3 Ott 2024

Larry Fink, ceo di BlackRock, incontra Meloni. L’Italia è in vendita? – #994

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Il ceo di BlackRock ha incontrato a porte chiuse Giorgia Meloni per discutere di affari. In ballo c’è un piano di privatizzazioni in cui il fondo speculativo americano potrebbe giocare un ruolo centrale, ma c’entrano anche il Piano Mattei, il debito pubblico e i finanziamenti per la ricostruzione dell’Ucraina. Parliamo anche di una intervista della nostra Tiziana Barillà a Patrick Zaki e di come Vienna è una delle città più attrezzate contro le alluvioni grazie a un’opera degli anni Sessanta. 

Lunedì c’è stato un incontro a porte chiuse di cui solo ieri i giornali hanno iniziato a parlare. Ovvero fra la nostra premier Giorgia Meloni e il ceo di BlackRock Larry Fink. Black Rock è il fondo speculativo più grande del mondo, che ha interessi praticamente ovunque e da un po’ di tempo ha iniziato a investire pesantemente in infrastrutture. 

L’incontro di lunedì, secondo parecchi ossevratori – ad esempio lo leggo sia su Repubblica che sul Post, sembrerebbe dovuto all’idea del governo di coinvolgere BlackRock nella privatizzazione di Fs, dato che nel comunicato stampa diffuso dopo l’incontro si accenna, un po’ cripticamente, all’«opportunità di investimento nel campo delle infrastrutture nazionali di trasporto». 

Ma non si tratta solo di Ferrovie dello Stato. Vi leggo cosa scrive su Valori Alessandro Volpi, professore di storia contemporanea all’Università di Pisa e che, se ricordate, ho intervistato per una puntata di INMR+ sul debito pubblico: “Quella che il fondo d’investimento americano BlackRock sta compiendo nei confronti del nostro Paese potrebbe essere definita come una vera e propria colonizzazione. Ma forse neppure una simile definizione è pienamente adeguata. Sace, il gruppo assicurativo finanziario controllato al 100% dal ministero dell’Economia, sta trattando con BlackRock la gestione di asset per 3 miliardi di euro. In pratica il fondo diverrebbe il partner pressoché esclusivo della società pubblica che si occupa di assicurazioni per le imprese italiane, gestendone la liquidità.

Nei giorni scorsi, il governo Meloni ha autorizzato BlackRock a superare la soglia del 3% in Leonardo, facendo del fondo americano l’unico azionista privato con tale quota. Si tratta di un ulteriore salto di qualità della presenza in Italia di una delle Big Three (così vengono chiamati i tre più grandi fondi del mondo, oltre a Black Rock, Vanguard e State Street) che è già oggi il principale investitore estero nelle imprese quotate alla Borsa di Milano, per un totale di 17 miliardi di euro tra Intesa San Paolo, Unicredit, Bpm, Mediobanca, Stellantis, Ferrari e Prysmian. A cui vanno aggiunte le partecipazioni in Eni, Enel e nelle multiutility.

Nel frattempo il governo vuole privatizzare anche un altro pezzo di Mps, ed è facilmente prevedibile chi se lo comprerà. Un posto a parte merita, in un quadro siffatto, la vicenda di Unicredit che ha acquisito, con estrema solerzia, approfittando delle modalità di vendita scelte dall’autorità federale tedesca per cedere la quota in suo possesso, il 9% di Commerzbank. È così divenuto il secondo azionista dopo lo Stato tedesco e ha prospettato l’ipotesi di una fusione.

La rapidità dell’operazione e soprattutto il passaggio dell’intero pacchetto nelle mani di un solo compratore ha fatto irritare il cancelliere Scholz che auspicava una vendita frazionata. Sembra quindi in via di costituzione un colosso bancario europeo a trazione italiana. In realtà il dato più rilevante dell’operazione è costituito dal fatto che il principale azionista di Unicredit, che ora diventa determinante anche in Commerzbank, è nuovamente BlackRock. Salito quasi al 7% di Unicredit dopo il buyback del marzo del 2024.

In sintesi, le Big Three – anche Vanguard è presente in Unicredit con poco meno del 2% – stanno procedendo nella conquista della finanza europea seguendo la strategia delle mega-fusioni. In chiaro contrasto con il Rapporto Draghi e con il Piano Letta che vorrebbe creare campioni del Vecchio Continente. E rafforzando in modo determinante il proprio monopolio nella gestione del risparmio, vera linfa della loro capacità di essere “padroni del mondo” (qui il riferimento è al titolo dell’ultimo libro del professor Volpi).

