13 Feb 2023

Meloni, Macron, Zelensky: crisi in Europa – #667

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Come al solito sono successe parecchie cose in questi ultimi giorni, di parziale assenza di INMR. Dal tremendo terremoto in Siria e Turchia, ai problemi in Europa della premier Giorgia Meloni, alle elezioni regionali, ai primi risultati di Lula nella preservazione dell’Amazzonia e delle popolazioni indigene, alla tutela della barriera corallina australiana. E ancora a Sanremo, al caso Cospito… Sì, lo avete capito, sarà la classica puntata minestrone

Facciamo come al solito va bene? Facciamo che dopo un po’ che non ci vediamo provo a farvi un riassunto parziale e approssimativo delle cose più importanti successe in questo periodo, al netto di quello che vi ha già raccontato il mio collega, nonché caporedattore, Francesco Bevilacqua che ringrazio per avermi sostituito in questi giorni di assenza. 

Partiamo dalla questione che assieme al terremoti in Siria e Turchia ha tenuto banco nel fine settimana sui giornali italiani. Mi riferisco ai grattacapi internazionali della nostra premier Giorgia Meloni e al suo incontro/scontro con il Presidente francese Emmanuel Macron. 

La cornice istituzionale è quella di un Consiglio europeo stravolto dall’arrivo inaspettato di Zelenski, che prima è stato invitato da Macron a Parigi, a cena, all’Eliseo, in un incontro informale a cui ha partecipato anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz, e poi si è presentato appunto al Consiglio europeo per chiedere sostegno incondizionato e nuove armi ai leader dei paesi membri, riuniti. In quell’occasione, Meloni avrebbe definito “inopportuno” l’atteggiamento di Macron, in quanto questo suo prendere delle iniziative personali minerebbe la coesione europea su un tema delicato come quello della guerra in Ucraina. 

Macron si è difeso a sua volta attaccando la Premier italiana, e a quel punto si è scatenato una sorta di teatrino mediatico in cui ognuno ha giocato al suo gioco, coltivato i suoi interessi e nel complesso i confini di questa faccenda sono stati ingigantiti. Repubblica ha scritto che Meloni è completamente isolata in Europa, Libero ha detto che Macron avrebbe avuto delle gelosie e dei rancori personali verso Meloni, e così via. 

Tutto questo fa passare in secondo piano gli obiettivi del vertice. Vi leggo cosa scrive Marco Galluzzo sul Corriere della Sera: “Una scelta che inevitabilmente lascia sullo sfondo le materie e i dettagli del vertice, la partita italiana sugli aiuti di Stato alle aziende europee e i passi avanti possibili sul dossier migranti. Tutto retrocede di un passo rispetto alla presenza di Zelensky e all’incontro che Meloni stessa ha annunciato la sera prima con il presidente ucraino. In un primo tempo appare slittato, così come i bilaterali di tutti gli altri leader europei. La presidente del Consiglio incontra il capo della resistenza contro la Russia insieme ai leader di Spagna, Svezia, Romania, Olanda, Polonia e Svezia. All’incontro arriva in leggero ritardo, insieme al premier olandese Mark Rutte.

Subito dopo però è lo staff di Palazzo Chigi a comunicare che si è svolto anche un faccia a faccia con Zelensky, richiesto dallo stesso presidente ucraino. Quindici minuti di colloquio, secondo fonti italiane. I due leader vengono ripresi dalla telecamere mentre parlano in piedi, appoggiati al grande tavolo del vertice a 27. Si discute della prossima visita a Kiev di Meloni, forse anche della necessaria autorizzazione italiana (oltre a quella di altri Stati) per far arrivare in Ucraina i caccia promessi da Londra. Sistemi di difesa e armi che hanno componenti di tecnologia che necessitano del via libera di un gruppo di Paesi diversi”.

Restiamo in tema di politica interna. Forse non ve ne sarete accorti, ma Ieri e oggi si vota per rinnovare il Consiglio regionale ed eleggere il nuovo presidente di Lazio e Lombardia. Dico ce magari non ve ne siete accorti perché i giornali ne hanno parlato e ne stanno parlando poco o niente, per vari motivi.

