19 Mar 2024

Meteo estremo, dalla Sicilia al Brasile: dobbiamo rivedere i modelli climatici? – #898

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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La siccità in Sicilia si aggrava, mentre in Brasile si sperimentano temperature molto alte di oltre 40 gradi, ma percepiti 62. Questi episodi meteo estremi sono ovviamente parte del macrofenomeno del cambiamento climatico, ma gli scienziati stanno discutendo se siano spiegabili con i modelli attuali  o se dovremmo addirittura cambiare i modelli climatici. Parliamo anche delle barriere coralline ripristinate artificialmente che sembrano attaccare più facilmente del previsto e della resistenza in Sardegna contro la costruzione di un cavo sottomarino, che ci fa riflettere sulle complicanze della transizione energetica. 

Tocca che torniamo a parlare di meteo e di clima. Perché ci sono due notizie sui giornali di ieri e di oggi abbastanza grosse, che riguardano un’ondata di caldo anomala in Brasile e l’aggravarsi della siccità in Sicilia. Quindi episodi di meteo estremo, diciamo. E poi c’è un dibattito scientifico molto fitto sul fatto se queste ondate di caldo record e questo continuo infrangersi di record è indice di un ulteriore peggioramento della crisi climatica anche rispetto alle previsioni, oppure se è diciamo assimilabile a quelle previsioni.

Partiamo comunque dalla cronaca, e dalla notizia più vicina. Ieri il Post ha pubblicato un articolo dal titolo “In Sicilia la siccità è sempre più grave” in cui descrive una situazione a dir poco preoccupante. Se ricordate, il 31 dicembre scorso è stato dichiarato lo stato d’emergenza in ben in sei delle province siciliane, ovvero Agrigento, Caltanissetta, Enna, Messina, Palermo e Trapani. Situazione che ha reso necessario, da alcune settimane, il razionamento dell’acqua potabile in queste aree.

Da diverse settimane circa un milione di persone nell’isola ha acqua razionata, non nel senso che ce l’ha solo in alcune ore del giorno, ma nel senso che ha una portata limitata fino al 45%.

Il problema è che continua a non piovere, e la mancanza di pioggia ha impatti sempre più drastici sulle risorse idriche della Sicilia: i laghi artificiali sono vuoti, molti fiumi sono asciutti, e gli agricoltori non sono in grado di irrigare adeguatamente i campi. 

Il paradosso è che le precipitazioni del 2023 sono state sì scarse, ma non così tanto sotto la media, e hanno raggiunto quasi i 600 millimetri. Solo che si sono concentrate in pochi eventi estremi, anzi in soli due eventi estremi, fra l’altro concentrati nella prima metà dell’anno, mentre per il resto non ha praticamente mai piovuto.  Eventi estremi che hano lasciato le risorse idriche naturali e artificiali non ricaricate adeguatamente e hanno anche causato problemi alle infrastrutture esistenti, come dighe e bacini, contribuendo a limitarne la capacità a causa dell’accumulo di fango. Questa situazione critica è evidenziata dalla condizione di alcuni invasi, come quello di Rosamarina di Caccamo, che ha raggiunto solo il 16% della sua capacità.

La risposta a lungo termine proposta include lo sviluppo di piccoli laghi destinati principalmente all’agricoltura e alla zootecnia, nonché il recupero di zone umide e laghi precedentemente bonificati. Queste soluzioni mirano a offrire un approccio più sostenibile alla gestione delle risorse idriche in risposta alla crescente frequenza di periodi di siccità.

Tuttavia, la sfida immediata rimane come affrontare l’emergenza attuale, con il razionamento dell’acqua che rappresenta una soluzione dura, soprattutto per gli agricoltori che sono costretti a fare i conti con la riduzione dell’acqua disponibile per l’irrigazione. Questa situazione ha anche causato tensioni tra i produttori agricoli, in particolare quelli di arance rosse IGP, che si trovano a dover pagare per le migliorie alle opere irrigue in un momento in cui l’acqua è scarsa e preziosa.

In definitiva, la siccità in Sicilia evidenzia la necessità di strategie adattive e proattive per la gestione delle risorse idriche, in un contesto in cui gli eventi climatici estremi diventano sempre più frequenti e intensi.

Intanto in Brasile fa un po’ caldo. Ma giusto un filino eh. Vi lascio sotto fonti e articoli qualche foto gallery, una presa da Al Jazeera molto completa e suggestiva, dove si vedono le spiagge di Rio de Janeiro prese d’assalto perché c’è una temperatura percepitra di – reggetevi forte – 62,3°C.

Un’ondata di calore che sta soffocando il Brasile ha stabilito nuovi record, con l’indice di calore di Rio de Janeiro che ha raggiunto i 62,3 gradi Celsius (144,1 gradi Fahrenheit), il più alto in un decennio, secondo le autorità meteorologiche.

