5 Ago 2024

Le Olimpiadi delle polemiche – #672

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Olimpiadi e polemiche vanno da sempre molto d’accordo, ma quest’anno credo si sia battuto ogni record, fra titoli sessisti, atlete intersex e offese in diretta. E allora parliamone, non solo delle questioni ma anche di come i giornali ne hanno parlato, perché questo ci racconta molto del nostro paese e della salute dell’informazione nel nostro paese. Parliamo anche del grande scambio di prigionieri che ha coinvolto Usa Russia e altri paesi, della tensione fra Iran e Israele e della richiesta di estradizione del governo giapponese verso l’attivista Paul Watson che da sempre ha attaccato le baleniere. 

Non ci sono olimpiadi senza polemiche, si sa. A questo giro però il livello della polemica è davvero olimpico, roba da record del mondo. Si è iniziato pian piano, con i titoli dei giornali che hanno spolverato i classici titoli sessisti per festeggiare le vittorie delle atlete italiane. 

La medaglia d’oro con giudizio unanime se l’è assicurata Repubblica, che nel festeggiare l’oro della squadra di spada femminile, titolava, riferendosi alle quattro atlete Alberta Santuccio, Giulia Rizzi, Rossella Fiamingo e Mara Navarria “Le 4 regine: l’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa e la mamma”. Dopo le polemiche, il quotidiano ha modificato il titolo e l’“amica di Diletta Leotta” è diventata “la musicista”, ma la sostanza non cambia. 

Una roba che uno ormai non si aspetta più dopo anni e anni di polemiche, un inciampo, che – come mi suggerisce la collega Daniela Bartolini – sembra quasi frutto della volontà di acchiappare click, perché è difficile credere che ancora il messaggio non sia passato. 

Poi ci sono state le “fate” della ginnastica artistica, le “farfalle” di quella ritmica, la mamma atleta di 39 anni. Tutti appellativi che non sono di per sé particolarmente offensivi ma che contribuiscono a rafforzare stereotipi dannosi. Il fatto è che quando si parla di atlete donne è particolarmente importante raccontarle nella loro veste sportiva, e non di super mamme, amiche di qualche vip o chissà che. E mi chiedo, come è possibile che dopo decenni di campagne di sensibilizzaizone siamo ancora messi così? Peraltro da un giornale come Repubblica, che si professa progressiste. Ho chiesto un parere a Giulia Rosoni. psicoterapeuta esperta di tematiche di genere. 

Audio disponibile nel video podcast

Comunque come vi dicevo questo era solo l’antipasto. Altro antipasto è stata la questione della polemica fra Elisa Di Francisca e Benedetta Pilato, con la ex campionessa di schermo che ha deriso e offeso la nuotatrice, rea di essere felice di essere arrivata quarta. Questione su cui sorvoliamo al momento ma che sarebbe interessante analizzare. Comunque, il pasto vero e proprio, che ha mandato in visibilio redazioni, commentatori social e politici è stato il caso del match di boxe fra l’atleta algerina Imane Khelif e la pugile italiana Angela Carini.

Khelif è un’atleta donna che viene definita intersessuale, o intersex. Intersex è un termine cappello che definisce tutte le variazioni naturali nei caratteri sessuali che non rientrano nelle tradizionali categorie di maschio o femmina. Nel caso dell’atleta algerina la sua intersessualità consiste nell’avere un iper-androgenismo, quindi livelli elevati di androgeni (ormoni maschili) nel sangue. Il comitato olimpico ha effettuato dei test prima dell’ammissione delle atlete, ma ha valutato che l’atleta, al parti di un’altra atleta, la taiwanese Lin Yu Ting, che ha una condizione simile, fosse ammissibile. Entrambe le atlete erano state invece escluse dai mondiali di pugilato per un eccesso di testosterone nel sangue. 

Questa cosa ha scatenato l’inferno. Giornali politici, commentatori hanno iniziato a gridare al complotto gender, al fatto che fosse un uomo, che fosse scorretto farla gareggiare, addirittura allusioni al fatto che avesse il pene e cose così, questo è stato il livello del dibattito. Un dibattito che come al solito ha sollevato una cortina fumogena che ha impedito a chiunque di capirci qualcosa. 

Solo in un secondo momento, dopo le polemiche iniziali, qualcuno si è preso la briga di mettere in fila i fatti e mostrare che l’atleta in questione non è un uomo, non è nemmeno un trans, gareggia con le donne fin da bambina, e che il comitato olimpico ha fatto test del testosterone, ha valutato la situazione ha deciso per l’ammissione. E paradossalmente, ma come in realtà avviene abbastanza spesso, maggiore chiarezza è arrivata da alcuni account social che hanno fatto il lavoro che tanti giornali non hanno saputo fare: spiegare. 