Un primo motivo è che ci sono oggettivamente tante altre cose di cui parlare, fra il terremoto, la guerra e la situazione geopolitica internazionale, Sanremo e chi più ne ha più ne metta. La presenza di altre notizie però da sola non giustifica un disinteresse anomalo verso le elezioni per i giornali italiani, che sono molto politicizzati, spesso partitici, e quindi tendono a dare un valore smisurato alle elezioni. 

Il secondo motivo, allora, forse il principale, è che queste elezioni sono considerate poco significative a livello nazionale, e anche un po‘ scomode. Poco significative perché arrivano a pochi mesi dall’entrata in carica del nuovo governo, che sembra godere di consensi ancora alti e comunque è passato troppo poco tempo perché le si possano considerare un banco di prova. Scomode per l’opposizione, che ci arriva con le idee abbastanza confuse (Pd e M5S corrono insieme in Lombardia, dove hanno pochissime possibilità di vincere, e separati nel lazio, dove invece un’alleanza avrebbe potuto portarli al governo, mentre il terzo Polo appoggia una candidata storicamente di destra, Letizia Moratti, in Lombardia, e uno storicamente di centrosinistra, Alessio D’Amato, nel Lazio, insomma un gran casino).

Ma scomode anche per la maggioranza, con FdI che rischia di fare nuovamente l’ein plein, andando a sparigliare le carte soprattutto in Lombardia, da sempre feudo leghista.  

Ad ogni modo, ne sapremo di più oggi in tarda serata, e domattina potremo commentare insieme i risultati per cui non mi soffermo oltre.

Torniamo a parlare del tragico terremoto che ha scosso la terra e le anime in Siria e Turchia. Il bilancio delle vittime continua a peggiorare giorno dopo giorno, mentre diventano più flebili le speranze di trovare persone ancora in vita. Nel momento in cui registro questa puntata parliamo di circa 30mila vittime, ma secondo il coordinatore dei soccorsi delle Nazioni Unite Martin Griffiths, intervistato sabato da Sky News, possiamo aspettarci altre decine di migliaia di morti via via che si continua a scavare fra le macerie.

Tuttavia, come ci ha ricordato il nostro caporedattore Francesco Bevilacqua, non di soli freddi numeri sono fatte le tragedie. All’inizio, quando si parlava di duemila morti, ricordo di aver pensato, “accidenti, duemila morti”. Poi quei duemila morti sono diventati 5-10-20-30mila. E la mia considerazione, puramente emotiva, continua ad essere “accidenti, 30mila morti”. Il nostro cervello fa molta fatica a figurarsi numeri così alti, e per noi che ascoltiamo la sensazione è sempre la stessa, che si tratti di 2000 o 30mila morti. Più che i numeri, a rimanerci impressi sono piuttosto le immagini, terribili, di quelle persone sepolte da cumuli di macerie che si estendono per 200 kilometri. E quelle al contrario colme di speranza di chi viene estratto vivo, quando in molti avevano perso la speranza. 

Forse però qualche altro numero è corretto darlo, perché ci aiuta a capire la differenza nella situazione della Siria e quella della Turchia. Come scrive Simone Santi su Lifegate. “Mentre in Turchia arrivano copiosi gli aiuti alimentari, monetari e squadre di soccorso sono arrivate nell’immediatezza da ben 18 paesi, compresa l’Italia, in Siria la situazione è ben diversa: a pesare è soprattutto l’embargo finanziario a cui Stati Uniti ed Unione Europea hanno sottoposto il regime di Damasco di Bashar al-Assad.

Solamente oggi [ieri], accogliendo le richieste proveniente dalla società civile di tutto il mondo, il dipartimento del Tesoro degli Usa ha sospeso per 6 mesi le sanzioni, per consentire il passaggio dei soccorsi, destinando aiuti per 85 milioni di dollari tra Turchia e Siria. 

