12 Apr 2023

Il caso del runner ucciso dall’orso e i pezzi mancanti – #708

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Sta facendo discutere la vicenda del runner ucciso da un orso in Trentino, e la conseguente ordinanza di uccisione dell’orso. Le idee a riguardo sono contrastanti, ma credo che manchino diversi elementi al dibattito. Si discute molto anche della Cop 28, la conferenza sul clima delle Nazioni unite che quest’anno si terrà negli Emirati Arabi Uniti, uno dei principali produttori di petrolio al mondo. Parliamo anche del land grabbing dei paesi del Golfo persico, di nuovi file segreti americani che inchiodano l’Egitto e della casa farmaceutica Moderna che dice che fra pochi anni metterà in commercio vaccini contro il cancro, le malattie cardiovascolari e quelle autoimmuni.

Allora, sono diversi giorni che si parla di orsi per via di un fatto di cronaca, tragico, di cui immagino avrete sentito parlare. Comunque, ve lo riepilogo. Mercoledì scorso un giovane uomo trentino di 26 anni, che stava correndo per i boschi, è stato aggredito e ucciso da un orso. Nei giorni successivi Il presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, ha firmato l’ordinanza urgente per identificare e uccidere l’orso, e sta ragionando anche sull’uccisione di altri tre esemplari ritenuti pericolosi per l’uomo. La notizia ha fatto scalpore, sia perché è il primo caso conosciuto in Italia di una persona uccisa da un orso, sia perché sono nate polemiche sia da alcuni gruppi di abitanti del luogo che vorrebbero che la politica ordinasse abbattimenti selettivi, sia da alcune organizzazioni per la difesa dei diritti degli animali che invece chiede che nessun orso venga ucciso.

La polemica poi si è allargata a tutte le politiche di reintroduzione e gestione degli orsi in Trentino. 

Vediamo di vederci più chiaro aggiungendo qualche elemento secondo me necessario alla riflessione. E per farlo rispolveriamo la rubrica #Iononmirassocial perché alcuni dei contenuti più interessanti e delle analisi più puntuali che ho letto le ho trovate per l’appunto sui social, e non sui giornali.

Partiamo col dire che l’orso bruno in Trentino è stato reintrodotto dagli esseri umani, seguendo un piano ben preciso, un progetto finanziato dall’Ue nel 1996, che si chiamava Life Ursus e prevedeva che in 20-40 anni si arrivasse ad avere 40/50 orsi in tutta l’area del progetto (nelle zone del Trentino occidentale, Bolzano, Sondrio e Verona). Così fra il 99 e il 2002 furono introdotti 10 esemplari di orsi bruni dalla Slovenia. Solo che per una serie di fattori che non erano stati considerati (ad esempio alcune barriere costruite dall’uomo difficili da superare, hanno fatto sì che gli orsi restassero concentrati in poche zone e che diventassero più di quanti immaginati inizialmente. In totale, al momento, sono quasi 150 in 23 anni (almeno il triplo di quanto immaginato).

Come spiega la pagina Facebook divulgativa dell’autore Mirko Maccani, “Il fatto che siano quasi 150 e concentrati in poche zone provoca incontri frequenti fra orsi e persone ma anche nervosismo fra orsi. I maschi in lotta per il territorio si scontrano spesso e  le femmine invece, essendoci troppi maschi, sono nervose e preoccupate per i loro cuccioli, (i maschi uccidono i piccoli). I giovani maschi hanno paura dei vecchi, e cosi via. Tutto questo rende gli animali nervosi e sull’attenti, e ciò si puó anche trasformare in comportamenti strani, atipici e forse pericolosi”.

Non li si può nemmeno spostare perché le altre regioni non li vogliono. In Appenino non li puoi portare perché si incrociano con il marsicano, rischiando la perdita di quella specie unica e nemmeno in Slovenia li puoi riportare perché non vogliono orsi non nati li e comunque li è presente un piano di abbattimento per il controllo numerico”.

A tutto ciò aggiungiamoci una popolazione umana che invece non è più abituata alla convivenza con gli orsi. Lo era forse ottant’anni fa, ma in questi ottant’anni di parentesi in cui gli orsi non ci sono stati, le abitudini delle persone, le conformazioni dei centri abitati, le società umane sono cambiate moltissimo. 

