Le conseguenze del tremendo terremoto in Siria e Turchia – #665
I quotidiani di tutto il mondo aprono con la notizia del gravissimo sisma che ha colpito la parte meridionale della Turchia e il confine con la Siria. Cominciamo con qualche dato per i quadrare la situazione. Il terremoto ha raggiunto una magnitudo di 7.9 e si è scatenato poco dopo le 4 di mattina. Sinora le vittime accertate sono più di 5000, anche se le previsioni parlano di un numero di decessi che potrebbero essere fra i 10000 e i 20000.
La zona interessata dalla tragedia è quella del confine turco-siriano, fra le grandi città di Gaziantep in Turchia e Aleppo in Siria. Qualche altro dato per capire l’intensità e la gravità del fenomeno: la scossa è stata mille volte più potente di quella del terremoto di Amatrice, paragonabile a quella che potrebbe essere generata dallo scoppio di 130 bombe atomiche. Secondo i sismologi, il suolo dell’Anatolia si è spostato di diversi metri.
Naturalmente si è subito scatenata la corsa agli aiuti e questo ha sollevato anche alcune questioni importanti che vengono analizzate attentamente in un approfondimento di Mirko Mussetti su Limes. La prima domanda che si pone l’autore è come la diversa posizione che i due paesi occupano sullo scacchiere politico internazionale influirà sugli aiuti. In particolare, c’è una netta distinzione di risorse fra i due paesi – con la bilancia che pende ovviamente a favore della Turchia – e la Siria è anche oggetto di numerose sanzioni internazionali a causa della guerra.
Israele si è già detta disponibile a fornire aiuti anche al “nemico” siriano. Molte altre potenze si stanno mobilitando, dalla Russia agli Stati Uniti, dall’Ucraina alla Svezia. Questa corsa agli aiuti non è esente da mire geopolitiche e serve a garantire, soprattutto parlando della Turchia, solidarietà e la possibilità di avvicinarsi a un alleato tanto importante quanto imprevedibile come Erdogan oppure, come nel caso della Svezia, ad appianare divergenze passate dovute al veto all’ingresso nella NATO.
Passando il confine siriano, le conseguenze del terremoto si sommano a quelle di una guerra che va avanti dal 2012. Dal 2015 ad Aleppo, uno degli epicentri del conflitto insieme a Idlib, anch’essa colpita duramente dal sisma, è precluso l’accesso agli aiuti. Fra le zone colpite anche il Rojava, amministrazione autonoma dove c’è un autogoverno laico e democratico, da cui è difficile ricevere informazioni sui danni.
Ci sono anche altre problemi: la zona colpita dal sisma è da anni un epicentro per le migrazioni innescate dalla guerra e ospita tantissimi campi profughi. Lì c’è anche un importante oleodotto – il Kirkuk-Yumurtalik, che collega la Turchia con le aree di estrazione del Kurdistan e dell’Iraq – a un gasdotto che collega invece Israele e Turchia. Le strutture hanno subito diversi danni.
Da settimane la tensione si è notevolmente alzata in Israele, complici anche le elezioni di novembre che hanno visto trionfare una coalizione di destra guidata dal Likud del premier Netanyahu, una maggioranza che ha pochi precedenti nella storia israeliana rispetto al radicalismo di alcune posizioni politiche, che secondo loro rischiano di mettere in discussione la democraticità dell’amministrazione, fra cui anche quelle sulla questione palestinese.
Da tempo ogni sabato migliaia di persone scendono in piazza per le strade israeliane per protestare contro il Governo e le sue politiche giudicate troppo repressive. Tuttavia, fa notare l’Internazionale, informazioni e consapevolezza dell’opinione pubblica israeliana sulla questione palestinese sono molto limitate.
Negli ultimi giorni i raid israeliani hanno colpito le città di Jenin e Gerico, uccidendo complessivamente 14 persone e portando il bilancio annuale parziale a 26, davvero preoccupante se si tiene conto che l’anno più “sanguinario” della storia decente è stato il 2004 con 104 morti.