Il World food program, l’agenzia Onu per la sicurezza alimentare, ha annunciato finora la consegna di una prima parte di aiuti alimentari in Siria, per 43 mila persone. Ma nella stessa nota il Wfp parla però di 285 mila nuovi sfollati, proprio a distinguere con quelli pre-esistenti: in pratica, dopo 5 giorni sono stati raggiunti dagli aiuti più o meno il 20 per cento di coloro che ne avrebbero davvero bisogno.

L’unico aspetto positivo in questo drama, per i siriani, è che il sisma ha fatto crollare parzialmente alcune dighe che la Turchia aveva costruito sul Grande Khabur, il fiume che nasce nella Turchia sudorientale, per poi proseguire attraverso la Siria fino a congiungersi con l’Eufrate. Dighe che negli ultimi anni impedivano a buona parte delle sue acque di scorrere fino in Siria, dove del fiume era rimasto solo il letto, vuoto. Il tremendo terremoto ha distrutto alcune di queste dighe e l’acqua è tornata a scorrere, per la prima volta dal 2015.

Ad ogni modo, anche in Turchia la situazione è decisamente drammatica e il panico generato dal sisma sta causando tensioni sociali e politiche. Scrive il Post: “Sabato due organizzazioni tedesche che si occupano di soccorso in situazioni di emergenza e che stavano lavorando nella regione di Hatay, una delle zone del sud-est della Turchia, hanno interrotto le proprie attività per problemi di sicurezza: hanno spiegato che ci sono stati scontri violenti tra diversi gruppi di persone, durante i quali sono anche stati sparati colpi d’arma da fuoco, e ora stanno aspettando che la Protezione civile turca dia loro il via libera per riprendere le ricerche tra le macerie in sicurezza.

«Il cibo sta finendo, l’acqua sta finendo e le persone sono in giro a cercarli», ha detto all’agenzia di stampa Reuters Steven Bayer, direttore delle operazioni di German International Search and Rescue, per spiegare le ragioni delle tensioni tra la popolazione: «E poi la speranza sta pian piano svanendo, e si sta anche trasformando in rabbia». 

In tutto ciò, una delle domande che probabilmente ci continuiamo a chiedere in queste ore è: cosa possiamo fare noi, da qui? Ecco su questo vi segnalo alcuni articoli interessanti, uno sempre del Post, uno de La Svolta. Scrive il Post: “organizzazioni umanitarie e benefiche da tutto il mondo si sono mobilitate per contribuire ai soccorsi e hanno avviato campagne di raccolta fondi dedicate all’emergenza. La Turchia ha cominciato a ricevere aiuti internazionali quasi immediatamente da molti paesi, mentre in Siria la situazione è molto più complicata per via della guerra civile che ha devastato il paese negli ultimi anni”.

Una delle organizzazioni più attive è senza dubbio Medici Senza Frontiere (MSF), che a sua volta collabora con la Croce Rossa turca Türk Kizilay, il cui account Twitter in lingua inglese di ha diffuso gli estremi per fare donazioni via bonifico.

Medici Senza Frontiere sta collaborando anche con International Blue Crescent (IBC), un’ong con sede a Istanbul, partner dell’UNHCR (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati) e a sua volta coordinata dalla Croce Rossa turca, che in questi giorni si è mobilitata interamente per l’emergenza causata dal terremoto. Non si occupa di cure mediche ma ha avviato una campagna di raccolta fondi sulla piattaforma GlobalGiving con l’obiettivo di raggiungere 92mila euro per rispondere soprattutto al bisogno di tende, riscaldamento, coperte, indumenti termici e cibi pronti per la popolazione sfollata. 

Interessante anche la riflessione finale dell’articolo: “Naturalmente in Turchia e Siria ci sono anche moltissime piccole organizzazioni che conoscono il territorio e che sono impegnate nell’emergenza tanto quanto quelle più grandi. Queste organizzazioni però sono solitamente anche meno controllate ed è più difficile verificarne l’operato. Il consiglio di chi si occupa di aiuti umanitari, in questi casi, è di fare un bilancio: se ci si fida o ci si affida a qualcuno che si conosce, infatti, donare a una piccola associazione può avere un impatto maggiore e più capillare che non donare alle grandi ong che ricevono già grandi somme di denaro per via della loro visibilità”.

