3 Mar 2022

MiT: gli incendi peggiorano il buco dell’ozono! – #475

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Un nuovo studio mostra una correlazione fra grandi incendi e buco dell’ozono. E ogni nuova correlazione che scopriamo rende più evidente che non ha senso cercare soluzioni sintomatiche alla crisi ecologica. Intanto Survival International lancia una campagna per fermare il progetto 30×30 delle Nazioni Unite, che vuole rendere aree protette il 30% della superficie del Pianeta entro il 2030. Scopriamo perché. Parliamo anche del primo Discorso sullo stato dell’Unione di Biden e della legge anti plastica del Regno Unito.

BUCO DELL’OZONO

Tiriamo il fiato e ci stacchiamo per oggi dalle questioni legate all’Ucraina. Parliamo, invece, di ozono. Rinnovabili.it riporta uno studio del MIT di Boston che dimostra per la prima volta che esiste un legame tra gli incendi e la riduzione dello strato di ozono, il fenomeno noto comunemente come buco dell’Ozono. 

Come forse saprete, l’ozono è una molecola composta da 3 atomi di ossigeno legati fra loro che si trova molto concentrata in un particolare livello dell’atmosfera, tant’è che si parla di strato di ozono, che sarebbe una specie di pellicola che scherma il nostro pianeta ed è fondamentale per la vita sulla terra perché ci protegge dai raggi ultravioletti del Sole. 

L’esistenza dello strato di ozono è stata scoperta sulla fine degli anni Settanta, e il fatto che questo strato si stesse assottigliando è stato notato a metà degli anni ottanta. Assottigliamento che si faceva particolarmente preoccupante all’altezza dei due poli, dove lo strato era così sottile da essere quasi un buco, da qui buco dell’ozono appunto. Da lì si scoprì che il principale motivo di questo assottigliamento erano alcuni gas contenenti fluoro che venivano usati, e quindi rilasciati in atmosfera, in alcuni dispositivi per il raffreddamento come frigoriferi, freezer, condizionatori e così via. 

Nell’87 venne firmato il protocollo di Montreal in cui le nazioni si impegnano a smettere di usare questi gas. Da allora il buco dell’ozono è diminuito, ma non si è mai chiuso definitivamente, e anzi in alcune circostanze è tornato ad aumentare. E guarda caso, queste circostanze corrispondono al verificarsi di grossi incendi. Da qui la ricerca del MIT che ha analizzato l’impatto dei grandi incendi in Australia del 2019 e 2020 sul buco dell’ozono, concludendo che la reazione chimica indotta dai roghi abbia assottigliato la colonna di ozono dell’1%. Che potrebbe sembrare un impatto limitato, ma non lo è: in pratica, l’evento australiano ha vanificato da solo tutti i benefici accumulati in ben 10 anni di stop globale ai gas che contribuiscono al buco dell’ozono. E incendi come quelli della stagione 2019-2020 in Australia diventeranno più frequenti, oltre che intensi, per via all’acuirsi della crisi climatica.

Ora, due considerazioni su questa scoperta. La prima è che siamo di fronte a un’ulteriore dimostrazione che non ha più senso – se mai lo ha avuto – ragionare su soluzioni sintomatiche quando parliamo di crisi ecologica. Perché le crisi vengono a grappoli, ed è impossibile affrontarle singolarmente perché ognuna è causa e conseguenza di ogni altra. E ogni soluzione che non preveda anche un profondo ripensamento del nostro stare al mondo come individui e come genere umano non è una soluzione. 

Anche perché, e questa è la seconda considerazione, che rafforza questa conclusione, ci preoccupiamo solo dei problemi che conosciamo. E conosciamo ancora abbastanza poco di come funzionano gli ecosistemi, nel dettaglio. Abbiamo scoperto l’esistenza di uno strato di ozono in atmosfera nel ‘79 e nell’85 abbiamo capito che lo stavamo distruggendo. Chissà quante altre cose stiamo letteralmente distruggendo senza nemmeno saperlo. 

POPOLAZIONI INDIGENE E BIODIVERSITA’

Per questo trovo interessante la proposta di Survival International in risposta al piano 30×30 delle Nazioni Unite, a cui GreenMe dedica un approfondimento. Ne parlavamo anche tempo fa, ma un ripassino non fa mai male. Per proteggere la biodiversità l’Onu sta pianificando di trasformare il 30% del Pianeta in aree protette entro il 2030 (da qui il nome di Piano 30×30). L’obiettivo sarebbe quello di consentire agli ecosistemi di rigenerarsi e trovare un nuovo equilibrio entro il 2050. 

L’ipotesi in sé avrebbe anche un suo senso, se davvero queste aree fossero lasciate alla natura. Il problema è che – riporta Survival – spesso le aree protette, soprattutto nelle aree più povere del mondo, sono diventate una scusa per accaparrarsi terre indigene, trasformarle in riserve o parchi nazionali molto remunerativi e militarizzati in cui sfratti, e in alcuni casi persino omicidi, torture e stupri sono all’ordine del giorno.

