3 Mar 2023

Tutt* in piazza per il clima – #681

Scritto da: Francesco Bevilacqua
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Oggi è il 3 marzo la giornata in cui migliaia di persone si mobilitano per il clima in Italia e nel mondo. Vediamo quali sono i temi, le richieste e le proposte sul piatto. Ma oggi è un giorno importante anche per Taranto, perché in giornata è atteso il voto alla camera sul cosiddetto decreto “salva-Ilva”. Sempre da Taranto arriva un’interessante proposta che parla di comunità parrocchiali e comunità energetiche. E ancora, analizziamo un report che valuta l’impegno delle aziende nella transizione ecologica e torniamo a parlare di Covid, in relazione a un’indagine della Procura di Bergamo.

In circa 60 città italiane, fra stamattina e oggi pomeriggio scenderanno in strada migliaia di persone giovani e meno giovani per aderire allo sciopero globale per il clima. Il tema principale sul piatto è una decarbonizzazione sempre più lontana e al tempo stesso sempre più urgente, a maggior ragione in un momento storico in cui l’energia è non solo il terreno su cui si gioca una sfida fondamentale per l’ambiente, ma anche un pericoloso innesco di gravi diseguaglianze sociali ed economiche.

Proprio la politica economica è al centro della protesta, con le grandi multinazionali del carbone – ENI in testa – che stanno realizzando profitti senza precedenti, con le associazioni che denunciano il cattivo funzionamento della tassa sugli extraprofitti. 

Scrivono gli attivisti e le attiviste: “Gli scioperi. Le manifestazioni. Poi la pandemia. Poi ancora la guerra. Ma queste cose hanno una base comune: la direzione iniqua, consumista e ingiusta che il sistema economico globale ha preso. Possiamo ridirezionare le risorse per assicurare alle persone una vita più dignitosa, un’esistenza serena e appagante, piena di stimoli, di sogni e di speranze. Portiamo avanti le nostre rivendicazioni, che sono la nostra energia che sempre si rinnovano”.

Vengono avanzate anche diverse proposte concrete con possibili soluzioni alla crisi o almeno ad alcuni suoi aspetti: incentivare la nascita di CERS (comunità energetiche rinnovabili solidali), una serie politica di decarbonizzazione, il corretto impiego dei fondi per l’efficientamento, l’aumento dei finanziamenti al trasporto pubblico e altre misure riportate sul sito dei Fridays For Future.

Se sarete in piazza nella giornata di oggi vi invito a mandarci entro la giornata qualche foto e magari due righe di vostro commento alla nostra mail di redazione: redazione@italiachecambia.org, autorizzandoci a pubblicarle in un articolo collettivo.

Da diversi giorni è atteso il voto della Camera – il Senato l’ha già approvato – del decreto legge cosiddetto salva-Ilva. L’altroieri il Governo ha posto la fiducia per far passare il provvedimento entro il 6 marzo, termine ultimo per la conversione in legge. Nella giornata di oggi dovrebbe svolgersi la votazione definitiva, anche se purtroppo – vista anche la fiducia posta – l’esito finale sembra scontato.

In questi giorni chi si batte per Taranto e la sua gente è sconfortato, ma anche galvanizzato, perché lo scudo penale sembra davvero essere l’ultima spiaggia per difendere l’indifendibile, rischiando fra l’altro di scivolare ben oltre il limite della legalità. Questo concetto è espresso perfettamente dalle parole di Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink, che vi riporto testualmente.

“Qualcuno continua a chiedermi che cosa possiamo ancora fare. Io ho ampiamente spiegato, nei precedenti post, che si possono fare tante cose, nel solco della legalità. E se non vanno a buon fine? Se non andranno a buon fine, se le cose che facciamo nel solco delle regole democratiche, l’Italia subirà molto probabilmente una quinta condanna dalla CEDU (Corte Europea dei Diritti Umani) per aver violato i diritti umani, confermandosi ancor di più come “Stato canaglia”. Fino a quando potrà durare il continuo disconoscimento dei diritti umani, un disconoscimento che arriva a configurarsi come vero e proprio disprezzo per gli stessi? Io credo che questa vicenda della riesumazione dello scudo penale sia la cartina al tornasole del fallimento di tutto il progetto di risanamento dell’Ilva. Se dopo undici anni di cosiddetta “ambientalizzazione” i signori dell'”ambientalizzazione” hanno paura di finire sotto processo allora siamo di fronte al fallimento dell'”ambientalizzazione”. È chiaro, è palese. Se l’immunità penale viene estesa all’infinito per il futuro è perché hanno letto tutte le carte che abbiamo prodotto e hanno detto: gli ambientalisti hanno ragione, dobbiamo correre ai ripari. Ed ecco riesumato lo scudo penale “ad libitum” e per di più “erga omnes”. Triste dirlo ma avevamo ragione e chi approva oggi lo scudo penale lo fa perché avevamo ragione e ne teme l’evidenza scientifica. La legge va a sovrapporsi all’evidenza scientifica, fino a soffocare le ragioni”.