La deforestazione in Amazzonia a gennaio di quest’anno è diminuita del 61% rispetto allo stesso periodo del 2022: è quanto emerge dai dati forniti da Deter, un sistema dell’Istituto nazionale per le ricerche spaziali (Inpe), che diffonde in tempo reale informazioni per combattere il disboscamento.

Il mese scorso sono stati disboscati 167 km quadrati, rispetto ai 430 km quadrati del 2022. C’è stato inoltre un calo anche rispetto a dicembre 2022, che ha registrato 229 km quadrati disboscati.

Sempre in Brasile, secondo quanto riporta La nuova ecologia, citando un comunicato si Survival International, sarebbe partita una vasta operazione coordinata delle autorità per rimuovere migliaia di cercatori d’oro illegali dal territorio Yanomami, nel nord del Paese. 

“A causa delle devastazioni commesse negli ultimi anni dai minatori, su incoraggiamento dell’ex presidente Bolsonaro, nel territorio Yanomami è stata provocata una catastrofica crisi sanitaria, definita “genocidio” dal neo presidente Lula. Centinaia di Yanomami, in particolare bambini, sono morti di malnutrizione e malattie prevenibili. Tra gli scempi compiuti dai minatori la creazione di migliaia di siti estrattivi sfregiano e la costruzione di piste aeree illegali e persino di una strada.

Durante il governo di Bolsonaro, nei confronti del quale la Polizia federale brasiliana ha aperto un’indagine per genocidio, il numero delle miniere nel territorio è aumentato vertiginosamente, con bande criminali che hanno preso il controllo di gran parte del mercato illegale dell’oro nell’area. I cercatori d’oro hanno raggiunto anche zone di foresta abitate dagli Yanomami incontattati”.

L’articolo si conclude con le parole di Sarah Shenker, direttrice di Survival International Brasile, che afferma: “Ora, oltre a espellere i minatori, serve un massicco intervento sanitario per contrastare la crisi. E per smantellare e consegnare alla giustizia le bande criminali che occupano l’area e hanno sparso il terrore nel territorio degli Yanomami, occorrerà una reale volontà politica. Questa operazione arriva appena in tempo. È vitale che le autorità caccino i minatori e li tengano fuori per sempre. Per troppo tempo hanno flagellato le vite degli Yanomami provocando miseria e distruzione indicibili. Anche se verranno espulsi e tenuti lontani, ci vorranno molti anni prima che gli Yanomami e la loro foresta si possano riprendere. E soprattutto, questo genocidio non dovrà mai più ripetersi. I territori indigeni del Brasile devono essere pienamente demarcati e protetti dalle invasioni. È l’unico modo per i popoli indigeni, gruppi incontattati compresi, di sopravvivere, prosperare e continuare a vivere a modo loro nelle loro terre, che sono tra le più biodiverse del pianeta.”

Ne approfitto per fare una parentesi perché sabato Lula è stato in visita alla Casa Bianca a incontrare Biden. I due sono stati per diverso tempo a colloquio, toccando molti punti centrali dell’attualità e mostrando diverse vicinanze ma anche diverse divergenze. Ora vi dico quali. Le vicinanze sono soprattutto un impegno congiunto per la protezione dell’Amazzonia, la lotta alla crisi climatica e la difesa della democrazia (perché Brasile e Usa sono stati vittima di due attacchi molto simili, quello dei trumpiani a Capitol Hill all’indomani della vittoria di Biden e quello dei bolsonaristi all’indomani della vittoria di Lula).

