24 Set 2024

L’impatto ecologico devastante dell’intelligenza artificiale e come gestirlo – #988

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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L’impatto ambientale delle nuove tecnologie e in particolare dell’IA continua a crescere vertiginosamente, richiedendo sempre più energia e risorse e ponendoci di fronte a nuovi interrogativi e dilemmi sia individuali che come società. Intanto in Sri Lanka è stato eletto un marxista leninista come nuovo presidente e in Italia sono state superate le 300mila firme raccolte per un referendum sul diritto di cittadinanza per stranieri. Parliamo anche di una nuova tecnologia italiana che potrebbe aiutarci a sconfiggere gli incendi e di un nuovo decreto sulla moda sostenibile che forse non aiuta davvero la moda a diventare più sostenibile.

Ciclicamente, ormai lo sappiamo, torna a riproporsi il tema dell’impatto ecologico delle nuove tecnologie. Lo abbiamo visto con i motori di ricerca e le grandi compagnie del web, lo abbiamo visto con il mining dei bitcoin, adesso la questione si ripropone per l’ennesima volta con l’intelligenza artificiale.

Leggo su Wired, articolo a firma di Chiara Crescenzi: 

“Una bottiglia d’acqua per ogni email di 100 parole scritta da ChatGpt: questo il prezzo che deve pagare l’ambiente per il funzionamento corretto dei chatbot AI. A rivelarlo è un nuovo studio condotto dal Washington Post in collaborazione con i ricercatori dell’Università della California di Riverside, che hanno analizzato la quantità di risorse naturali che servono a ChatGpt per espletare le sue funzioni più elementari. 

“Ogni richiesta su ChatGpt passa attraverso un server che esegue migliaia di calcoli per determinare le parole migliori da usare nella risposta”, scrive il WP precisando che i server generano calore per eseguire i calcoli necessari.

Proprio per questo, all’interno dei data center che li ospitano vengono utilizzati sistemi ad acqua per raffreddare le apparecchiature e mantenerle in funzione: secondo Shaolei Ren, professore associato, l’acqua trasporta il calore generato dai server in torri di raffreddamento, così da aiutarlo a uscire dall’edificio. In quelle aeree in cui le risorse idriche sono relativamente scarse, invece, si predilige l’uso dell’elettricità, al fine di raffreddare le strutture con sistemi simili a grandi condizionatori. Questo significa che la quantità di acqua ed elettricità richieste per l’elaborazione di una singola risposta dei chatbot AI dipende dall’ubicazione del data center, oltre che dalla vicinanza dell’utente alla struttura.

In Texas, per esempio, ChatGpt consuma appena 23 cl di acqua per generare un’email di 100 parole. Mentre, quando un utente fa la stessa richiesta al chatbot da Washington, vengono consumati quasi 1,5 l per ogni email. 

Quanto al consumo di energia elettrica, secondo il Washington Post, sempre per un’email di circa 100 parole ChatGpt richiede la stessa quantità necessaria a far funzionare più di una dozzina di lampadine a led per circa un’ora. E se solo un decimo degli americani usasse ChatGpt per scrivere un’email una volta a settimana per un anno, l’il processo consumerebbe la stessa quantità di energia che ogni singola famiglia di Washington consuma in 20 giorni. Una cifra notevole che non passa inosservata.

A peggiorare la situazione, poi, c’è l’ubicazione delle strutture che ospitano i server. Se un data center si trova in una regione calda e gestisce il raffreddamento tramite sistemi di condizionamento, ci vorrà molta elettricità per mantenere i server a una temperatura bassa. Allo stesso modo, se le strutture utilizzano il raffreddamento ad acqua e si trovano in aree soggette a siccità, rischiano di impoverire la zona di una preziosa risorsa naturale. 

Secondo alcuni documenti condivisi dal quotidiano Oregonian, per esempio, i data center di Google a The Dalles, a circa 80 miglia a est di Portland, consumano quasi un quarto di tutta l’acqua disponibile nella città. E Meta, invece, ha avuto bisogno di 22 milioni di litri d’acqua per addestrare il suo ultimo modello Llama 3.1. E la situazione non farà altro che peggiorare, di pari passo con l’evoluzione dell’intelligenza artificiale e dei chatbot.

Un’altra notizia sempre sullo stesso filone, mi sposto sul Fatto Quotidiano, riguarda Microsoft, che ha recentemente annunciato di aver stretto un accordo ventennale di acquisto di energia con Constellation Energy, uno dei più grandi produttori di energia degli Stati Uniti. Accordo che consentirà di rilanciare l’unità 1 della centrale nucleare di Three Mile Island in Pennsylvania, dove nel 1979 avvenne il più grave incidente nucleare nella storia degli Stati Uniti. 

