5 Set 2023

Davide contro Golia: quando in aula i cittadini sconfiggono multinazionali e stati sull’ambiente – #784

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Nel mondo si moltiplicano i casi di cittadini e cittadine che fanno causa a grandi aziende, Stati, o conducono battaglie per la salvaguardia di ecosistemi fragili. In questa puntata speciale ne raccontiamo alcune fra le più recenti e significative e diamo qualche dato sulla portata globale del fenomeno, cercando di interpretarlo.

La storia dei cittadini che sconfiggono la multinazionale è una storia che funziona molto. Che piace. È la storia ancestrale di Davide contro Golia, dei deboli che sconfiggono i potenti, dei buoni contro i cattivi, contiene una serie di archetipi molto potenti che fanno molta presa sulle nostre menti. Per questo vanno maneggiate con molta attenzione. Perché c’è il rischio di farle diventare una sorta di mitologia, di cedere al fascino della narrazione e non osservare davvero la realtà, i fatti. E anche quello, ancora più pericoloso, di dividere il mondo in buoni che sono davvero buoni e senza macchia, e cattivi spietati che vogliono distruggere il mondo.

Sappiamo che le cose del mondo sono molto più complesse di così, perciò addentriamoci in questa puntata con i fari accesi e le antenne dritte. Non so che animale siamo se abbiamo fari e antenne, forse un grillo che guida un camion, ma vabbè.

Comunque, perché il bisogno di fare una puntata sui casi di cittadini che portano le multinazionali in tribunale o indigeni che fanno battaglie in difesa dei propri territori, se poi ci devi fare questo mega pippone sul fatto che non esistono buoni e cattivi? 

Perché c’è un fatto interessante che dobbiamo osservare. Che se è vero che le lotte dei cittadini contro le grandi multinazionali ci sono sempre state, ci sono due novità interessanti: la prima è che prima si trattava di casi sporadici e isolati, mentre adesso i casi si stanno moltiplicando, e lo vedremo meglio dopo; la seconda è che prima molto spesso le aziende o i governi avevano la meglio, mentre oggi spesso i cittadini vincono nei tribunali. 

E questo significa che, al di là del sistema di potere costituito, alcune tematiche come la sostenibilità ambientale, la biodiversità, il cambiamento climatico hanno assunto un peso sempre maggiore nella nostra cultura, al punto da far valutare diversamente casi simili, rispetto al passato. 

Comunque. Iniziamo dal raccontare qualche caso concreto avvenuto negli ultimi mesi o settimane.

La prima storia arriva dalla Colombia, In una regione chiamata Golfo di Tribugà, che affaccia sulla costa pacifica della Colombia, le popolazioni indigene sono riuscite a bloccare un progetto imprenditoriale di costruzione di un grande porto commerciale.Ecco come Germana Carillo racconta l’accaduto su Greenme: “Stivali di gomma e guanti, si addentra tra i rami delle mangrovie alla ricerca del pianguas, un mollusco considerato una prelibatezza in Ecuador e in Messico, dove è conosciuto anche come concha negra e pata de mule.Lei è Marcelina Moreno, una donna afro di 51 anni che insieme alla sua comunità è decisa fino al midollo: “Non permetteremo a nessuno di distruggerlo perché è un patrimonio naturale”, dice. Parla del Golfo di Tribugá, in groviglio di circa 600 ettari di spiagge, di foreste vergini e mangrovie, sul quale squali imprenditori dal 2006 hanno puntato gli occhi.Prima che l’UNESCO lo dichiarasse riserva della biosfera a giugno scorso, infatti, questo posto incantevole – dove vivono anche 1.500 piante endemiche e le megattere vi partoriscono tra giugno e novembre – è stato il teatro di un’acerrima battaglia tra afrodiscendenti e indigeni e gli autori del progetto di un mega porto.Secondo gli ideatori, il porto avrebbe dovuto collegare il Pacifico con le regioni industriali della Colombia centro-occidentale. Risale almeno al 2006, quando una trentina di amministrazioni locali e imprenditori si unirono per progettare l’opera. I piani, che prevedevano la costruzione di circa 80 km di autostrada attraverso la giungla per collegare la città costiera di Nuquí con il resto del paese, procedettero a passo di lumaca finché nel 2018 l’allora candidato alla presidenza Ivan Duque dichiarò che il progetto sarebbe stato una priorità. Dopo aver vinto le elezioni quell’anno, il conservatore Duque inserì il lavoro nel suo piano di governo e ribadì la sua promessa.Ma gli abitanti dei comuni di Nuquí, Tribugá e Bahía Solano, per lo più afro, con una minoranza di indigeni Embera, ovviamente non sono mai scesi a compromessi, anche se – sulla carta –  il piano offriva alle comunità una “percentuale minima di profitti”. In una regione dove la disoccupazione è intorno al 30% e la povertà colpisce il 63% degli abitanti, il porto, infatti, prometteva di portare “molto lavoro”, ricorda Moreno. Ma d’altra parte, avrebbe portato distruzione alle mangrovie, alla terra, a tutto. Quindi (abbiamo detto) no al porto, conclude.A circa 200 chilometri a sud è attivo da decenni il porto di Buenaventura, il più grande terminal merci della Colombia sul Pacifico. Ma gran parte della popolazione vive ancora disoccupata, senza servizi pubblici e sotto il giogo di gruppi armati che trafficano droga nelle vicinanze del porto.Così, nel febbraio 2022, sotto la pressione di una massiccia campagna ambientalista, Duque ha fatto marcia indietro e ha chiesto all’UNESCO di designare l’area come riserva della biosfera.Tale titolo, concesso definitivamente il a giugno di quest’anno, dà priorità alla conservazione e allo sviluppo sostenibile e ha definitivamente dato uno “slancio internazionale” alla richiesta della popolazione locale di fermare il porto. Oggi quindi, grazie anche alle maggiori tutele offerte dal nuovo governo di Gustavo Petro, il preziosissimo ecosistema del Golfo sembra aver scongiurato una tremenda sciagura

