2 Ott 2024

L’esercito di Israele attacca il Libano via terra, 200 missili dall’Iran. Che succede adesso? – #993

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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È iniziata da due giorni l’operazione di terra dell’esercito israeliano in territorio libanese, a cui per adesso ha risposto un lancio di missili dall’Iran. Cerchiamo di capire cosa può succedere. Parliamo anche del nuovo report di Legambiente sullo stato di salute dell’edilizia scolastica – spoiler, non è buono – e di cosa fare per migliorarlo, delle ultime uscite di papa Francesco sull’aborto e infine di come Louisville, citta americana, ha sconfitto il temuto effetto isola di calore piantando migliaia di alberi. Infine parliamo di guardie zoologiche e biblioteche degli oggetti.  

Praticamente tutti i giornali di ieri e oggi titolano con la notizia sicuramente più importante e preoccupante di questi giorni. L’esercito israeliano ha iniziato quelle che chiamano “operazioni di terra” nel Sud del Libano, a cui ieri il regime iraniano ha risposto con un lancio di missili su Israele. 

Operazione di terra è l’espressione che usano molti giornali per non parlare più correttamente di invasione. In pratica, dopo settimane di bombardamenti via via più intensi, che fra le altre cose avevano ucciso il leader di Hezbollah Nasrallah, ha invaso il Libano del Sud, in un’operazione che era preparata da mesi secondo fonti dlel’esercito stesso, e che sarà il più breve possibile e che l’obiettivo è distruggere le infrastrutture militari di Hezbollah nei villaggi a ridosso della cosiddetta Linea Blu, ovvero quella linea di demarcazione tra Libano e Israele definita dalle Nazioni Unite nel 2000, dopo il ritiro delle truppe israeliane.

Perché dovete sapere che non esiste un confine terrestre univocamente riconosciuto fras i due paesi e quello attuale è una convenzione delle nazioni Unite dopo che già nel 1978 l’esercito israeliano aveva invaso il Libano del Sud, e c’era rimasto per più di vent’anni. 

Adesso, appunto, i capi dell’esercito di Israele descrivono l’invasione come “limitata” il più possibile nel tempo. Anche se, fra le righe, non escludono che possa evolvere in un’operazione più vasta e cis ono migliaia di truppe israeliane già schierate e messe in stato di allerta. 

Ora: come in ogni fase concitata, soprattutto se ci sono di mezzo conflitti e quindi paure, è normale perdere la lucidità e farsi trascinare dalle notizie. Qui però vogliamo cercare di capire. Capire cosa sta succedendo ma anche realisticamente cosa potrebbe succedere. almeno nel breve. E quindi, come facciamo spesso in questi casi, andiamo su Limes. Perché vi devo dire che gli analisti di Limes c’è chi li accusa di essere filorussi, filo israeliani, filo qualsiasi cosa, però molto spesso ci azzeccano, molto più spesso degli altri.

C’è un articolo molto approfondito di Lorenzo Trombetta, che in realtà è antecedente all’inizio dell’operazione di terra ma che resta molto valido nell’analisi più generale del conflitto. 

Secondo l’analista, l’operazione militare israeliana, che ha ucciso un numero enorme di persone, oltre 1000 morti in due settimane, ha un obiettivo molto specifico e a breve termine: indebolire Hezbollah quanto basta per eliminare, almeno temporaneamente, la minaccia dei razzi sul Nord di Israele e offrire a decine di migliaia di civili israeliani, sfollati da circa un anno, la prospettiva di tornare alle proprie case e lavori.

Leggo: “L’obiettivo di Netanyahu, al netto della retorica, non è quello di sconfiggere Hezbollah. Non perché non lo desideri, ma prima di tutto perché sa che non è realizzabile, nemmeno devastando due terzi del Libano. Del resto – Gaza docet – tentare di fare terra bruciata non basta per sconfiggere un attore geopolitico naturalmente organico alla società locale. L’unico modo per eliminare Hamas nella Striscia o Hezbollah in Libano sarebbe quello di deportare in massa tutti i civili.

