aziende tecnologiche hanno ridotto il lavoro da remoto senza mai eliminarlo del tutto. Ed è un segnale interessante da leggere, perché quando si muove un colosso come Amazon non si muove a caso, e quindi si saranno fatti i loro conti. E soprattutto Amazon ha la capacità di influenzare istantaneamente i trend di tutto il resto del mondo del lavoro.
Ma vediamo quali sono le motivazioni di questo drastico cambio di rotta. Come racconta Elisabetta Rosso su Fanpage, il CEO di Amazon Andrew Jassy ha spiegato che il ritorno in ufficio favorisce la collaborazione, l’apprendimento e il rafforzamento della cultura aziendale.
Prima di questa decisione, i dipendenti Amazon lavoravano in ufficio tre giorni a settimana, mentre potevano lavorare da remoto nei restanti due. D’ora in avanti invece lo smart working sarà permesso solo in casi eccezionali, come emergenze familiari, e dovrà essere approvato da un supervisore.
Ora c’è da capire quali impatti avrà la mossa di Amazon sul resto delle aziende, quante sceglieranno di seguire la direzione tracciata da essa e quante invece proseguiranno sulla strada dello smart working. Alcuni giornali si sono affrettati a proclamare la morte dello smart working. Ma ovviamente non tutti sono d’accordo. Anche perché nel frattempo sempre più persone hanno fattpo dello smart working uno stile di vita e la base del proprio benessere, che permette loro di vivere in luoghi molto belli o isolati, pagando affitti meno cari e lavorando regolarmente.
Su ICC abbiamo raccontato spesso anche del fenomeno del south working. E dal canto nostro, continueremo a seguire il tema del lavoro con molta attenzione.
Leggo sul Post che La Norvegia è diventata il primo paese al mondo in cui le auto elettriche hanno superato in numero quelle a benzina, con 754.303 veicoli elettrici rispetto a 753.905 a benzina, su un totale di 2,8 milioni di auto registrate. Le auto diesel sono ancora le più numerose, ma saranno superate dalle elettriche entro il 2026. Nel 2024, oltre il 90% delle nuove auto acquistate in Norvegia è elettrico, una tendenza unica rispetto all’Europa e agli Stati Uniti.
Il successo delle auto elettriche in Norvegia è dovuto ai forti incentivi governativi, che includono esenzioni fiscali e agevolazioni per la circolazione. Il governo mira a raggiungere il 100% di vendite di auto a “zero emissioni” entro il 2025, dieci anni prima dell’UE. Nonostante siano ancora più costose delle auto a benzina e diesel, gli incentivi le rendono competitive.
Ora, la notizia è molto interessante, ci sono però alcune criticità. La prima è che, racconta ancora l’articolo del Post, la Norvegia è stata in grado di finanziare questi incentivi grazie ai proventi del petrolio, che hanno reso il paese uno dei più ricchi al mondo.
La seconda è che secondo le stime il numero complessivo di auto in Norvegia dovrebbe crescere a 3,1 milioni entro il 2030, con un continuo declino delle auto diesel e un aumento delle elettriche. Che non è per niente una bella notizia. Infatti la transizione verso la mobilità elettrica ha molto senso ma solo se contemporaneamente abbandoniamo anche via via il concetto di auto privata e andiamo verso un tipo di mobilità ibrida, in cui ai mezzi pubblici elettrici, si affiancano veicoli leggeri, in sharing, molte meno auto e così via.
Perché se pensiamo di fare una sostituzione 1 a 1 del parco macchine attuale con un parco macchine elettrico, o ancora peggio di aumentare il parco auto – cosa che ovviamente il modello economico della crescita prevede, stiamo creando solo nuovi problemi.
E un esempio di questo ce lo da Mario Draghi, nel suo rapporto sulla competitività dell’Unione Europea di cui abbiamo parlato qualche giorno fa. Rapporto che fra le altre cose affronta il tema dei Pfas (sostanze per- e polifluoroalchiliche) e della loro eventuale messa al bando nell’UE. I PFAS, forse lo saprete, sono delle sostanze molto inquinanti e dannose per la salute, ma che vengono molto utilizzate per una serie abbastanza ampia di prodotti, soprattutto per creare delle pellicole impermeabili sui prodotti.
Draghi sottolinea che al momento non esistono alternative a queste sostanze per alcune tecnologie essenziali per la transizione energetica, e che vietarle potrebbe dare un vantaggio competitivo a Cina e Stati Uniti.
Un passaggio in cui emerge chiaramente come la sostenibilità ambientale sia incompatibile con un modello basato sulla competizione e la crescita infinita.
#AI
Wired – Il 57% dei contenuti presenti su internet è generato dall’AI, e questo non è un bene
Wired – Che cosa sappiamo degli agenti AI di cui tutti parlano
#Google
la Repubblica – Ue, la Corte di Giustizia annulla la multa da 1,5 miliardi su AdSense
#auto elettriche
il Post – In Norvegia ci sono più auto elettriche che a benzina
#smartworking
Fanpage – Amazon elimina del tutto il lavoro da remoto: è la fine dello smart working?
#Pfas
Vita – Draghi: Pfas necessari per l’energia pulita