18 Giu 2024

A sorpresa il Consiglio Ue approva la legge di ripristino della natura, governo italiano contrario – #951

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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La legge sul ripristino della natura è stata finalmente – e a sorpresa – approvata dal Consiglio Ue e si appresta ad entrare in vigore. Gli stati membri saranno obbligati non solo a proteggere ma a ripristinare alcuni ecosistemi chiave. Vediamo come e cosa questo comporta. Parliamo anche di Netanyahu che ha sciolto il gabinetto di guerra e della rivolta dell’esercito israeliano e infine di un bel reportage Usa sugli impatti devastanti della coltivazione degli avocado nello stato di Michoacàn, in Messico. 

Ieri è stata una giornata importante perché è arrivata finalmente – e anche abbastanza a sorpresa – la tanto attesa approvazione della Legge europea sul ripristino della Natura da parte del Consiglio dell’Ue. Va bene, ok, mi rendo conto che dall’incipit si capisce che sono un po’ schierato su questo tema, non riesco ad essere del tutto neutrale, ma pur con tutti i suoi limiti penso che sia una cosa importante. 

La legge era uno dei pilastri ancora mancanti del Green Deal, e rischiava di restare un po’ appesa al chiodo per via dell’opposizione di vari governi, fra cui il nostro. E visto che non si era arrivati a un ok definitivo prima del voto dell’8-9 giugno scorso in molti fra gli addetti ai lavori temevano per un dietrofront sull’iter della legge. E invece è arrivata 

Non so se ricordate che cos’è, nel caso vi faccio un breve riassunto. In pratica si tratta di una delle prime leggi al mondo che prova ad andare in maniera sistematica oltre il concetto di protezione e introduce il concetto di ripristino. Cioè: benissimo proteggere dall’azione umana gli ecosistemi che sono ancora più o meno in buono stato di salute. il problema è che abbiamo in Europa come in buona parte del mondo una serie di ecosistemi diciamo mezzi e mezzi, e altri decisamente degradati. Che vuol dire degradati? Vuol dire che non sono più in grado di svolgere le loro funzioni di supporto alla vita sulla Terra per come la conosciamo.

La legge europea sul ripristino della Natura dice quindi che dobbiamo impegnarci a ripristinare o migliorare le funzioni vitali di una serie di ecosistemi. Come? Imponendo agli stati membri d’introdurre entro il 2030 misure di ripristino degli ecosistemi sul 20 per cento delle aree terrestri e marine dell’Unione europea, definendo piani d’azione nazionali. Misure da applicare a ecosistemi diversi: terrestri, costieri e d’acqua dolce, forestali, agricoli e urbani, comprese le zone umide, le praterie, le foreste, i fiumi e i laghi e gli ecosistemi marini, con attenzioni particolari verso ecosistemi particolarmente fragili e essenziali come “le fanerogame marine (che sono delle foreste di piante marine, tipo la poseidonia) e i letti di spugne e coralli”. 

Per quanto riguarda gli habitat ritenuti in “cattive condizioni” gli Stati membri dovranno attuare misure per ripristinarne “almeno il 30% entro il 2030, almeno il 60% entro il 2040 e almeno il 90% entro il 2050”.

Non solo: nella Nature Restoration Law sono inclusi ad esempio sforzi per aiutare gli impollinatori entro il 2030, ma anche per ripristinare le torbiere e piantare alberi, oppure “per trasformare almeno 25.000 km di fiumi in fiumi a corso libero entro il 2030” con l’obiettivo di “rimuovere le barriere artificiali alla connettività delle acque superficiali”, o ancora per arrestare il declino delle api. 

Ogni stato dovrà ” presentare alla Commissione un proprio piano nazionale di ripristino, mostrando come raggiungerà gli obiettivi. E dovrà monitorare e riferire sui propri progressi, sulla base di indicatori di biodiversità a livello dell’Ue. Dopo l’entrata in vigore, ed entro il 2033 la Commissione esaminerà l’applicazione del regolamento e i suoi impatti sui settori agricolo, della pesca e forestale, “nonché i suoi effetti socio-economici più ampi”.