A tal proposito, è la Cisgiordania a fornire un’esperienza diretta e sedimentata nella storia. Le deportazioni massicce di palestinesi, iniziate nella prima metà del secolo scorso e culminate nell’espulsione di circa 700 mila persone nel 1948, non sono attuabili in uno o due mandati di governo e incontrerebbero forte opposizione, anche dagli alleati di Israele. Di fronte a dinamiche che richiedono tempi lunghi e ai tempi brevi delle esigenze politiche, Netanyahu cerca di ottenere molto in Libano, rischiando relativamente poco. Tuttavia il risultato finale dipenderà soprattutto dalle mosse di Hezbollah e del suo alleato iraniano. 

E qui si passa a parlare di quella che potrebbe essere la reazione: “Il Partito di Dio (Hezbollah appunto) fin dall’8 ottobre 2023 ha affermato di voler contribuire alla “vittoria” del fronte anti-israeliano e accelerare la fine del progetto coloniale sionista. La loro tattica è stata quella di aprire il fronte Sud del Libano come “sostegno” a Hamas e ai palestinesi di Gaza, mantenendo per quanto possibile un equilibrio di forze con lo Stato ebraico e obbligando Israele a combattere su due fronti, con costi finanziari e umani non indifferenti.  

Adesso però Hezbollah e l’Iran sono a un bivio decisivo. C’è un’opzione massimalista: rispondere a Israele, attivando l’arsenale più sofisticato e potenzialmente devastante, coinvolgendo anche gli attori più distanti dell’asse della resistenza, come gli huthi in Yemen e le milizie filo-iraniane in Siria e Iraq. In tal modo si assisterebbe allo scoppio di un conflitto regionale su ampia scala dalle conseguenze disastrose per tutti, incluso il governo Netanyahu. 

Ma c’è anche un’opzione minimalista: dare l’impressione di poter rispondere colpo su colpo, annunciando di aver preso di mira una serie di obiettivi militari israeliani senza in realtà infliggere seri danni né alle infrastrutture né ai civili. Si tratterebbe di resistere sotto il fuoco nemico per un periodo limitato, sperando che qualcosa si inceppi nella macchina militare-politica dello Stato ebraico. Magari rallentata da pressioni internazionali, o confortata dall’idea di aver indebolito abbastanza il fronte filo-iraniano per tornare a trattare da una posizione di forza.   

Le prossime ore ci restituiranno una visione più chiara dello scenario. Certo è che restano aperte molte domande. Perché, di nuovo, forse per una distanza culturale, non riesco a capire il piano a lungo termine del governo di Netanyahu. Che al netto di uno strapotere militare sempre più evidente, sta continuando a fare terra bruciata attorno a Israele, di fatto alimentando nella regione e nel mondo l’odio anti israeliano e antisemita. 

Israele non è mai stata così isolata a livello globale. Paradossalmente è molto più isolata della Russia di Putin, oggi. Per dare la cifra dell’atteggiamento di Netanyahu verso il resto del mondo, pochi giorni fa il leader israeliano ha parlato alle nazioni unite definendole una «una palude di bile antisemita». 

È uscita l’analisi annuale di Legambiente Ecosistema scuola, sullo stato di salute delle scuole in Italia. Delle scuole intese proprio come edifici, dell’edilizia scolastica. Quindi non si parla qui di bontà dei modelli educativi ma dei luoghi in cui questi si svolgono. Che poi le due cose sono più legate di quanto sembri. Ricordo ancora che l’educatore Danilo Casertano raccontava che come prima cosa quando arrivava in una scuola cercava di renderla più bella possibile.

Comunque, vi do qualche dato riportato in un articolo del Sole 24 ore scritto da Eugenio Bruno e Michela Finizio. Solo 58 scuole di primo grado delle oltre 7000 analizzate sono costruite secondo i criteri della bioedilizia e solo 41 sono nuove, edificate negli ultimi cinque anni. 

Una scuola su tre ha bisogno di interventi di manutenzione urgenti; una proporzione che al Sud e nelle Isole diventa una su due.