Ci spostiamo negli Stati Uniti, e ci spostiamo anche su L’Indipendente dove Gloria Ferrari racconta la storia di un gruppo di giovani del Montana, uno Stato occidentale degli USA, ha vinto in tribunale un’importante causa ambientale. Il giudice ha ritenuto incostituzionale la legge in vigore che non prevede – anzi vieta – di tenere in considerazione l’impatto inquinante dei progetti sui combustibili fossili nel momento della loro approvazione. 

Vi racconto meglio. 16 ragazzi – di età compresa tra i 5 e i 22 anni, quindi molto giovani – nel 2020 hanno trascinato lo Stato del Montana in tribunale. Il motivo è che, a loro avviso,  le autorizzazioni senza vincoli concesse per la produzione di carbone e gas naturale hanno inasprito la crisi climatica, infrangendo quell’emendamento alla Costituzione del 1972 per cui il Montana ha il dovere di tutelare l’ambiente. 

Alcuni dei ragazzi del gruppo hanno preso parte al processo per spiegare, in prima persona, come il cambiamento climatico abbia influenzato e cambiato le loro vite. Rikki Held, di 22 anni, ha raccontato di come la siccità abbia tramortito i suoi animali, uccidendone una parte. 

La sentenza del giudice parla chiaro. “Il governo sta violando i diritti dei giovani”, si legge, “e le emissioni di gas serra dello Stato hanno dimostrato di essere un fattore sostanziale nel causare impatti climatici negativi sull’ambiente, danneggiando i querelanti”. Inoltre “I querelanti hanno un diritto costituzionale fondamentale a un ambiente pulito e sano”, ha sottolineato il giudice, per cui “lo Stato e gli individui sono responsabili del mantenimento e del miglioramento dell’ecosistema per le generazioni presenti e future“.

D’ora in poi, tenendo conto della decisione del giudice, il Montana, sul cui territorio sono presenti 5mila pozzi di gas, 4mila di petrolio, quattro raffinerie di petrolio e sei miniere di carbone, prima di approvare o rinnovare progetti che hanno a che generano emissioni, dovrà valutarne l’effetto sul Pianeta.