Ora, parliamo di caldo percepito, intendiamoci, quindi un indice che abbina la temperatura ad altri fattori come la siccità. La massima reale è stata di 42 gradi. E qui devo dire che molti giornali, sia italiani che esteri, hanno sbattuto la temperatura percepita nel titolo in maniera un po’ avventata,m creando una sensazione di allarme anche maggiore di quello reale. 

Che non toglie che sia una situazione estrema, almeno per chi sta vivendo questa temperatura che segna un record assoluto in termini di percezione, da quando la temperatiura percepita viene misurata, ovvero da circa un decennio. 

Nel frattempo, la parte sud del paese sta affrontando un problema diverso: piogge estreme stavano creando scompiglio e si prevede che continueranno la prossima settimana che, leggo su Al Jazeera, “sarà di altissimo rischio nel centro-sud del Brasile a causa di piogge intense e tempeste. Il sistema più preoccupante è un fronte freddo molto intenso che arriverà con piogge torrenziali e possibili raffiche di vento,”. Staremo a vedere.

Come vi dicevo queste notizie hanno spinto i climatologi a interrogarsi se dobbiamo forse rivedere i modelli climatici per adattarli a quella che sembra un po‘ un’accelerata della crisi climatica. Perché se il 2023 è andato maluccio, il 2024 è iniziato… peggio.

Leggo dal Guardian, articolo a firma di Jonathan Watts and Tural Ahmedzade, che “Nonostante un indebolimento del fenomeno de El Niño, che è stato uno dei principali motori delle temperature globali record dell’ultimo anno, il calore sopra gli oceani rimane insolitamente alto.

All’inizio di questo mese, l’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha annunciato che El Niño, ovvero quel sistema di correnti oceaniche che quando sono attive riscaldano il clima terrestre, aveva raggiunto il suo picco e che c’era l’80% di possibilità che scomparisse completamente tra aprile e giugno.

Ma il nino da solo non sembra sufficiente a spiegare la temperatura record della superficie del mare a gennaio 2024, di gran lunga la più alta mai registrata in questo periodo. E anche a febbraio, nonostante l’indebolimento del nino, le temperature della superficie del mare sono state anche più calde di qualsiasi altro mese nella storia, battendo il record stabilito lo scorso agosto.

Anche sulla terraferma il caldo ha battuto pesante. A livello mondiale, tra l’8 e l’11 febbraio, le temperature globali sono state superiori di più di 2°C alla media del periodo 1850-1900. Durante l’intero mese, l’Europa ha sperimentato un calore di 3,3°C sopra quel punto di riferimento.

E gli scienziati sono divisi riguardo a queste temperature straordinarie, soprattutto di quelle oceaniche. Secondo alcuni le tendenze attuali rientrano nelle proiezioni dei modelli climatici, e sono diciamo anomalie che possono ancora essere considerate parte di una normale oscillazione. Altri invece sono perplessi e preoccupati per la velocità del cambiamento dato che gli oceani sono il grande moderatore di calore della Terra e assorbono più del 90% del calore causato dal riscaldamento globale.

Carlos Nobre, uno dei climatologi più influenti del Brasile, ha detto che nessun modello climatico aveva previsto quanto alte sarebbero state le temperature della superficie del mare negli ultimi 12 mesi. E che il perdurare del calore estremo sopra il mare fa pensare che anche il 2024 sarà probabilmente un altro anno insolitamente caldo per il mondo intero.

L’anomalia più forte sembra essere nell’Atlantico Nord, dove Brian McNoldy, un altro climatologo, ha calcolato che la deviazione dalle medie statistiche è quella di un evento che si verifica una volta ogni 284.000 anni.  QUI

Secondo altri invece, come Zeke Hausfather, scienziato presso Berkeley Earth negli Stati Uniti, le temperature globali del mare e della superficie terrestre sarebbero sì “abbastanza alte” ma ancora ben entro le proiezioni dei modelli climatici. Ha detto: “Non abbiamo ancora prove forti dalle osservazioni che suggeriscono che il mondo si stia riscaldando più velocemente di quanto previsto dato le emissioni umane.”

Quindi ecco, restiamo col punto di domanda in fronte. Al netto di ciò, quello su cui gli scienziati concordano è che dobbiamo darci una mossa. Che detta così suona facile, mentre è tutt’altro che facile eh. Non è che decarbonizzare l’economia mondiale sia un giochetto da ragazzi. Anche perché quasi sicuramente sarà necessario uscire da un sistema basato sulla crescita economica, sulla competizione, sul mercato libero, e sono i pilastri su cui abbiamo sviluppato le nostre società negli ultimi 200 anni. Insomma, è probabilmente una delle cose più difficili di sempre, ma tocca farla e farla in fretta. Tocca smettere di bruciare qualsiasi cosa. Senza rimandare, senza scuse.