Addirittura il certificato di agibilità degli edifici scolastici è presente mediamente in una scuola su due, con forti divari geografici fra Nord (68,8% degli edifici) e Sud (22,6%); gli accorgimenti per l’abbattimento delle barriere architettoniche, invece, che sono anche condizione di inclusione scolastica, vedono una differenza fra la media nazionale (80,2% degli edifici) e le Isole di 20 punti percentuali (61%).

Interessante anche leggere il dato sul collaudo statico, mediamente effettuato in una scuola su due, ma non al Sud (che è zona sismica) dove è invece presente nel 27,6% degli edifici. Infine, si conferma la situazione legata al certificato prevenzione incendi: è una norma di adeguamento molto travagliata perché è in costante transizione, con continue proroghe alla sua applicazione (l’ultima, contenuta nel decreto Milleproroghe, fissa come scadenza il 31 dicembre 2024). In questo caso, però, le scuole del Sud sono più avanti (66,9% rispetto al 55,9% della media nazionale), sebbene occorra anche qui leggere con attenzione il dato: sono in deroga, infatti, le scuole al di sotto dei 100 alunni, più facilmente quindi le scuole dei piccoli comuni.

Dichiarano di aver realizzato interventi di efficientamento energetico negli ultimi cinque anni l’82,1% delle amministrazioni: questi interventi sono andati a beneficio solo del 16,2% delle scuole e solo per il 16,3% sono stati di riqualificazione complessiva (per il 33,2% hanno riguardato doppi vetri e/o serramenti). Si riesce a incidere ancora poco sulle prestazioni energetiche: solo il 30% degli edifici scolastici è in possesso di una certificazione energetica; il 34,8% è fermo in classe G, mentre solo il 6,7% risulta essere in classe A.

Il dossier di Legambiente, inoltre, segnala il divario tra Nord e Sud in termini di capacità progettuale, di reperimento dei fondi e finalizzazione della spesa. In generale, la bassa dotazione media di finanziamenti spesi per la manutenzione ordinaria (al di sotto dei 10mila euro per edificio scolastico, un dato che nelle Isole si dimezza) mette in luce la difficoltà di trovare risorse nel bilancio ordinario.

In questo contesto continua a persistere un forte gap tra quanto viene stanziato e quanto poi viene effettivamente speso per la manutenzione straordinaria: 42.022 euro contro 23.821 euro in media per singolo edificio, nonostante gli stanziamenti siano aumentati rispetto alla media degli ultimi cinque anni (ferma a 36mila euro). Sono le amministrazioni del Nord e del Centro a stanziare ma soprattutto a spendere di più. Al Centro la spesa media per la manutenzione straordinaria è di oltre 36mila euro, al Nord di 28mila, mentre scende al Sud con quasi 7mila euro, per fermarsi a circa 4.500 euro nelle Isole.

I tempi di durata dei cantieri, utili come misura dell’efficienza del processo, in alcune regioni del Nord possono essere di otto-dieci mesi dallo stanziamento della risorsa all’opera ultimata; in diverse regioni del Sud possono arrivare a 24 mesi. «Con l’autonomia differenziata – commenta Claudia Cappelletti, responsabile nazionale scuola di Legambiente – si rischia di aumentare i divari tra le scuole del nord e sud. Senza un investimento sui Lep, di questo passo rischiano le aree più fragili del Paese, come il sud e le aree interne».

La definizione dei Lep non sarà indolore. Specie se dovessero confliggere con il Pnrr che mette al centro la perequazione e la lotta ai divari. Con quali risultati lo scopriremo solo nel 2026 quando il Piano di ripresa e resilienza arriverà a fine corsa.

Ci sono parecchi studi che mostrano come le persone, in media, tendano ad essere più propense al progressismo da giovani e a diventare via via più conservatrici con il progredire dell’età. Papa Francesco sembra aver preso la questione sul serio, e dall’essere considerato uno dei papi più aperti e progressisti della storia della Chiesa cattolica, sta facendo una sterzata vioenta verso posizioni sempre più reazionarie.