Leggo: “Anche se, quello in questione, è il primo caso di processo climatico, condotto da giovani, ad arrivare a sentenza negli Stati Uniti, sono in corso decine di contenziosi che puntano ad inchiodare alle loro responsabilità ambientali aziende e governi di tutto il mondo. Per esempio, multinazionali del fossile come Exxon e Chevron sono accusate di aver taciuto pur sapendo da tempo che il loro operato avrebbe alimentato il riscaldamento globale. Shell, uno dei quattro principali attori privati mondiali nel comparto del petrolio e del gas naturale, è stata per esempio più volte trascinata in tribunale. Uno degli ultimi episodi risale al febbraio scorso, quando circa 14.000 persone, appartenenti a due comunità nigeriane differenti, dopo anni di tentativi sono riuscite a rivolgersi all’Alta corte di Londra – un tribunale che sorveglia l’operato di quelli inferiori – per chiedere giustizia contro il colosso dei combustibili fossili, accusandolo di aver inquinato consapevolmente –ignorando le fuoriuscite sistemiche di petrolio dai suoi oleodotti – le loro fonti d’acqua”.

Tuttavia, almeno per ora, le numerose denunce non sembrano scalfire l’operato delle imprese petrolifere: le maggiori fra queste nel solo 2022 hanno registrato profitti annuali da record grazie all’aumento dei prezzi degli idrocarburi. I profitti di Shell, nello specifico, hanno raggiunto i 39,9 miliardi di dollari, il doppio dell’anno precedente e i più alti dei suoi 115 anni di storia: hanno superato, infatti, il suo precedente record del 2008 di 31 miliardi di dollari.

Un altro caso molto interessante risale a qualche mese fa, a febbraio scorso per la precisione, ma credo sia importante accennarlo perché in quel caso a far causa a una multinazionale sono stati, per la prima volta nel mondo, gli azionisti stessi. 

La causa è stata portata avanti dall’organizzazione ClientEarth, appoggiata da diversi investitori istituzionali, che ha denunciato la compagnia olandese Shell per “non aver gestito i rischi materiali e prevedibili posti all’azienda dal cambiamento climatico”. In pratica gli azionisti di Shell stanno sostenendo di essere stati penalizzati dagli 11 direttori del colosso petrolifero sulla base del fatto che quest’ultimo non si sarebbero impegnati a sufficienza nella transizione ecologica e negli obiettivi di riduzione delle emissioni, minando il futuro dell’azienda stessa.

Gli obiettivi climatici di Shell infatti porterebbero ad un realistico calo nel rilascio di anidride carbonica di appena il 5%mentre nel 2021 il Tribunale de L’Aia ha imposto alla compagnia obiettivi vincolanti ben più ambiziosi, di almeno il 45% di riduzione entro fine decennio, nel  primo grande processo di giustizia climatica conclusosi con la vittoria degli attivisti, alla cui sentenza l’ONG ClientEarth si sta ora appellando.

 «Per garantire che l’azienda rimanga competitiva nei mercati energetici del futuro, dato che i Paesi e i clienti di tutto il mondo scelgono un’energia più economica e pulita, Shell deve abbandonare i combustibili fossili per adottare un modello commerciale alternativo», ha spiegato ClientEarth nei giorni in cui ha avanzato la causa al cospetto dell’Alta Corte dell’Inghilterra e del Galles.In questo caso non abbiamo ancora una sentenza, ma mi sembrava un caso interessante da citare.

Come vi dicevo all’inizio, le cause in corso contro i colossi sono sempre di più. ma sepre di più quante? Un articolo di Flavia CarloRecchio su Huffington Post mette assieme un po’ di numeri. 

“Inazione climatica”, “diritti umani”, “catastrofe ambientale” sono alcuni dei termini che ricorrono nelle cause intentate da gruppi di cittadini contro Stati sovrani o contro le multinazionali. Un fenomeno in crescita che dimostra che la battaglia per il pianeta si svolge (anche) nelle aule di tribunale. La giustizia climatica è tutt’altro che un termine astratto. Per la Treccani è il “principio etico per cui esiste parità e uguaglianza di diritti, doveri e risorse di fronte ai cambiamenti climatici in dimensione locale e planetaria”. Nelle aule dei tribunali è entrata sotto forma di denunce da parte di associazioni e gruppi cittadini ai danni degli Stati sovrani. E le delibere dei giudici piano piano aiutano a fare chiarezza.

Secondo l’Unep, il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, nel 2022 sono stati censiti oltre 2.600 contenziosi sul tema. Un aumento esponenziale rispetto a soli cinque anni prima, quando se ne contavano 884. L’Unep non tiene conto solo del numero dei processi: ogni anno pubblica un rapporto dettagliato con le principali sentenze emesse dai tribunali nazionali e internazionali sui temi ambientali.