Secondo quanto riportato da Reuters, una volta ottenuti i permessi necessari, Constellation prevede di spendere circa 1,6 miliardi di dollari per riavviare l’impianto. Secondo le stime la struttura entrerà in vigore nel 2028. In base all’accordo, reso noto venerdì, la compagnia fornirà a Microsoft 835 megawatt di energia “affidabile, pulita e priva di emissioni di carbonio”. “Il riavvio dell’impianto aggiungerà 16 miliardi di dollari al PIL dello stato e genererà più di 3 miliardi di dollari in tasse statali e federali” si legge sul sito web della compagnia.

Anche qui le motivazioni, anche se non sono state esplicitate, sono da ricercarsi nella crescita della domanda energetica di Microsoft, legata soprattutto al crescente utilizzo del cloud computing e dell’intelligenza artificiale. E al fato che Microsoft punta a diventare carbon negative entro il 2030 e considera l’energia nucleare come pulita. 

Ora, devo dire che almeno l’idea di rinnovare un vecchio impianto ha un senso dal punto di vista energetico, perché migliora sensibilmente l’eroei del nucleare, ovvero quel rapporto fra energia investita per creare un impianto e energia che ci si aspetta che ci ritorni. Al netto di ciò, restano le classiche criticità legate agli impianti nucleari, ovvero la sicurezza e lo smaltimento delle scorie. 

Insomma, come al solito la tecnologia corre in avanti senza prestare troppa attenzione al tema della sostenibilità. Qualche giorno fa chiacchierando in un pranzo fra amici un conoscente mi ha parlato di un libro che si chiama L’università del disastro, del pensatore francese Paul Virilio, in cui Virilio sostiene sostanzialmente che ogni tecnologia porti con sé il seme di un disastro, e che questo disastro è causato non dal fallimento ma proprio dal successo spropositato della suddetta tecnologia. E che quindi dovremmo studiare e imparare dai disastri, se vogliamo smettere di subirli.

Ecco, forse farsi le domande sulla sostenibilità prima di avviare certi meccanismi potrebbe essere utile, anche se è esattamente l’opposto della filosofia startuppara, in cui prima si investe fregandosene di leggi, sostenibilità, etica e qualsiasi altra cosa, confidando nel fatto che se l’iniziativa non avrà successo non queste cose non saranno un problema, se invece lo avrà ci saranno sufficienti soldi per occuparsi dopo di quei problemi, o comunque sarà troppo tardi per tornare indietro. 

Intanto in Sri Lanka ci sono state le elezioni presidenziali e il risultato ha sorpreso un po’ tutto, guadagnandosi titoli sui principali giornali mondiali.

A vincerle infatti è stato Anura Kumara Dissanayake, leader del partito marxista-leninista che è diventato così il presidente più di sinistra della storia del paese o più probabilmente, come scrive l’agenzia di stampa AFP, il primo presidente di sinistra del Paese. 

Nonostante le origini marxiste del suo partito, Dissanayake ha adottato via via posizioni più moderate, promuovendo anche il settore privato e in alcuni casi assumendo un atteggiamento che molti media definiscono nazionalista e a favore della maggioranza etnica Sinhala. 

Nonostante sia relativamente giovane, ha 55 anni, la sua carriera politica è molto lunga e iniziò nel 1987, durante una sanguinosa insurrezione armata guidata dal suo partito contro il governo, che fallì e portò alla sua repressione.

Negli anni, il partito marxista leninista ha abbandonato le sue posizioni più radicali, e

Dissanayake divenne segretario del partito nel 2014, guidando la trasformazione verso una coalizione politica più ampia, ma ottenendo scarsi successi elettorali fino alla crisi economica del 2022, che vide il crollo del governo dei Rajapaksa. Le proteste contro la corruzione e la cattiva gestione del paese portarono Dissanayake a proporsi come un candidato di cambiamento, concentrandosi sulla lotta alla corruzione e sul miglioramento delle condizioni di vita.

Dissanayake ha vinto le elezioni con oltre il 42% dei voti, promettendo di sciogliere il Parlamento e di indire nuove elezioni per rafforzare il suo mandato. 

Intanto sta crescendo e attirando l’attenzione dei media una raccolta firme per un referendum che vuole ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale, necessari per i cittadini extra-Ue per poter presentare domanda di cittadinanza italiana. Una anomalia tutta italiana, che prevede disparità di trattamento a seconda che le persone in questione provengano da altri paesi comunitari oppure no.