Cosa ci sia dietro, oltre all’età che avanza, onestamente non lo so, ma i fatti parlano chiaro. Dopo lo scandalo sulla frociaggine in Vaticano (con il papa che aveva detto due volte in ben due incontri a porte chiuse che appunto in Vaticano ci sarebbe troppa frociaggine), adesso arrivano parole pubbliche sull’aborto che suonano come uno schiaffo in faccia a milioni di persone.

Comunque, lasciate che vi legga le sue parole pronunciate durante una conferenza stampa in volo da Bruxelles a Roma. Rispondendo a un giornalista che gli chiedeva dell’aborto il Papa ha detto: «Le donne hanno diritto alla vita, la vita loro e la vita dei figli. Un aborto è un omicidio, si uccide un essere umano», aggiungendo «i medici che si prestano a questo sono, permettetemi la parola, sicari». «E su questo non si può discutere», perché «la scienza ti dice che al mese del concepimento ci sono tutti gli organi già… Si uccide un essere umano». 

Poi, riferendosi al re del Belgio Baldovino, famoso antiabortista, per il quale ha annunciato che si procederà con la causa di beatificazione, ha detto: «Il re è stato un coraggioso perché davanti a una legge di morte, lui non ha firmato e si è dimesso. Ci vuole coraggio, no? Quell’uomo è un santo e il processo di beatificazione andrà avanti».

Ovviamente le sue parole hanno sollevato un polverone e sono arrivate risposte sia dai rappresentanti dei medici che dalle organizzazioni pro scelta. Quelle del Papa sono parole durissime, molto gravi a mio avviso, che avranno forti ripercussioni e offriranno un appiglio anche a chi in varie parti del mondo sta cercando di introdurre politiche restrittive sull’aborto, che dopo anni è tornato ad essere un tema caldissimo di dibattito. 

Come al solito, quando si parla di aborto è utile ricordare che le politiche progressiste sull’aborto non sembrano aver aumentato di niente il numero di aborti, semplicemente hanno permesso alle donne, che comunque abortivano, di poterlo fare in maniera sicura e senza rischiare loro stesse la vita. 

Chiudiamo con una storia di successo che arriva da Louisville, città del Kentucky, negli Usa, con oltre 700.000 abitanti, che è riuscita a trasformarsi da una delle principali “isole di calore” degli Stati Uniti a un esempio virtuoso di riforestazione urbana. 

Racconta un articolo de L’Indipendente che “Grazie a una sovvenzione di 12,6 milioni di dollari derivante dall’Inflation reduction act (il colossale piano dell’amministrazione Biden contro il cambiamento climatico), la città ha combattuto l’aumento delle temperature, e i suoi effetti sulla popolazione, piantando migliaia di nuovi alberi.

Le ultime valutazioni hanno evidenziato che l’iniziativa ha apportato benefici tangibili sia all’ambiente che alla salute pubblica. La riforestazione, oltre alle temperature locali, ha infatti ridotto anche i livelli di infiammazione dei residenti. 

L’intervento è stato avviato – non solo a Louisville – in risposta alla rapida crescita del fenomeno delle isole di calore urbane, ovvero quel fenomeno per cui l’assenza di vegetazione fa salire la temperatura nelle città di diversi gradi. Considerate che Louisville nemmeno un decennio fa, era quasi del tutto priva di copertura arborea ed era diventata l’isola di calore in più rapida crescita degli Stati Uniti. 

Per invertire la rotta sono stati messi a dimora circa 8.000 alberi adulti, dando priorità ai quartieri più vulnerabili al calore e all’inquinamento atmosferico. 

Gli effetti di questa azione sono stati monitorati da un team di scienziati che hanno osservato un calo delle temperature e anche dei livelli di infiammazione del sangue dei residenti, dato che l’esposizione prolungata a temperature elevate, come quelle tipiche delle isole di calore urbane, può innescare una risposta infiammatoria nel corpo umano. 

Molto interessante, direi.

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