E questo non fa bene a nessuno, men che meno agli ecosistemi, visto che ormai numerosi studi mostrano come siano proprio le popolazioni indigene i migliori custodi della biodiversità. Di gran lunga. I popoli indigeni costituiscono circa il 6% della popolazione mondiale, eppure l’80% dei luoghi a più alta biodiversità della Terra si trova nei loro territori. 

Perciò Survival International ha lanciato una campagna per fermare la proposta dell’Onu, se vi interessa vi lascio il link per aderire qua in fondo.

Credo che sullo stare in equilibrio con gli ecosistemi le popolazioni indigene abbiano molto da insegnarci, sarebbe buona cosa lasciare il più possibile a loro la gestione delle foreste (che loro non considerano una gestione, ovviamente), mettere da parte le nostre classiche manie del controllo e il pensare di dover “gestire” qualsiasi cosa, e anzi prendere spunto dalle loro culture per modificare le nostre.

INCONTRO XR-CINGOLANI

Torniamo invece alle nostre latitudini. Prima notizia di servizio, l’incontro di XR con il ministro Cingolani è stato spostato ad oggi – doveva essere ieri – per gli impegni del ministro a Bruxelles collegati alla crisi in Ucraina. Io parteciperò come giornalista e domani mattina su Italia che Cambia troverete un resoconto dell’accaduto. 

BIDEN, DISCORSO SULLO STATO DELL’UNIONE

Intanto martedì 1 marzo, due giorni fa, Biden ha tenuto il suo primo discorso da Presidente sullo Stato dell’Unione, una consuetudine simile al discorso di fine anno del Presidente della Repubblica. Dal suo insediamento nel gennaio del 2021, Biden aveva già tenuto un discorso al Parlamento riunito, ad aprile, ma tecnicamente non era un discorso sullo stato dell’Unione, visto che di norma il presidente degli Stati Uniti non ne tiene uno nel primo anno del suo mandato.

Gran parte del discorso, durato circa un’ora, è stata dedicata all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ha parlato di Covid, del Rescue plan americano, e fra le altre cose ha parlato anche di clima e transizione ecologica.

Anche perché il discorso cadeva il giorno dopo la pubblicazione dell’ultimo report dell’Ipcc. Solo che ne ha parlato in modo molto prudente e timido, poco convinto, rispetto alle promesse della campagna elettorale, in cui aveva sostenuto che avrebbe speso più di quanto qualsiasi altro Paese abbia mai fatto per l’energia pulita.

Ha ridetto che che affrontare il cambiamento climatico è un’opportunità per creare posti di lavoro ben pagati nel settore delle energie rinnovabili e della produzione e per mettere in condizione gli Usa di competere con la Cina. Si è impegnato a costruire 500.000 stazioni di ricarica per veicoli elettrici e a sostituire i tubi di piombo degli acquedotti con  4.000 progetti infrastrutturali che sono già in corso. E ha promesso che inizierà «Riparare oltre 65.000 miglia di autostrada e 1.500 ponti in rovina. Stop. Un po’ poco.

Nel frattempo il Regno unito introduce una nuova legge sugli imballaggi in plastica. A partire dal prossimo 1 aprile sarà introdotta una “Plastic packaging tax” rivolta ai produttori inglesi e agli importatori. In pratica ci sarò una tassa di 200 sterline per tonnellata sugli imballaggi in plastica che non contengono almeno il 30% di plastica riciclata, da applicarsi a coloro che producono o importano più di 10 tonnellate di imballaggi all’anno.

Lo scopo è quello di incoraggiare l’utilizzo di plastica riciclata nel settore del packaging, visto che in Inghilterra, come in mezzo mondo, non sanno più che farsene della plastica differenziata, soprattutto da quando ormai 3 anni e mezzo fa la Cina ha smesso di importarla. 

Solo che, come direbbero gli inglesi, è un po’ “too little too late”, la tassa mi sembra bassa per poter essere un incentivo importante, e l’obiettivo, quello di aumentare l’utilizzo della plastica riciclata, ha un suo senso, ma solo se inserito all’interno di una più complessiva strategia di netta riduzione degli imballaggi. Altrimenti rischia di essere uno sforzo vano.

FONTI E ARTICOLI:

#ozono
Rinnovabili.it – I mega incendi alimentano il buco dell’ozono, la scoperta del MIT 

#indigeni
GreenMe – Il modo migliore per proteggere il Pianeta è salvare gli indigeni che difendono le terre ancestrali
Survival International – https://mailchi.mp/survival/cara-umanita-ferma-il-30×30

#Biden
GreenReport – Primo discorso sullo stato dell’Unione di Biden: piano energetico per combattere cambiamenti climatici e inflazione
il Post – Il primo discorso sullo stato dell’Unione di Biden

#plastic tax
GreenMe – La tassa sulla plastica del Regno Unito sta per arrivare, milioni di persone coinvolte dal cambiamento

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