Oltre a ciò c’è la questione delle nuove privatizzazioni perché per far quadrare i bilanci il governo Meloni sembra intenzionato a vendere quote sia di Poste Italiane che appunto di Fsi per almeno 6 miliardi di euro, dopo che 3 ne ha già incassati vendendo una quota di Eni. 

Vendere Poste però potrebbe essere un discreto autogol, perché come spiega Volpi è la società da un lato con più dipendenti d’Italia, 126mila, l’unica che supera i 100mila, e dall’altro che è in forte attivo. Ha raggiunto quest’anno la capitalizzazione record di 16 miliardi di euro e ha generato un miliardo di utili. Quindi privatizzarla anche se parzialmente vuol dire fare cassa e coprire la manovra, ma anche perdere futuri utili.

Quindi torniamo all’incontro di lunedì: perché è plausibile che non si sia parlato solo di privatizzazioni. L’incontro aveva anche altri obiettivi: serviva ad accreditare ufficialmente BlackRock come il player principale nella gestione dei data center e delle infrastrutture energetiche in Italia. Serviva a creare degli strumenti finanziari specifici da parte del fondo d’investimento per finanziare il famoso Piano Mattei. E serviva a definire dei prestiti per la ricostruzione dell’Ucraina, concepiti da BlackRock e garantiti politicamente dall’Italia. 

Aggiunge in conclusione Volpi che “Naturalmente, è molto probabile che Meloni e Fink abbiano parlato della concreta possibilità per il fondo di comprare, con il proprio risparmio gestito, una parte dei 180 miliardi aggiuntivi necessari a finanziare il nuovo debito pubblico del nostro Paese”.

Ora, non voglio farne una questione ideologica, perché non mi piacciono le questioni ideologiche, però le concentrazioni di potere sono sempre pericolose e possono rappresentare problemi anche per la concorrenza. Ad esempio BlackRock ha già quote importanti di Italo, che succede se diventa un attore di primo piano di Trenitalia. E lo stesso discorso si potrebbe fare per tanti altri settori, dalle comunicazioni, alle assicurazioni, alle banche.

Viviamo in un’economia di mercato, in cui il giochino si basa sul fatto che attori diversi competono per offrire le condizioni migliori. Sappiamo bene che già l’equazione di base non funziona granché in molti ambiti, ma se in più ci aggiungiamo che all’interno degli attori diversi ci sono sempre gli stessi gruppi, capite che la cosa non funziona granché.

Oggi esce una bellissima intervista su ICC della nostra corrispondente dalla Calabria che Cambia Tiziana Barillà a Patrick Zaki, la cui storia immagino ricorderete. Zaki è un giovane egiziano, attivo per i diritti sociali e civili, che studiava a Bologna che e che tornato al Cairo, viene arrestato dagli agenti dei servizi segreti egiziani e incarcerato con l’accusa di incitazione alla protesta e attentato alla sicurezza nazionale e resta in prigione per 20 mesi, suscitando proteste in Italia e nel mondo fino alla sua liberazione nel luglio 2023.

Una vicenda che ricorda da vicino quella di Giulio Regeni, anche se con un esito fortunatamente diverso. E che a quella storia potrebbe essere collegata. Ora vi spiego come, leggendovi un estratto dell’articolo. Intanto però voglio farvi ascoltare un audio di Tiziana Barillà in cui ci contestualizza un po’ questa intervista. A te Tiziana:

Audio disponibile nel video / podcast

Grazie Tiziana. Direi che sì, le emozioni arrivano eccome attraverso l’intervista, così come arrivano le informazioni. Vi leggo il passaggio che vi ho promesso, che riguarda il rapporto fra Zaki e Regeni:

Spesso la complessità viene scambiata per complottismo, posso chiederti di sfatare questo mito e spiegarci brutalmente cosa c’era in ballo in questa partita a scacchi di cui eri una pedina? 