Come scrive Giacomo Talignani su Repubblica è “Un passo avanti storico per la natura d’Europa. La Nature Restoration Law è passata “a sorpresa” durante la riunione del Consiglio a Lussemburgo. Si tratta di un risultato per nulla scontato, che ambientalisti, scienziati, verdi e associazioni in difesa della natura aspettavano da tempo, ma che per mesi è stato ostaggio del tira e molla o dell’atteggiamento denigratorio di alcuni Paesi, fra cui soprattutto l’Italia, Svezia, Finlandia, Ungheria o Olanda che si opponevano al passaggio della legge temendo ripercussioni economiche per il mondo agricolo. 

Per questo, anche nell’ultimo voto, questi paesi si sono schierati contro l’approvazione. Una opposizione che finora non aveva permesso di oltrepassare il 65% dei consensi necessari per approvare la legge: grazie all’Austria però, che dopo una iniziale contrarietà ha cambiato posizione all’ultimo minuto, la legge ha ottenuto il 66% dei sì ed è passata. Il regolamento sarà ora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE ed entrerà in vigore tra poche settimane”.

La cosa interessante fra l’altro è che essendo un regolamento non dobbiamo aspettare le lunghe trafile delle leggi nazionali di recepimento, ma entra direttamente in vigore in tutti gli stati membri dell’Unione introducendo questi obiettivi vincolanti, che gli stati devono rispettare. Poi vabbé, sappiamo che se uno non vuole le cose trova il modo di non farle, perç ecco, è il massimo che si poteva ottenere. 

Certo, va detto che come hanno notato in molti, e come scrive sempre Talignani su Repubblica “Il testo finale esce comunque annacquato rispetto ad alcuni vincoli ipotizzati inizialmente, ad esempio garantendo  in casi “eccezionali” una sorta di freno alle politiche di tutela dei suoli, come appiglio per il settore agricolo e contentino per le proteste degli agricoltori”. Ma tant’è. 

Con tutti i suoi limiti, si tratta comunque di un risultato storico. Quello che ci tengo a sottolineare ancora una volta perché penso che sia importante, è che continuiamo spesso ad avere una visione della natura come qualcosa di cui prenderci cura perché siamo buoni e cari, ma guai se questa cosa danneggia i nostri sistemi economici e i nostri business. Senza accorgerci che i rapporti di forza sono esattamente all’opposto. Gli ecosistemi, questi ecosistemi, in questo particolarissimo equilibrio, sono il substrato che ci permette l’esistenza stessa di un economia. Quindi non è che distruggendoli tuteliamo l’economia. Distruggendoli distruggiamo l’economia, così come le nostre società Solo che essendoci dei e ritardi nel sistema, non lo capiamo subito.

Facciamo una breve parentesi sulla crisi a Gaza, per poi tornare a parlare di questioni più ambientali. C’è una novità importante, anche se attesa, ovvero che domenica sera il primo ministro israeliano Netanyahu ha deciso di sciogliere il gabinetto di guerra israeliano, l’organismo in cui vengono prese le decisioni strategiche sulla guerra nella Striscia di Gaza, composto da sei membri.

Come scrive il Post, “La notizia dello scioglimento era ampiamente attesa, dopo che il 9 giugno Benny Gantz, il principale oppositore di Netanyahu, aveva lasciato il gabinetto e il governo di unità nazionale formato dopo l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre. Gantz, che è stato capo di stato maggiore, aveva accusato Netanyahu in più occasioni di mettere i propri interessi personali e quelli del suo governo davanti alla sicurezza di Israele, e di non avere una strategia chiara sulla guerra che ha portato alla distruzione di gran parte della Striscia di Gaza e alla morte di oltre 37mila palestinesi (perlopiù civili, e molti dei quali bambini).

Gantz era uno dei tre membri con pieni poteri del gabinetto di guerra: gli altri erano Netanyahu stesso e il ministro della Difesa Yoav Gallant, che ha ripetutamente criticato il primo ministro nonostante appartengano allo stesso partito di destra, il Likud. Il gabinetto aveva altri tre membri, che però avevano solo il ruolo di consiglieri.

La decisione non sembra essere legata alle richieste del ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, e di quello della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, di essere inclusi nel gabinetto di guerra, divenute più insistenti dopo l’uscita di Benny Gantz. Smotrich e Ben-Gvir sono i principali esponenti dell’estrema destra nazionalista israeliana e hanno sempre sostenuto un atteggiamento che potremmo definire estremista, o fondamentalista, nei confronti della popolazione palestinese. Che in pratica consiste nello “sterminiamoli”.