Vi ricordate delle comunità energetiche? Se queste parole non vi dicono nulla vi invito a leggere l’ampio approfondimento che qualche mese fa abbiamo dedicato a questa soluzione di co-produzione e consumo di energia. Sinora le comunità energetiche hanno riguardato cittadini che si mettevano insieme a a volte qualche azienda. Ma oggi sembra sia subentrato un soggetto nuovo.

Come riporta Ecquologia infatti, Monsignor Filippo Santoro, vescovo di Taranto e delegato Cei, ha esortato le oltre 25mila diocesi dichiarando il proprio auspicio che le comunità dei fedeli in tutte le parrocchie italiane diventino comunità energetica. «Se in ciascuna delle 25.610 parrocchie del nostro paese si costituisse almeno una comunità energetica per produrre 200 chilowatt, o facesse nascere più comunità che arrivano complessivamente a quella produzione di energia, avremmo dato il nostro contributo con 5,2 gigawatt di nuova produzione da fonti rinnovabili», ha dichiarato Monsignor Santoro.

Richiamando anche i contenuti dell’enciclica Laudato Si’, il Monsignore ha sostenuto che parrocchie e diocesi dovrebbero essere carbon-free nello loro scelte di gestione del risparmio e coniugare valore economico, dignità del lavoro  e sostenibilità ambientale, favorendo il cambiamento con una conversione a nuovi stili di vita non solo come cittadini, ma anche come comunità.

Un report dell’organizzazione non governativa Carbon Disclosure Project (CDP) ha analizzato a livello globale più di 18mila aziende, 4mila delle quali hanno pubblicato un piano di transizione climatica. Eppure di questi solo 81 risultano credibili secondo Carbon Disclosure Project, appena lo 0,4%. La denuncia arriva da Valori, che ha analizzato i risultati del report aggiungendo alcuni dettagli.

I piani di transizione dettano – o meglio, dovrebbero dettare – le strategie e i tempi di un’impresa per allineare le proprie attività alle raccomandazioni scientifiche dal punto di vista climatico, ovvero dimostrare a consumatori e azionisti che l’azienda in questione ha adottato una strategia che punta a azzerare le emissioni nette di CO2, coerentemente con l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a un massimo di 1,5 gradi centigradi.

Per verificare l’attendibilità di questi piani, Carbon Disclosure Project ha previsto 21 indicatori: solo 81 aziende hanno risposto a tutti e 21, il 13% delle aziende soddisfa tra i 14 e i 20 indicatori chiave e il 35% (più di sei mila) riferisce che svilupperà un piano di transizione entro due anni. La regolamentazione sta diventando sempre più stringente – i piani di transizione sono già obbligatori ad esempio nel Regno Unito e presto lo saranno nell’Unione Europea – ma questo studio dimostra che la maggior parte delle aziende non è realmente preparata a portare avanti strategie e azioni per la salvaguardia del clima. 

Si è chiusa l’inchiesta per epidemia colposa aperta dalla procura di Bergamo con 17 indagati, tra cui l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il Governatore della Lombardia Attilio Fontana e l’ex assessore della sanità lombardo Giulio Gallera. Fra i vari reati contestati a vario titolo ci sono quelli di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo, rifiuto di atti di ufficio e falso.

In particolare, le indagini degli inquirenti e degli investigatori della Guardia di Finanza si sono concentrate non solo sui morti nelle Rsa della Val Seriana e sul caso dell’ospedale di Alzano chiuso e riaperto nel giro di poche ore, ma soprattutto sulla mancata istituzione di una zona rossa  e sul mancato aggiornamento del piano pandemico, che era fermo al 2006 e che comunque non sarebbe stato applicato, anche se, stando agli elementi raccolti, avrebbe potuto contenere la trasmissione del virus.

Secondo i calcoli di Andrea Crisanti, senatore PD e consulente della Procura, una zona rossa in Val Seriana a partire dal 27 febbraio avrebbe consentito di risparmiare 4.148 morti, 2.659 se la chiusura fosse stata attuate a partire dal 3 marzo.

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