Tra le sentenze europee più importanti risalta quella del 2019 in cui la Corte suprema olandese si pronuncia a favore della fondazione ambientalista Urgenda, che nel 2013 aveva citato in giudizio il governo nazionale insieme ad altri 886 cittadini e cittadine. Il gruppo accusava il governo olandese di non aver fatto abbastanza per tutelare la salute dei cittadini dagli effetti negativi prodotti dai cambiamenti climatici. E la Corte suprema gli ha dato ragione. Per la prima volta, uno Stato membro dell’Unione Europea è stato costretto a ridurre le emissioni di gas serra con un obiettivo preciso: almeno il 25% di emissioni in meno entro la fine del 2020, rispetto al livello del 1990. Con meccanismi simili, nel 2020 la Corte suprema irlandese ha bloccato un piano di abbattimento delle emissioni perché non conforme agli obiettivi stabiliti da una legge nazionale del 2015.

La rampa di lancio del biennio 2019-2020 ha consentito il raggiungimento di risultati di portata storica nel 2021, tanto che alcuni ricercatori lo considerano “l’anno della giustizia climatica”. Nel 2021 c’è stata la pronuncia del tribunale dell’Aia contro la Royal Duch Shell, la multinazionale britannica che opera nel settore petrolifero e petrolchimico. Grazie all’impegno di molte ong tra cui Greenpeace e ActionAid, e 17 mila cittadine e cittadini olandesi, Shell dovrà abbattere il volume annuale delle emissioni di CO2 del 45% entro il 2030 anziché entro il 2035. La sentenza è storica perché per la prima volta ha riguardato una multinazionale e non un governo e può rappresentare un modello per decisioni future. La percentuale approvata non è casuale: secondo la comunità scientifica internazionale, è l’impegno necessario per mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1.5 gradi.

Negli Stati Uniti c’è da osservare con attenzione la decisione imminente del tribunale del Montana, dove per la prima volta è stata chiamata in causa la Costituzione: 16 giovani hanno contestato il sistema energetico basato su combustibili fossili, responsabile di erodere le risorse pubbliche tutelate dalla costituzione.

Anche l’Italia partecipa ai processi per la giustizia climatica. Da una parte ci sono le accuse allo Stato, ritenuto responsabile “della situazione di pericolo derivante della sua inerzia nel contrasto all’emergenza climatica”. Gli accusanti, ovvero 24 associazioni e 179 individui, chiedono di ridurre le emissioni di gas serra del 92% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. Un obiettivo molto ambizioso rispetto all’impegno complessivo preso dall’Unione Europea del 55%. Il processo, la cui ultima udienza risale al giugno 2023, fa parte di una campagna di sensibilizzazione chiamata “Giudizio Universale” creata dall’associazione A Sud nel 2019 e che ha portato all’azione giudiziaria nel 2021.

Anche Eni è chiamata a rispondere delle proprie azioni da due ong (Recommon e Greenpeace) e 12 cittadine e cittadini. Le richieste sono simili a quelle rivolte alla Royal Duch Shell, ovvero la riduzione delle emissioni del 45% entro il 2030. L’Eni a sua volta ha citato in giudizio Greenpeace e ReCommon per diffamazione, richiedendo un risarcimento danni.

Un ultimo sguardo alla questione giustizia climatica ci informa che i contenziosi avvengono maggiormente nei Paesi ad alto reddito. Quelli a basso reddito, come l’America latina, alcuni Paesi del continente africano e di quello asiatico, sono i più colpiti dagli effetti dei cambiamenti climatici eppure hanno poco spazio di manovra nelle aule di tribunale. Alcuni hanno deciso di riunirsi in coalizione presso le Nazioni Unite per chiedere un cambiamento del sistema finanziario globale, che li penalizza due volte perché li costringe a pagare per una crisi climatica che non hanno causato e di cui sono le prime vittime

Insomma, senza cedere alla narrazione facile dei buoni contro i cattivi, consiglio di prendere questo fiorire di casi come un sintomo del fatto che la coscienza ecologica globale è in netta espansione. Io non so se questa cosa arriva oltre il tempo massimo, né se sarà sufficiente a salvarci dalla catastrofe climatica ed ecologica. Ma è indubbiamente un segnale incoraggiante. 

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