14 Ott 2024

L’attacco israeliano al presidio UNIFIL e il premio Nobel ai sopravvissuti all’atomica – #1001

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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L’esercito israeliano ha ferito diversi soldati e operatori di pace delle Nazioni Unite in Libano, un fatto che sta ulteriormente isolando il Paese a livello internazionale, mentre continuano bombardamenti e uccisioni sia a Gaza che nel Libano del Sud. Venerdì è stato assegnato il premio Nobel per la pace a un’organizzazione di reduci dalle bombe atomica di Hiroshima e Nagasaki che da anni si batte per denuclearizzare il mondo, e come primo messaggio da premiati hanno mandato solidarietà ai bambini di Gaza. Parliamo anche dell’avvio del piano migranti italiano, che dovrebbe dirottare in Albania le persone che arrivano via mare verso le nostre coste, dell’evasione fiscale in Italia che continua a scendere e di Cristoforo Colombo che probabilmente era un ebreo spagnolo.

La notizia più clamorosa degli ultimi giorni è stato l’attacco israeliano contro soldati e operatori UNIFIL. UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon) è una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite che dal 1978 monitora il ritiro delle forze israeliane dal Libano.

Il governo israeliano sostiene che si sia trattato di incidenti, ma insomma, la cosa è comunque grave. Sono cinque fra soldati e operatori ad essere stati feriti da proiettili israeliani. Una cosa che sta smuovendo un’ulteriore ondata di sdegno a livello internazionale. È ovvio che – e questa è una critica che è stata fatta soprattutto dalle piazze che manifestavano pro Palestina – lo sdegno per cinque persone ferite sembra a volte superare – come ad esempio nelle dichiarazioni del nostro ministro della difesa Crosetto – quello per le decine di migliaia di civili uccisi in questo anno di guerra (che continuano, nel weekend è stato bombardato il campo di Jabalia con altre decine di vittime). O per il milione e rotta di sfollati che in Libano hanno dovuto lasciare la propria abitazione in un solo mese. 

Al tempo stesso, se a livello di gravità assoluta non si possono paragonare le due cose, colpire una missione di pace Onu significa colpire il simbolo internazionale della Pace. Non solo. Netanyahu ha detto chiaro e tondo al segretario delle Nazioni Unite Guterres che l’unico modo per cui i soldati e volontari Onu non vengano colpiti sia levarsi di torno. E mi pare che questo atteggiamento mostri una sorta di delirio di onnipotenza del governo Netanyahu. Delirio di onnipotenza a cui però, a parte qualche dichiarazione, nessuno sembra opporsi realmente.

Un articolo del Post racconta – ad esempio – il completo fallimento di Biden nel convincere Israele a cessare le ostilità, garantire aiuti umanitari e limitare l’estensione del conflitto. Secondo l’analisi Netanyahu ha sistematicamente ignorato o sabotato queste iniziative e ha sfruttato le complesse dinamiche politiche tra Stati Uniti e Israele per fare quello che gli pareva.

Nonostante le tensioni, Biden ha mantenuto il sostegno a Israele, anche di fronte all’espansione del conflitto verso il Libano e l’Iran. Un sostegno non solo morale, ma anche molto pratico, fatto di armi e aiuti militari.

L’altra novità importante del weekend è il doppio scoop del NYT e del Washington Post relativi all’organizzazione degli attacchi di Hamas del 7 ottobre. In pratica il Washington Post ha rivelato in esclusiva che Hamas già anni prima aveva pensato di organizzare un piano che avrebbe potuto far esplodere un grattacielo a Tel-Aviv, in stile 11 settembre, mentre poche ore prima il New York Times aveva svelato che Hamas aveva fatto pressioni perché l’Iran ed hezbollah partecipassero attivamente a organizzare l’attacco del 7 ottobre.

Il NYT si è reso noto anche di un articolo che ha suscitato un certo dibattito, dal titolo “We absolutely need to escalate in Iran”, ovvero dobbiamo assolutamente fare un’escalation in Iran. Vi leggo come Kathleen Eallace su Counter Punch commenta la scelta del NYT.