Spiegare le cose come stanno. Spiegare le cose non significa prendere parte, non significa schierarsi, non significa nemmeno dire se sia giusto o meno che l’atleta algerina abbia gareggiato. Significa raccontare le cose come stanno, come sono andate, e fornire alle persone gli elementi per capire e farsi un’opinione. Purtroppo viviamo nell’epoca delle opinioni che prevalgono sui fatti e in pochi sembrano volersi prendere la briga di spiegare le cose. 

Comunque, anche su questo ho chiesto un parere a Giulia Rosoni che so essere stata molto colpita e anche accalorata dalla questione. A te Giulia.

Audio disponibile nel video / podcast

Grazie davvero Giulia. Mi permetto solo una chiosa più sul mondo del giornalismo, perché davvero casi come questo ci ricordano quanto sia importante avere una formazione giornalistica su questi temi, per poterli capire e quindi spiegare. E non voglio dire che sia semplice, non voglio minimizzare. Noi stessi con ICC abbiamo partecipato a un progetto europeo che si chiama TAGS, takle gender stereotypes, e abbiamo testato e toccato con mano anche la difficoltà di trattare certi temi, per i quali serve davvero una grande formazione, sennò è facile cadere vittime per primi di stereotipi e bias cognitivi. 

C’è stato un gigantesco scambio di prigionieri tra Russia, gli Stati Uniti e altri cinque paesi: un’operazione coperta molto dai giornali, organizzata sotto i radar dai servizi segreti dei vari stati coinvolti e infine dichiarata pubblicamente. Secondo i giornali, in particolare il Wsj che ha coperto la questione con un articolo molto lungo e dettagliato, sono in tutto 26 le persone coinvolte. E sarebbe la più grande e complessa operazione di questo tipo tra Washington e Mosca (che sono i due soggetti principali coinvolti) non solo dall’inizio del conflitto, ma addirittura nella storia degli Stati Uniti. 

I soggetti rilasciati sono: il corrispondente del Wall Street Journal Evan Gershkovich; la giornalista russo-americana Alsu Kurmasheva; il veterano dei diritti umani e condirettore dell’ong Memorial Oleg Orlov; l’artista Aleksandra Skochilenko, in carcere per aver denunciato la guerra in Ucraina mettendo dei messaggi contro l’invasione al posto delle etichette dei prezzi di alcuni prodotti in un supermercato; l’ex marine americano Paul Whelan, condannato a 16 anni di reclusione per accuse di spionaggio da lui respinte e definite infondate da Washington; il cittadino tedesco Rico Krieger, condannato a morte in Bielorussia e poi graziato dal dittatore Lukashenko, diversi oppositori russie altri cittadini americani e tedeschi.

Come ha dichiarato Biden in una nota diffusa dalla Casa Bianca, “In totale, abbiamo negoziato il rilascio di 16 persone dalla Russia, tra cui cinque tedeschi e sette cittadini russi che erano prigionieri politici nel loro stesso Paese. Alcune di queste donne e uomini sono stati ingiustamente trattenuti per anni”. 

I cittadini russi rilasciati sarebbero otto, secondo The Insider. Tra loro Vadim Krasikov, un presunto ex agente dell’intelligence russo condannato all’ergastolo in Germania con l’accusa di aver ucciso a Berlino un ex comandante separatista ceceno; Artyom Dultsev e Anna Dultseva, da poco condannati in Slovenia con accuse di spionaggio; Roman Seleznev, un presunto hacker condannato a 27 anni negli Usa. 

L’operazione si è svolta in Turchia: aerei statunitensi e russi sono atterrati all’aeroporto Esenboga, ad Ankara. Con il governo turco che conferma di voler giocare un ruolo di mediatore in questo conflitto. 

Andiamo un po’ veloci sul resto. PArtiamo dalla situazione sempre più tesa fra i governi di Israele e Iran. Dopo l’assassinio di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, ucciso a Teheran, il governo e l’esercito di Israele si stanno preparando a una possibile dura risposta militare da parte del regime iraniano e dei suoi alleati, tra cui Hezbollah. L’Iran aveva già attaccato Israele in aprile, ma l’attacco era stato simbolico e preventivamente avvertito, permettendo a Israele di abbattere tutti i missili e droni lanciati. 

Ora, l’attacco imminente potrebbe essere più ampio e senza preavvisi, aumentando i rischi di distruzioni significative. L’esercito israeliano è in massima allerta e si coordina con gli Stati Uniti per rafforzare la difesa, con l’invio di nuove navi militari e jet in arrivo a giorni. Molti governi hanno invitato i propri cittadini residenti nei paesi a lasciare immediatamente e con qualsiasi volo disponibile l’Iran e il Libano, che in genere è preludio di problemi. 