Ci sono però stati anche alcuni punti di frizione, in particolare legati alla situazione geopolitica e alla guerra in Ucraina. Come scrive Giuseppe Baselice su First online: “sul tema Lula ha da sempre tenuto una posizione ambigua, opponendosi all’invio di armi per sostenere la resistenza ucraina e dichiarandosi anche contrario alle sanzioni contro la Russia. Il presidente brasiliano ha persino l’intenzione di farsi promotore di un “club della pace”, un forum di Paesi neutrali che includa Cina, India e Turchia, e dopo averlo confessato a Biden ne parlerà anche di persona con Xi Jinping, in occasione della visita a Pechino in programma a marzo. A Brasilia l’opinione prevalente è che coinvolgere nei negoziati la Cina, che è di gran lunga il primo partner commerciale del Brasile (vale il 27% dell’export), sia semplicemente inevitabile.  

Biden su questo è sempre stato freddino ed è dalla prima ora un fautore del sostegno incondizionato a Kiev, a difesa dei confini della Nato. E anzi avrebbe chiesto al suo omologo latinoamericano di fornire munizioni per i carrarmati mandati in Ucraina dalla Germania. Richiesta respinta, così come l’aveva respinta il predecessore Bolsonaro: i fertilizzanti russi sostentano il 30% del mercato agroalimentare brasiliano, ed è dunque meglio non mettersi contro Putin, considerando che tra i principali prodotti esportati dal Brasile ci sono soia (che è il primo), mais e carne bovina. Ma consapevole del fatto che gli Usa sono comunque il terzo partner commerciale dopo appunto Cina e Unione europea (11% dell’export, per 37 miliardi di dollari), Lula ha evitato lo strappo: le diplomazie hanno convenuto di non citare la discordanza nel comunicato stampa congiunto, limitandosi più genericamente a menzionare la stretta collaborazione tra i due Paesi sulle sfide globali. 

Una bella notizia ci arriva dall’Australia e ce la riporta l’Indipendente. L’Australia ha rifiutato di concedere l’autorizzazione alla costruzione, per conto del ricchissimo magnate minerario Clive Palmer, di una nuova miniera di carbone a cielo aperto, che si sarebbe trovata a meno di 10 km dalla Grande Barriera Corallina, sulla costa del Queensland e a circa 700 chilometri a nord-ovest di Brisbane. 

«Ho deciso che gli impatti ambientali negativi sarebbero stati troppo grandi, con rischio di inquinamento elevatissimo e danni irreversibili alla Barriera Corallina», ha detto in un video postato sui suoi social network Tanya Plibersek, Ministra dell’ambiente e dell’acqua, che già l’anno scorso aveva espresso la volontà di opporsi al progetto. «Per la prima volta un membro del Governo ha usato i propri poteri ai sensi delle leggi ambientali, per impedire la nascita di una miniera» che avrebbe distrutto un ecosistema già fortemente minacciato dai cambiamenti climatici.

Un po’ di notizie volanti, prima di chiudere. C’è stato il Festival di Sanremo, ha vinto Mengoni che nel ringraziare ha omaggiato le donne. Donne che però, hanno fatto notare in molti, hanno avuto un ruolo molto marginale, nonostante il talento messo in campo. Sono state gregarie nella conduzione, gregarie nella classifica finale, gregarie nell’organizzazione, direzione, nelle scelte del Festival della canzone italiana che è ancora molto molto maschile. E non bastano le scelte di apertura alla comunità Lgbtq+ a rendere tutta quella baracca meno maschilista. Come spiega in un editoriale la direttrice della Svolta Cristina Sivieri Tagliabue, si è trattato di una kermesse ancora profondamente dominata dagli uomini, che hanno scelto, con la benevolenza che solo chi ha il potere si può permettere, di far parlare anche altro.

Intanto La procura generale della Corte di Cassazione ha depositato una richiesta di annullare il regime di 41-bis per l’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame da quasi quattro mesi proprio per protestare contro il regime carcerario di massimo isolamento a cui è sottoposto. 

Sabato sera Cospito era stato trasferito dal centro clinico del carcere di Opera di Milano, dove era detenuto da fine gennaio, al reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale San Paolo di Milano per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Soltanto tre giorni fa il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, aveva respinto l’istanza di revoca del 41-bis che aveva presentato l’avvocato di Cospito, Flavio Rossi Albertini.

E tante altre cose.

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