Dopo tutti questi anni, in seguito a un secolo che ha visto morire circa 231 milioni di persone in guerre, dobbiamo ancora tollerare il tambureggiare della guerra da parte di chi non sarà mai toccato da essa? È grottesco e senza dubbio un’assurdità che coloro che pronunciano queste parole vengano considerati gli “adulti nella stanza”, mentre chi si oppone a un militarismo impulsivo che non beneficia nessuno, se non i leader corrotti e le azioni dell’industria bellica, venga etichettato come idealista irrealizzabile.

Il commento è molto lungo, ma ho trovato questo passaggio particolarmente interessante e vero. Forse la faccio un po’ semplice, ma colpisce vedere che chi cerca la pace è idealista utopista, chi batte sul tamburo del conflitto, spingendo per allargarlo, vendere più armi, uccidere più persone è realista. Non dico che la pace sia semplice, non lo è. Ma credo che sia l’unica cosa che vale la pena perseguire, cercare.

A proposito di Pace, in questi giorni avrete visto che sono stati assegnati tutti i premi Nobel e mi ha colpito molto in positivo la scelta dell’assegnazione per il Premio Nobel per la pace all’organizzazione giapponese Nihon Hidankyo, ovvero un’associazione dei sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Organizzazione che dalla sua nascita si impegna – leggo direttamente nella motivazione del Nobel – “per realizzare un mondo libero dalle armi nucleari e per aver dimostrato attraverso la testimonianza dei sopravvissuti che le armi nucleari non devono mai più essere utilizzate”. 

Quando nel 1945 due bombe atomiche vennero sganciate dagli Usa sulle due città giapponesi a 3 giorni di distanza, vennero uccise oltre 200mila persone. Oggi, dopo l’annuncio del premio, il co-presidente dell’associazione, Toshiyuki Mimaki ha detto che la situazione dei bambini di Gaza è simile a quella affrontata dal Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale, e che “A Gaza, i bambini insanguinati sono protetti solo dai loro genitori. È come il Giappone di 80 anni fa”. 

Intanto, cinque mesi dopo la data prevista per l’apertura, si sono conclusi i lavori per l’allestimento dei centri per migranti che l’Italia vuole aprire in Albania e già in settimana il governo vuole effettuare il primo viaggio. Vi faccio un rapido ripassino.

In pratica il governo italiano ha fatto questo accordo col governo albanese per cui i richiedenti asilo soccorsi in acque internazionali invece di essere fatti sbarcare in Italia finiranno appunto in Albania dove verranno fatti soggiornare in questi centri in attesa che la loro domanda di asilo venga esaminata. Non tutti in realtà: donne, minorenni, famiglie e persone con evidenti fragilità saranno portate a Lampedusa e immesse nel circuito di accoglienza italiano. Tutti gli altri, che comunque sono la maggioranza.

Il Post racconta che “Le strutture principali sono tre. La prima è un hotspot, ossia un centro per lo sbarco e l’identificazione dei migranti. Si trova a Shengjin, una città di mare circa un’ora di macchina a nord della capitale Tirana. Quella che necessitava di più lavori è invece a Gjader, una frazione del comune di Lezhë nell’entroterra rurale del paese, dove sono stati costruiti un centro di prima accoglienza per i migranti che chiederanno asilo, da 880 posti, e un Centro di permanenza e rimpatrio (CPR) da 144 posti. C’è anche un carcere, organizzato per ospitare un massimo di 20 detenuti, nel caso in cui qualche migrante dovesse essere messo in custodia cautelare mentre è trattenuto nei centri.

Tutte e tre le strutture sono state costruite e saranno gestite dalle autorità italiane: l’Albania non ha sostenuto alcun costo per il progetto. Sono state realizzate nuove reti idriche, elettriche e fognarie, muri di cinta e un impianto di videosorveglianza lungo tutto il perimetro dell’area. È stata portata la connessione internet. Sono state rifatte strade e gli edifici sono stati rifatti quasi completamente per convertirli all’accoglienza di persone migranti. 

Marika Ikonomu e Giovanni Tizian su Domani denunciano una serie di dubbi e irregolarità sulla costruzione e gestione dei centri, con il governo italiano che ha derogato al codice degli appalti pubblici per la costruzione dei due centri a Shengjin e Gjader e gli appalti diretti per oltre 60 milioni di euro, assegnati senza gara a ditte albanesi, inclusa la controversa società Everest Shpk, coinvolta in vicende opache relative ad appalti pubblici e relazioni con la politica locale. 