Secondo l’intelligence Usa l’attacco iraniano potrebbe arrivare già nella giornata di oggi. Ora c’è da capire soprattutto quale sarà l’entità di questo attacco. Il governo iraniano si è sentito umiliato dall’uccisione di Haniyeh, avvenuta a Teheran proprio in occasione della cerimonia di insediamento del nuovo presidente massoud pezeshkian, e ha promesso una risposta dura. Anche Hezbollah, colpito dall’uccisione di un suo leader a Beirut, minaccia una reazione severa. Gli analisti militari ritengono possibile un attacco più ampio, coinvolgendo anche altri alleati dell’Iran come gli Houthi in Yemen e le milizie sciite in Siria e Iraq.

Attacchi più duri e senza preavvisi aumentano la possibilità di incidenti e ritorsioni, rischiando di estendere il conflitto. Tuttavia, al momento, nessuno degli attori principali sembra intenzionato a iniziare una guerra aperta, pur essendo pronti a farlo se costretti. Staremo a vedere.

Chiudiamo con la notizia del Giappone che ha chiesto l’estradizione di Paul Watson, cofondatore di Greenpeace e fondatore di Sea Shepherd. 

Leggo sulla Stampa, articolo a firma di Lorenzo Lamperti: “Il Giappone vuole Paul Watson. Le autorità di Tokyo hanno chiesto ufficialmente alla Danimarca di estradare il 73enne, cittadino canadese-americano. La sua colpa? Combatte da lungo tempo contro la caccia alle balene, che le navi giapponesi continuano a condurre nonostante il diffuso sdegno internazionale. Watson è l’ex capo della Sea Shepherd Conservation Society, i cui scontri in alto mare con le navi baleniere hanno attirato il sostegno di celebrità e sono persino apparsi nella serie televisiva “Whale Wars”.

Qualche settimana fa, l’attivista è stato arrestato subito dopo aver attraccato a un porto in Groenlandia. Secondo la Captain Paul Watson Foundation, la nave del proprio fondatore è stata abbordata da una dozzina di poliziotti non appena giunta a Nuuk per fare rifornimento. Watson, insieme a un equipaggio di 25 volontari, era in viaggio verso il Pacifico settentrionale per intercettare la nuova baleniera-madre giapponese, da poco varata.

L’accusa delle autorità nipponiche è quella di aver ostacolato i compiti ufficiali dell’equipaggio ordinando al capitano della sua nave di lanciare esplosivi contro la baleniera. L’azione avrebbe causato danni e lesioni in due incidenti avvenuti nel 2010 con la Nisshin Maru, la famigerata baleniera soprannominata dagli attivisti “mattatoio galleggiante” e dismessa nel 2020 dopo oltre 30 anni di servizio. Nel 2012 era stato arrestato in Germania, per poi essere rilasciato su cauzione.

Si era poi dileguato, vivendo per la maggior parte del tempo in Francia e negli Stati Uniti. Nel 2013, l’Istituto giapponese di ricerca sui cetacei e l’azienda giapponese Kyodo Senpaku Kaisha aveva ottenuto un’ingiunzione della Corte distrettuale degli Stati Uniti contro Watson e Sea Shepherd, che vietava a lui e al suo gruppo di avvicinarsi a meno di 500 metri dalle baleniere giapponesi in mare aperto.

Nonostante questo l’arresto è stato una sorpresa, visto che l’allerta rossa dell’Interpol pareva essere stata ritirata. Non era così. Dopo una decina di giorni dall’arresto, il governo giapponese ha ufficializzato la richiesta di estradizione per Watson. 

Nel frattempo, la nuovissima baleniera giapponese Kangei Maru si trova in mare da maggio. L’imbarcazione, che ha il ruolo principale di macellare e trasportate balene pescate da navi più piccole, pesa 9300 tonnellate e ha un argano tanto potente da essere in grado di trasportare su una rampa carcasse che pesano fino a 70 tonnellate, oltre a 40 container congelatori, ciascuno con una capacità di 15 tonnellate di carne di balena.

La caccia commerciale alle balene è stata vietata da una moratoria della Commissione baleniera internazionale del 1986. Ma il Giappone continua a cacciare legalmente le balene per quella che sostiene essere ricerca scientifica. Nel 2018 ha annunciato il ritiro dalla commissione e ha ripreso la caccia commerciale, nonostante le forti critiche internazionali. Fin qui, le operazioni si sono limitate alle acque territoriali giapponesi, ma diversi attivisti temono che la caccia possa raggiungere anche quelle internazionali. Per questo Watson aveva deciso di tornare a sfidare le baleniere di Tokyo.

Se la questione vi interessa vi suggerisco anche di leggere il bell’articolo del nostro direttore Daniel Tarozzi uscito in concomitanza del suo arresto.

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