Ma quindi che succede adesso? Lo ha sciolto per ricrearne un altro? Al momento pare di no Haaretz, uno dei principali giornali israeliani, ha scritto che le decisioni strategiche sulla guerra saranno prese dal gabinetto di sicurezza, un organo del governo israeliano che include diversi ministri e diversi osservatori, mentre quelle più sensibili saranno discusse da un organismo più piccolo, di cui oltre a Netanyahu faranno parte anche il ministro della Difesa Gallant, il ministro degli Affari strategici Ron Dermer, il capo del Consiglio per la Sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi e il leader del partito conservatore Shas, Aryeh Deri, che nel gabinetto di guerra aveva il ruolo di osservatore. 

Nella sostanza non dovrebbe cambiare granché. E aggiungo che forse Netanyahu non ha più nemmeno bisogno di un gabinetto di guerra perché non c’è più granché da distruggere a Gaza. Restano poco più che macerie.

L’altra notizia, questa direi più interessante, che arriva da Gaza è invece quella che l’esercito israeliano, le Idf, hanno deciso autonomamente di introdurre una tregua unilaterale di 11 ore lungo una strada principale per permettere l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza. 

E lo hanno fatto, non solo senza l’approvazione di Netanyahu e del gabinetto di guerra, ma in aperta opposizione a ogni ordine da parte del governo. Ufficialmente il governo di Tel Aviv era persino all’oscuro di questa decisione, tant’è che Netanyahu si è scagliato contro i capi dell’esercito definendo la cosa: “Una pausa inaccettabile. Il nostro è un Paese con un esercito, e non un esercito con un Paese”. 

Ma i vertici dell’Idf non sembrano per ora interessati a fare marcia indietro, sostenendo che sia stato lo stesso premier ad aver incaricato i militari di aumentare “in modo significativo” gli aiuti umanitari. Loro si sarebbero limitati a mettere in pratica gli ordini politici. Un clamoroso cortocircuito, quello tra governo e forze armate, che secondo Pietro Batacchi, direttore della Rivista italiana di difesa, potrebbe essere il segnale di una insofferenza dei vertici militari verso una guerra che si sta dilungando ben oltre il previsto.

LEggo dalle dichiarazioni di Batacchi a HuffPost: “Questo testa a testa è la dimostrazione plastica di quanto Israele sia un paese stanco, lacerato, scollato”. “Da l’idea di un paese ostaggio di quello che è il triumvirato di comando, il primo ministro Netanyahu, il ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir e il ministro delle Finanze, l’ultrasionista Bezalel Smotrich”. 

L’immagine che emerge dall’articolo del governo Netanyahu è quella di una leadership sempre più fragile. L’autonomia delle Idf – che per alcuni esponenti della maggioranza assomiglia più che altro ad un ammutinamento – va ad inserirsi in giornate per nulla facili per il premier israeliano. Ogni sabato, i manifestanti scendono in piazza da mesi contro il suo governo: ieri si è unito a loro l’ormai ex ministro Binyamin Ganz. Da questo weekend, però, le manifestazioni in diverse città del Paese sono diventate a cadenza quotidiana. 

Gli oppositori di Bibi hanno infatti annunciato domenica l’avvio della “settimana della resistenza”. L’obiettivo, afferma Eran Schwartz, uno dei leader della protesta, è quello di “restituire immediatamente il mandato al popolo e andare alle elezioni prima dell’anniversario del fallimento del 7 ottobre”. Fittissimo il programma della protesta: ieri si sono tenute manifestazioni ed eventi a livello nazionale, poi una grande protesta di fronte alla Knesset, il parlamento israeliano a Gerusalemme, e successivamente i manifestanti si sono spostati davanti alla residenza del primo ministro. 

Anche stasera ci sarà un altro raduno alla Knesset, mentre mercoledì si terrà una manifestazione anche nel Sud. Giovedì le proteste saranno davanti alle residenze di Netanyahu a Gerusalemme e Cesarea. Quindi ecco, l’attrito con le forze armate si inserisce in questo contesto già incandescente per il governo. Questa cosa potrebbe essere un duro colpo per il governo. Come conclude Batacchi: “Israele è una liberaldemocrazia di stampo occidentale. Ma è comunque una liberaldemocrazia di tipo militare. È uno Stato nato con la guerra e che ne ha combattute tante, per tutta la sua esistenza. L’elemento militare è fondante. Se l’Idf, a un certo punto, si stanca, è chiaro che Netanyahu dovrà prenderne atto”.