La situazione politica rischia dunque di precipitare ulteriormente a causa della spirale alimentata da alcuni dei partiti di Governo che spingono per una politica razzista e aggressiva, per l’annessione dei territori palestinesi e per lo sviluppo illimitato delle colonie.
Il prezzo dei combustibili fossili è alle stelle e penso che di questo ce ne siamo accorti un po’ tutti. Ma c’è un’interessante analisi del Post che spiega in maniera molto chiara e mette alla luce inquietanti meccanismi del mercato dei derivati dal petrolio. Il caro-benzina infatti è solo marginalmente legato alle contingenze storiche – la guerra in Ucraina su tutte – e dipende da un atteggiamento strutturale e deliberato delle grandi compagni produttrici.
Scrive il Post: “A causa della pandemia i paesi produttori avevano ridotto l’offerta di greggio per adeguarsi a un consumo molto ridotto, visto che i viaggi e gli spostamenti erano vietati. Quando sono poi state rimosse le restrizioni l’offerta dei paesi produttori non è aumentata tanto quanto la domanda, rendendo di fatto il petrolio un bene più scarso e costoso. I paesi produttori, poi, vogliono continuare a tenere alte le quotazioni per guadagnarci, e non intendono aumentare l’offerta”.
Grazie a questa scelta, i grandi gruppi come ExxonMobil, Shell, BP ma anche ENI hanno mediamente raddoppiato gli utili rispetto al 2021, raggiungendo traguardi mai toccati nella loro storia. E c’è di più: diversi Governi (fra cui quello italiano) hanno deciso di istituire una tassa su questi guadagni extra dopo l’inizio della guerra in Ucraina per generare un gettito con cui sostenere le fasce di popolazione a rischio di povertà energetica.
Tuttavia la maggior parte delle compagnie petrolifere semplicemente non ha pagato questa tassa puntando sull’incostituzionalità e sui problemi di calcolo dell’imponibile. Questo è successo in Italia e in altri paesi, come Il Regno Unito, con ExxonMobil che ha addirittura fatto causa all’Unione Europea, sostenendo che la tassa sugli extra profitti scoraggerebbe gli investimenti.
Sempre a proposito di combustibili fossili, ha suscitato e sta ancora suscitando scalpore la scelta di far organizzare la prossima conferenza sul clima delle Nazioni Unite, la COP28, agli Emirati Arabi, uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo. Come rileva The Guardian in un approfondimento, una parte considerevole dei membri del comitato organizzatore fra l’altro è costituita da funzionari dell’Adnoc, colosso petrolifero di Abu Dhabi.
“Fare finta che tutto questo personale proveniente dal settore dei combustibili e tutte queste connessioni [con l’industria fossile, ndr] non siano una minaccia gigantesca per l’intera conferenza COP28 va ben oltre l’ingenuità”, ha scritto in una lettera un deputato americano nei giorni scorsi. “C’è sempre meno tempo per risolvere la crisi climatica e la COP è l’unica sede in cui si possano stringere accordi internazionali sul tema. Ma questi accordi devono essere discussi in maniera libera e non condizionata dalla maligna influenza dell’industria fossile”, ha scritto il co-firmatario della lettera.
#terremoto
Limes – Le scosse di terremoto in Turchia e Siria e altre notizie interessanti
Ansa – Terremoto tra Turchia e Siria, oltre 8300 morti. L’italiano disperso è Angelo Zen
#Israele
Asia News – Gerico: raid israeliano, cinque vittime. Netanyahu: tunnel sotterranei fra insediamenti
Internazionale – Il raid israeliano a Jenin alimenta la tensione in Cisgiordania
#compagniepetrolifere
il Post – Gli eccezionali profitti delle società petrolifere
#Cop28
Will – Gli Emirati Arabi Uniti hanno inserito 12 dipendenti di una società petrolifera nel team che organizzerà la Cop 28
The Guardian – UAE oil company employees given roles in office hosting Cop28