Una deroga che ha sollevato preoccupazioni per la trasparenza e il rispetto dei diritti umani, spingendo l’opposizione italiana a chiedere chiarezza e ad avviare interrogazioni parlamentari. Inoltre, i costi per la gestione e il mantenimento dei centri sono elevati, con spese aggiuntive per personale e servizi, alimentando polemiche sulle modalità di gestione e sull’efficacia della misura.

A ottobre è stato pubblicato il consueto «rapporto sull’economia non osservata» del ministero dell’Economia, il riepilogo più completo su quanti soldi lo Stato perde ogni anno a causa dell’evasione fiscale. L’evasione è in calo pressoché costante da anni, e si misura tramite il cosiddetto tax gap, la differenza tra quanto si stima sarebbe dovuto al fisco dai contribuenti e quanto realmente viene versato. Gli ultimi dati sono relativi al 2021 e mostrano che anche in quell’anno l’evasione stimata si è ridotta rispetto al 2020, da 85 a 82 miliardi di euro: il totale superava i 100 miliardi fino al 2019. La propensione all’evasione, cioè la percentuale di imposta evasa sul totale dovuto, è scesa a sua volta dal 17 al 15 per cento.

Quando fu approvato il PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza finanziato con fondi europei, tra gli obiettivi delle riforme ne furono fissati alcuni anche per l’evasione fiscale, reputati allora assai ambiziosi: avrebbe dovuto raggiungere il 15 per cento entro il 2024. A meno di una sorprendente inversione di tendenza, l’obiettivo risulterebbe dunque già raggiunto con anni di anticipo.

Su 82 miliardi di euro evasi, 72 sono relativi al mancato pagamento delle imposte (come l’IRPEF, l’IVA, e l’IRES) e 10 sono i contributi non pagati, quelli che servono per finanziare le pensioni e le prestazioni assistenziali come la malattia e il congedo parentale, tra gli altri.

Ricordo che quando poco più che ventenne ho vissuto per qualche mese a Barcellona, rimasi colpito dalla convinzione che quasi tutti nutrivano lì che Cristoforo Colombo fosse in realtà catalano. 

Non mi interessava a sufficienza la questione da mettermi a discutere per questo, però ricordo l’assoluta certezza con cui lo dicevano le persone. Nei mesi successivi avevo scoperto che in tanti si attribuivano la paternità di Colombo, che oltre a genovese e catalano sarebbe di volta in volta greco, galiziano, basco, portoghese, persino scozzese. Lì per lì avevo derubricato la questione a una delle tante fesserie frutto di orgoglio e identità territoriale. Colombo, si sa, era genovese. Solo che forse c’era del vero dietro.

Il Guardian pubblica ieri un articolo, che racconta di un’indagine genetica durata 20 anni che mette profondamente in discussione le convinzioni storiche tradizionali su Cristoforo Colombo, suggerendo che l’esploratore, spesso ritenuto originario di Genova, potesse essere in realtà un ebreo sefardita spagnolo. L’analisi del DNA condotta dal forense José Antonio Lorente dell’Università di Granada ha rivelato che il DNA di Colombo e di suo figlio Fernando è compatibile con origini ebraiche. 

Fra l’altro questa origine di ebreo spagnolo, è particolarmente significativa perché se confermata, la scoperta implicherebbe che l’uomo che contribuì alla creazione dell’impero spagnolo provenisse dalla stessa comunità che i sovrani spagnoli Ferdinando e Isabella avevano espulso dalla Spagna nel 1492, lo stesso anno in cui Colombo arrivò nel Nuovo Mondo. Insomma, Colombo potrebbe essere stato spinto a partire non solo dalla sua propensione, ma dalla concomitante cacciata degli ebrei della sua comunità dalla Spagna.

L’indagine è stata presentata su RTVE in concomitanza con la festa nazionale spagnola, ha suscitato cautela tra alcuni esperti, che hanno criticato la mancanza di dati scientifici pubblicati, ma i resti di Colombo sono stati recentemente confermati come autentici attraverso un’analisi del DNA. E anche se gli scienziati attendono ulteriori pubblicazioni per verificare la validità di questa scoperta, l’ipotesi è tutt’altro che peregrina.

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