5 Mar 2024

In Israele come in Iran, alle elezioni vincono estremismi e astensione – #890

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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In Israele ci sono state delle elezioni locali dove ha vinto l’astensione e i partiti estremisti. Una situazione paradossalmente simile a quella che abbiamo descritto in Iran e che oggi torniamo ad approfondire. Cosa ci dicono queste elezioni? Parliamo anche della Corte suprema Usa che ha di fatto sancito l’eleggibilità di Trump alle primarie e del caso Assange, su cui si attende a giorni la sentenza a Londra.

Ieri abbiamo parlato delle elezioni in Iran e fra l’altro oggi come promesso approfondiamo. Ma prima di andare ad approfondire quella situazione, mi lancio in un parallelismo un po’ azzardato. Domenica sono stati pubblicati i risultati di alcune elezioni locali in Israele. E hanno dato risultati simili. Altissimo astensionismo, e trionfo dei partiti più estremisti.

Leggo dal Post che queste elezioni hanno coinvolto 241 enti locali. E i dati principali sono stati: un’affluenza molto bassa, minore al 50% degli aventi diritto, e una vittoria dei partiti ultraortodossi, che nel caso israeliano sono quelli di estrema destra alleati del Likud, il partito israeliano conservatore guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu. 

È accaduto in particolare a Gerusalemme, dove è stato riconfermato per un secondo mandato il sindaco conservatore Moshe Lion e dove, secondo quanto scritto dai media locali, i partiti ultraortodossi hanno ottenuto una «maggioranza senza precedenti» nel consiglio comunale, ottenendo più della metà dei seggi.

Ora, vediamo di capire le radici di questa vittoria. Uno dei motivi del successo ottenuto da questi partiti è che, a causa della guerra con Hamas, la sicurezza è percepita come una priorità dalla maggior parte degli elettori, e il Likud e i suoi alleati vengono considerati più adatti a fornire garanzie su questo tema. 

Al tempo stesso gli osservatori (che poi chi saranno questi osservatori) ritengono improbabile che il successo ottenuto dalla coalizione di destra possa ripetersi a livello nazionale, dato che i principali sondaggi danno l’ex ministro della Difesa e leader di uno dei partiti di opposizione Benny Gantz come il candidato favorito per le prossime elezioni presidenziali, che è un politico di centro.

Ora: nel caso di Israele l’astensionismo potrebbe avere origini un po’ diverse rispetto al caso iraniano. Così perlomeno viene raccontato dal Post, che spiega il fenomeno – almeno in parte – con il timore diffuso che Hamas o il gruppo sciita libanese Hezbollah potessero sfruttare l’occasione delle elezioni locali per compiere attentati. 

Quindi è possibile che ci sia questo fattore. Ed è possibile, aggiungo io, ma questa è una mia ipotesi, che questo fattore deterrente abbia scoraggiato di più gli elettori moderati rispetto a quelli più estremisti. Fatto sta che una buona parte di elettorato, probabilmente più moderato non è andato a votare, e dubito che tutto l’astensionismo sia da imputare alla paura.

Nel caso israeliano devo dire che l’astensionismo mi colpisce particolarmente perché – se è vero che non si andava ad eleggere il parlamento nazionale o il presidente, si tratta comunque di scegliere chi guida alcune istituzioni chiave – anche se locali e non nazionali – in un momento di guerra. Come dobbiamo leggere questa astensione massiccia? Oltre alla paura, c’è disinteresse? Difficile da credere in questo momento, ma possibile. C’è una forma di protesta silenziosa come avvenuto in Iran?

Non lo so, ma sarebbe interessante approfondire l’aria che tira in Israele, per capire se il voto di questa metà di elettorato è esemplificativo di tutta la popolazione, o se invece ci sono di movimenti intestini che il voto non ci mostra e non rappresenta. Certo è che in un momento di guerra e tensioni, in cui le persone sono più facilmente preda di pulsioni istintuali, paure, istinti primari di sopravvivenza, la democrazia elettiva mostra molti dei suoi limiti. 

E a proposito di elezioni, astensionismo, proteste ecc, come promesso facciamo un bell’approfondimento sull’Iran. E lo facciamo in compagnia di Samira Ardalani, che è una attivista e portavoce dei giovani iraniani residenti in Italia. Samira mi ha mandato un contributo molto lungo in cui analizza in maniera molto approfondita sia la situazione di come il Paese è arrivato al voto, il processo di selezione delle candidature ecc,  poi il voto, su cui ci sono una serie di indiscrezioni molto interessanti rispetto all’informazione ufficiale, e infine una serie di richieste ai governo dei paesi occidentali. 