L’articolo deò Guardian a un certo punto citava i coralli come una delle principali vittime del riscaldamento dei mari. Sappiamo infatti che i fenomeni di sbiancamento, temporanei o duraturi, dei coralli, sono associati a temperature dell’acqua più elevate della media e probabilmente a fenomeni come l’acidificazione degli ocreani, sempre dovuta a un eccesso di CO2 immagazzinata. E questo a sua volta crea enormi problemi all’intero ecosistema, con un’enorme varietà di specie che perderebbero il loro habitat naturale e un aumento di eventi climatici estremi causato dall’assenza di quelle che sono vere e proprie barriere contro la forza delle onde. 

Su Focus però c’è un articolo che apre a una interessante novità su questo fronte, una buona notizia sui nostri tentativi di salvare i coralli: un nuovo studio pubblicato su Current Biology afferma che le barriere coralline ripristinate artificialmente “attaccano” molto in fretta, e crescono altrettanto rapidamente. C’è quindi una nuova speranza di salvarle, e anche in tempi brevi.

Lo studio è stato condotto su una barriera corallina in Indonesia, che trent’anni fa circa è stata in gran parte distrutta a causa delle tecniche di pesca che prevedevano l’uso di esplosivi. La barriera non è mai riuscita a riprendersi dai danni: gli innumerevoli frammenti di sabbia e coralli morti sono instabili, e generano piccole valanghe e altri “smottamenti” che uccidono le larve di corallo e impediscono loro di crescere e rigenerare l’ambiente. La tecnica ha previsto quindi la messa in sicurezza di questi campi di detriti, usando reti di ferro per bloccare il substrato; su queste reti sono stati poi innestati i nuovi coralli, e lasciati liberi di attecchire e crescere.

Il risultato di questo esperimento è andato oltre le più rosee previsioni degli autori: nel giro di appena quattro anni, il budget di carbonio della barriera (la differenza tra i nuovi coralli prodotti e quelli consumati da pesci, ricci di mare e altre creature) è triplicato, e ha raggiunto i livelli dei reef in buona salute. C’è un caveat: i coralli usati per la rigenerazione delle barriere hanno tutti la classica forma ramificata, molto diffusa ma diversa da quella che avevano molti coralli originari della zona. Non sappiamo ancora come questo cambiamento “architettonico” possa influenzare la struttura dell’ecosistema, né come le specie locali reagiranno. Per ora, comunque, una barriera in salute è comunque meglio di una senza vita.

Dicevamo prima che fare la transizione energetica è un casino. Non dicevo per dire. Ieri su Sardegna che Cambia abbiamo pubblicato un’intervista molto interessante agli attivisti/e del presidio Sa Barracca, che è letteralmente una baracca attorno alla quale si sono radunate tutte le persone che avrebbero visto terreni agricoli espropriati per lasciare spazio al progetto Tyrrhenian Link.

Tyrrhenian Link sarebbe un cavo sottomarino ad alta tensione, progettato da Terna, che collegherebbe Sardegna e Sicilia e che impegnerebbe 17 ettari di territorio attualmente dedicato a orticoltura, apicoltura, viticoltura, ma anche libero spazio naturale. E contro il quale un gruppo di proprietari si oppone e non vuole vendere.

Allora: innanzitutto vi invito a leggere l’intervista, realizzata da Lisa Ferreli, perché è molto interessante, comunque la pensiate. Devo dire che personalmente ho una visione un po’ diversa da quella che emerge dal pezzo, ma che forse proprio per questo ho trovato il contenuto interessante.

I cavi sottomarini sono una delle tante infrastrutture necessarie per fare la transizione energetica. Non è pensabile di realizzare tutta l’energia di cui abbiamo bisogno solo grazie a rinnovabili di piccola scala e locali. Che sono sicuramente la base, la cosa migliore, più bella, più equa possibile. Ma non bastano. Inevitabilmente, anche in un’ottica di decrescita dei consumi energetici, una fetta consistente di elettricità andrà prodotta su larga scala e trasportata da una regione all’altra così come da uno stato all’altro, per ottimizzare e redistribuire le differenze di produzione.

Il problema qui è di nuovo un problema di potere o se volete di democrazia. Nel senso che una regione come la Sardegna è da sempre vessata e sfruttata, colonizzata per interessi altrui, che siano energetici, militari e così via. Quindi capisco che non siano felicissimi di vedere le stesse dinamiche replicate, anche se in chiave ecologica. Il punto è: possiamo costruire delle decisioni insieme, che tengano conto delle esigenze locali e di quelle nazionali (e globali)? Possiamo provare a mettere delle “e” al posto delle “o”? Perché ogni volta che le persone vengono coinvolte nelle decisioni, se si usano sistemi democratici avanzati che vadano oltre i meccanismi di maggioranza e minoranza, si vedono succedere cose sorprendenti. So che sembra di perdere tempo, ma a volte il tempo perso è tempo guadagnato. 

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