Parliamo di immigrati regolari, con tutti i documenti del caso e che risiedono stabilmente in Italia ma che oggi devono aspettare 10 anni prima di poter presentare la domanda per la cittadinanza. La proposta vuole ridurre questo tempo di attesa a 5 anni, abrogando alcuni passaggi di una legge del 1992 e ripristinando fra l’altro la legge precedente, che prevedeva appunto un’attesa di soli 5 anni.

Come spiegano sul sito dell’iniziativa, www.referendumcittadinanza.it, si tratta di una questione che esula il dibattito in corso fra ius soli e ius scholae, e ne è in wqualche modo complementare. Lo ius soli riguarda infatti solo chi nasce in Italia (circa 500mila persone all’anno), lo ius scholae solo chi completa un ciclo di studi di 5 anni (circa 135mila persone all’anno), mentre questa proposta riguarda quella fetta di persone che risiedono legalmente in Italia da almeno 5 anni e i rispettivi figli minori (circa 2,5 milioni di persone).

La cosa interessante, oltre alla proposta in sé, è l’incredibile riscontro che sta avendo. La raccolta firme è letterlamente esplosa nelle ultime ore, con il sito che è andato in tilt nel pomeriggio di ieri per i troppi accessi. Nel giro di poche ore sono state raggiunte e superate le 300mila firme, l’obiettivo finale da raggiungere entro il 30 settembre è quello di 500mila. 

Anche un sacco di personaggi dello spettacolo hanno firmato e lanciato inviti a firmare, da Zerocalcare a Roberto Saviano, da Alessandro Barbero a Mimmo Lucano, a Matteo Garrone, a Ghali, a Giobbe Covatta, a Patrick Zaki, Aurora Leone, Iacopo Melio, Ascanio Celestini e così via.

Firmare è molto semplice e si può fare online. Basta avere lo spid. Ci si collega sulla piattaforma www.referendumcittadinanza.it. Da lì ci si collega al sito del ministero della Giustizia e in pochi click si firma con tanto di ricevuta. Altrimenti si può votare ai banchetti dei promotori o nelle loro sedi, basta avere con sé un documento d’identità.

Torniamo a parlare di incendi, ma questa volta non per raccontare il dramma degli incendi ma per raccontare una possibile soluzione. Qualche giorno fa abbiamo parlato dell’analisi tattica degli incendi come sistema di gestione in tempo reale. Tanto lavoro però si può e si deve fare prima che le fiamme divampino e diventino incontrollabili. E allora c’è un articolo di GreenMe che racconta di una nuova tecnologia tutta italiana che mi è sembrata molto interessante. 

A inventarla è A2net, una startup italiana che ha sviluppato questa soluzione innovativa chiamata Silvanet, una rete di sensori basati sul modello IoT per il rilevamento precoce degli incendi e il monitoraggio delle foreste. 

Silvanet – spiega l’articolo, a firma di Marco Crisciotti, è stato installato nel comune di Troina, in provincia di Enna, una delle aree più a rischio d’Italia per quanto riguarda gli incendi boschivi. E qui ha dimostrato di poter monitorare vaste aree forestali in modo efficace e sostenibile. In pratica il sistema è basato su dei piccoli sensori, alimentati a energia solare e sparsi nella foresta, che rilevano i gas emessi dagli incendi nella fase iniziale, consentendo interventi tempestivi. 

Oltre a prevenire gli incendi, Silvanet monitora anche la salute delle foreste, raccogliendo dati ambientali cruciali e rilevando attività illegali come la deforestazione. Grazie all’intelligenza artificiale, il sistema riduce i falsi allarmi e migliora l’efficienza. Non ho avuto modo di verificare la veridicità di tutte le informazioni contenute nell’articolo, ma il concetto di questa tecnologia mi sembra interessante.

Chiudiamo con una notizia che prendo direttamente dal sito della Lav., la lega anti vivisezione, su cui leggo che Il Ministero per le Imprese e il Made in Italy ha pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale il Decreto “Misure per la transizione verde e digitale nella moda” in attuazione della Legge sul cosiddetto “Made in Italy” e atteso da oltre 7 mesi.

Solo che è un decreto un po’ fuffa, almeno secondo il parere di LAV, che lo definisce inefficace e fuorviante, perché non finanzia la ricerca e lo sviluppo di materiali sostenibili di nuova generazione nelle produzioni moda, ma finanzia invece le imprese affinché possano ottenere le certificazioni degli standard industriali che regolamentano le produzioni animali. 

Ciò, continua l’organizzazione, in palese contrapposizione con le scelte che diversi brand moda hanno già assunto di dismettere in via definitiva l’approvvigionamento di alcuni materiali animali, come piume, angora o mohair, proprio perché considerati non sostenibili.

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