C’erano diverse ragioni e venivo usato in diversi modi ma credo che il motivo principale sia stato il caso di Giulio Regeni che, a differenza del mio caso, non è stato risolto. È stato come se io fossi diventato una pedina per sovvertire quell’episodio, per coprire, mascherare quella vicenda. Parliamoci chiaro, in Egitto ci sono 40.000 detenuti con la cittadinanza europea, ci sono anche due italiani che sono stati arrestati e in pochi lo sanno.

Quindi perché proprio io? Perché io ho tante cose in comune con Giulio Regeni: gli studi, i luoghi che abbiamo visitato, la difesa dei diritti umani. Credo sia per questo che c’è stata tanta attenzione su di me, perché io potevo in qualche modo riscattare quanto non è successo con Giulio. Sarebbe stato impensabile che si ripetesse la stessa storia.

Ieri raccontavamo di come Louisville sta gradualmente eliminando l’effetto isola di calore attraverso un piano di rimboschimento e verde pubblico. Oggi ci spostiamo in un’altra città, Vienna, e andiamo a osservare un altro caso di successo descritto dal Guardian legato a come evitare le inondazioni. 

Visto che il tema è di grande attualità anche da noi, ho trovato questo articolo davvero molto interessante. Peraltro l’articolo è firma di una persona che questa cosa la sta pontando avanti da dentro, ovvero Gernot Wagner, un economista climatico – sì, esistono, presso la Columbia Business School e membro del comitato scientifico del consiglio climatico di Vienna.

Sapete che nell’ultimo mese anche l’Austria è stata colpita da forti inondazioni. Vienna però, a parte alcuni disagi nel sistema metropolitano – roba che se vivi a Roma nemmeno te ne accorgi – è stata risparmiata dagli allagamenti. E il motivo, spiega l’articolo, va ricercato nell’ingegneria umana e nella lungimiranza politica risalente agli anni ’60, in risposta a inondazioni precedenti che avevano devastato parte della città.

Leggo: “Costruita lungo il Danubio, Vienna ha subito in passato la sua quota di inondazioni. La più grande nella storia documentata è avvenuta nel 1501, quando il Danubio portò circa 20 volte più acqua verso Vienna rispetto a un anno normale. La più grande inondazione del secolo scorso si è verificata nel 1954, devastando parte della città. Seguirono anni di discussioni politiche su come proteggerla”.

Nel 1969, il consiglio comunale di Vienna votò per costruire quella che oggi è nota come Donauinsel, un’isola lunga 21 km nel mezzo del Danubio. L’isola creò di fatto una diga e un canale di sfogo a nord del centro di Vienna, in grado di contenere abbastanza acqua da proteggere la città da inondazioni come quella del 1501. Finora, ha mantenuto la sua promessa.

Insomma, un’opera che funziona. Ovviamente, specifica l’articolo, ci sono molti passi che le città di tutto il mondo devono compiere per proteggersi dalla crisi climatica. Costruire protezioni contro inondazioni “millenarie” è solo l’inizio. In un mondo dove le emissioni di combustibili fossili ovunque possono portare a un aumento drastico dei fulmini artici, dove i “virus zombie” artici potrebbero scatenare pandemie e dove il fumo degli incendi canadesi tinge di arancione i cieli di New York, adattarsi al cambiamento climatico va ben oltre la costruzione di dighe.

Eppure una diga – il semplice pezzo di ingegneria che finora ha protetto Vienna – ha numerosi benefici. Le dighe possono anche fungere da fonte a basse emissioni di carbonio per l’energia idroelettrica (la diga di Vienna non produce elettricità, anche se l’Austria ottiene due terzi della propria elettricità dall’energia idroelettrica, che costituisce la maggior parte della sua produzione a basse emissioni di carbonio). 

Si estende anche a una pianificazione territoriale intelligente. Sembra ovvio che dovremmo smettere di costruire più case suburbane nelle pianure alluvionali – o case suburbane in generale. Dopotutto, è molto più facile proteggere le case all’interno di una città come Vienna rispetto agli insediamenti che si estendono intorno alla città, e i quartieri urbani densi consentono uno stile di vita a basse emissioni di carbonio molto più sostenibile rispetto alle suddivisioni suburbane. Questo è un vantaggio per la protezione contro le inondazioni e per la riduzione delle emissioni di carbonio. Vienna si classifica spesso tra le città più vivibili al mondo per una buona ragione. La protezione contro gli estremi climatici non figura ancora in queste classifiche. Dovrebbe, e Vienna sarebbe ancora una volta al vertice.

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