Su The Conversation è uscito un lungo articolo su come l’esportazione degli avocado dal Messico verso gli Usa stia esplodendo, e come questo abbia grosse ripercussioni ambientali in termini di deforestazione e consumo di acqua. Racconta la giornalista e ricercatrice Viridiana Hernández Fernández che dal 2001 al 2020, il consumo di questo frutto è triplicato negli Usa, raggiungendo oltre 8 libbre a persona all’anno. In media, il 90% degli avocado è coltivato nello stato di Michoacán, nel sud-ovest del Messico. 

Lo stato del Michoacán ha una grande popolazione indigena e un’economia basata su agricoltura, pesca e allevamento. Ma è anche l’unico luogo al mondo dove si coltivano avocado tutto l’anno, grazie al clima temperato, alle abbondanti piogge e ai terreni vulcanici ricchi di potassio. Tuttavia – come sottolinea la ricercatrice – le monocolture non sono mai sostenibili dal punto di vista ambientale e rendono l’ecosistema locale più vulnerabile alle infestazioni di parassiti, riducono le opzioni alimentari, impoveriscono i suoli fertili e aumentano l’uso di agrochimici.

Le monocolture possono anche provocare deforestazione. Si stima che la produzione di avocado abbia causato la deforestazione di 1.200-10.000 ettari di foreste all’anno dal 2010 al 2020. Inoltre, gli alberi di avocado consumano da quattro a cinque volte più acqua rispetto ai pini nativi di Michoacán, mettendo a rischio le risorse idriche destinate al consumo umano.

L’articolo poi spiega la storia di questo frutto, che sebbene faccia parte della dieta messicana fin dai tempi della Mesoamerica, in realtà nella sua varietà più ricercata, chiamata Hass, la più popolare al mondo oggi, nasce nella California moderna.

Infatti verso la fine del 1800-inizio 1900 gli scienziati del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) iniziarono a raccogliere e inviare campioni di piante alimentari da tutto il mondo negli Stati Uniti. Lo scopo era adattare e coltivare queste piante negli Stati Uniti, riducendo la necessità di importazioni alimentari. Nasce così la varietà Hass, che poi torna in Messico dove gli agricoltori iniziano a coltivarla negli anni 60’, inizialmente per il mercato interno. Essendo una varietà non nativa, si iniziano a usare agrochimici, i suoli iniziano a impoverirsi. 

Poi, dopo l’adozione del trattato di libero scambio NAFTA nel 1994, e complici tre anni di siccità in California, il Messico iniziò a spedire gli avocado Hass negli Stati Uniti nel 1997.

Oggi, gli avocado sono una delle esportazioni più regolamentate del Messico, ma queste regole fanno poco per affrontare gli impatti ambientali dell’industria. Gli agricoltori in Michoacán continuano a disboscare, utilizzare agrochimici, esaurire le falde acquifere e acquistare proprietà comuni dei popoli nativi, convertendole in piccoli lotti privati. I profitti in aumento hanno portato a violenza e corruzione, poiché alcune autorità locali collaborano con gruppi criminali organizzati per espandere il mercato.

Come scrive infine la ricercatrice, “Diversificare l’agricoltura nella regione e riforestare Michoacán potrebbe aiutare a ripristinare l’ecologia della Sierra Purhépecha e proteggere l’economia rurale. Ci sono alcuni esempi di successo: “Una comunità indigena sta coltivando con successo pesche e limoni per il mercato interno e avocado per il mercato internazionale, piantando anche pini nativi. Questo potrebbe essere un modello per altri agricoltori, sebbene sia difficile da replicare senza supporto statale”. E si tratta fin qui di un caso isolato.

In realtà, come spiega l’articolo, il problema non è tanto degli avocado, ma del mercato che ha abituato le persone, in tutto il mondo, a mangiare un’unica varietà di avocado. Mentre sarebbe utile iniziare a differenziare le qualità di avocado che mangiamo. Ora l’articolo parla del mercato americano e messicano, ma devo dire che un discorso simile si può fare per tanti alimenti anche qua da noi. Trovo interessanti approfondimenti come questi perché ci fanno comprendere come non basta adottare una dieta a base vegetale per garantirci la sostenibilità. Bisogna continuare a informarsi e sviluppare pensiero critico. E abituarsi a sperimentare varietà diverse di cibi, con curiosità e senza pregiudizi. Anche se non ci siamo abituati. 

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