Ora, vi faccio ascoltare solo alcuni estratti del suo contributo, perché sennò servirebbe una rassegna dedicata, ma se siete iscritti/e alla newsletter speciale di INMR, o se lo fate entro oggi primo pomeriggio, vi invio l’audio integrale che vi assicuro vale la pena ascoltare dall’inizio alla fine.

Intanto, vi faccio ascoltare come è stata svolta la selezione dei candidati a queste elezioni, che Samira chiama appunto “selezioni”, più che elezioni. 

Audio disponibile nel video / podcast

Poi Samira racconta come già l’attuale parlamento sia frutto dello stesso metodo, introdotto nel 2019. Dall’instaurazione della repubblica Islamica al 2019 le elezioni in Iran sono state filtrate ma comunque libere, mentre dalle scorse elezioni del novembre 2019 la guida suprema Khamenei ha serrato ulteriormente i ranghi rendendo praticamente impossibile per qualsiasi voce anche vagamente critica del regime candidarsi. 

Ma parliamo dell’affluenza perché Samira ci da dei dati che sono un po’ diversi da quelli dichiarati dal regime di Teheran. Vediamoli.

Audio disponibile nel video / podcast

Infine Samira Ardalani ci ricorda quello che a suo avviso e immagino ad avviso dell’organizzazione di cui è portavoce sarebbe il giosto atteggiamento dei governi mondiali verso il regime di Teheran.

Audio disponibile nel video / podcast

Oggi è il famoso super tuesday, il giorno in cui in ben 15 stati in contemporanea si vota per le primarie negli Usa. In genere è la giornata in cui si capisce chi saranno i candidati, anche se quest’anno si sa già, da tempo, chi saranno. A fare notizia è quindi soprattutto la sentenza, arrivata ieri, della Corte suprema degli Stati Uniti, a maggioranza conservatrice, che ha confermato l’eleggibilità di Donald Trump in Colorado, uno degli Stati in cui si vota domani, di fatto valendo come precedente anche negli altri Stati in cui sono in corso procedimenti simili.

I giudici hanno accolto il ricorso dell’ex presidente contro la decisione della corte suprema statale di bandirlo per il suo ruolo nell’assalto al Congresso in base al 14/mo emendamento, che vieta le cariche pubbliche ai funzionari coinvolti in insurrezioni contro la Costituzione. La sentenza farà da precedente anche per tutti gli altri ricorsi pendenti negli altri Stati.

I giudici, all’unanimità, hanno stabilito che gli Stati, senza prima l’azione del Congresso, non possono invocare una disposizione costituzionale post-guerra civile per impedire ai candidati presidenziali di presentarsi alle urne.

La sentenza, di fatto, invalida i processi avviati in Colorado, Illinois, Maine e in altri stati per espellere Trump dalle primarie repubblicane a causa dei suoi tentativi di non riconoscere la vittoria alle elezioni del 2020 del democratico Joe Biden, tentativi culminati nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

In pratica il caso di Trump è stato il primo davanti alla Corte Suprema ad essere trattato in base a una disposizione del 14° emendamento che fu adottata dopo la guerra civile per impedire agli ex funzionari che “si sono impegnati in insurrezioni” di ricoprire una carica pubblica.

Nessun tribunale aveva mai applicato questo emendamento a un candidato alla presidenza, ciononostante la Corte Suprema del Colorado aveva deciso (con un voto sul filo del rasoio, 4-3) che la disposizione poteva essere applicata a Trump, che secondo quella corte aveva incitato all’attacco al Campidoglio. Questo nonostante nessun tribunale abbia ancora formalmente condannato Trump per i fatti del 6 gennaio.

Insomma, la questione è molto spinosa. Ed è forse più politica che giuridica, tant’è che vista la maggioranza molto conservatrice dei giudici della Corte suprema nessuno si aspettava realmente una decisione diversa. Comunque, la decisione della Corte di fatto ufficializza, ancor prima dei risultati delle primarie di oggi, che la sfida per le presidenziali sarà nuovamente, a meno di sorprese, Trump vs Biden.

Come saprete se seguite INMR, o magari lo sapete in generale, è attesa in questi giorni la sentenza dell’Alta corte londinese sul caso Assange e la sua richiesta di estradizione negli Usa. Ieri su ICC abbiamo intervistato una intervista a Pino Cabras, giornalista che ha seguito possiamo dire da sempre il caso Assange, e che racconta alla nostra Laura Tussi come Assange sia stato e sia un simbolo della libertà d’informazione. 

L’intervista mette in luce diversi temi centrali: dal valore simbolico della vicenda, alla libertà d’informazione ai tempi dei social, alle nostre democrazie e al sistema in cui vogliamo vivere. 

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