In particolare, come spiega in un altro post lungo e approfondito un altro autore, Maurizio Vitale, in arte Jack Daniel, che al contrario di ciò che il nome lascerebbe intendere esprime pensieri a mio avviso molto lucidi, in Europa la natura che viviamo è il frutto di un processo di antropizzazione durato secoli, per cui siamo abituati a una natura molto addomesticata. Addomesticata dai nostri trisavoli, che la temevano al punto da distruggerne buona parte. La nostra generazione, assieme a parte della precedente, ha capito che quella strada non era più percorribile perché ci saremmo estinti anche noi assieme al resto della natura se avessimo continuato a distruggere gli ecosistemi, e allora sono nate le politiche di conservazione, basate però spesso su un’idea idilliaca e inoffensiva della natura.

Insomma, per dirla con le parole del professor Giuseppe Barbiero, che spesso ci ha parlato di questi due concetti, c’è stata una prima fase in cui ha prevalso la biofobia, una seconda in cui ha prevalso la biofilia, ma probabilmente abbiamo bisogno di entrambi questi elementi dentro, per trovare il giusto equilibrio. Credo anzi che non ci possa essere una reale e consapevole biofilia senza una giusta biofobia.

Mi spiego meglio: per riuscire a tutelare realmente gli ecosistemi e la natura dobbiamo ricominciare a considerarci parte di essa, una specie fra le specie, in un disequilibrio dinamico all’interno di una intensa e a volte problematica rete di relazioni.

Mi sembra che vada in questa direzione, ad esempio, la proposta del WWF di introdurre, come avviene in altri paesi, uno strumento banale come lo spray al peperoncino antiorso, uno spray urticante da usare ovviamente solo in caso di aggressione, che infastidisce e mette in fuga l’animale senza danneggiarlo. Poi non lo so se questa è una misura sufficiente oppure no. 

Detto ciò, credo che la situazione sia questa. Se vogliamo sopravvivere come specie dobbiamo fare un passo indietro, ritirarci un po’ e lasciare più spazio alle altre specie. Questo è un dato di fatto. Questo vorrà dire ritrovare un equilibrio diverso con il resto degli ecosistemi, reimparare a interagirci, risviluppare anche una sana biofobia, e accettare il fatto che ogni tanto fatti come questo potranno accadere. 

Che è una cosa terribile, è una tragedia, figuriamoci. E ciò non vuol dire non fare tutto il possibile per prevenire il rischio, ci mancherebbe. Ma vivere, in sé, comporta una certa percentuale di rischio, e allocarlo da una parte potrebbe voler dire sottrarlo altrove. Vi faccio un esempio per farmi capire. Ieri sono andato a cercarmi, per curiosità un dato da paragonare alla casistica dell’orso. Da giorni i giornali parlano di un uomo ucciso da un orso mentre correva in un bosco. Un caso unico, che non ha precedenti di cronaca in Italia (poi per carità, sarà capitato nei secoli addietro, ma diciamo in era contemporanea). 

Ogni mese però circa 50 persone in Italia vengono uccise mentre passeggiano o corrono. Ogni mese. Non da un orso ma da una macchina. E nessuno dà la caccia alle macchine e i giornali ci fanno i titoli solo in casi molto particolari. Mi chiedo: perché consideriamo queste cose in maniere così distanti? Perché ci sembra normale che 50 persone al mese muoiano travolte da una macchina (e parlo solo di pedoni eh) e non che una persona in 20 anni muoia aggredita da un orso? Forse è colpa di quel nuovo bias cognitivo di cui parlavamo giorni fa chiamato cervello da auto? 

Ora immaginiamo un futuro auspicabile in cui abbiamo aiutato gli ecosistemi a riprendersi spazio. Ecco in questo futuro ci sono meno macchine e ogni mese muoiono solo 10 persone per via delle macchine e 1 attaccata da un orso o da un lupo. Come valuteremmo questo futuro, visto così?

Non è una domanda tendenziosa in questo caso, anche perché sono argomenti sensibili e le persone non sono numeri. Però credo che sia importante iniziare a riflettere in maniera più profonda su questi temi, meno antropocentrica, e mettere a nudo il doppio standard con cui osserviamo la realtà. Credo che questo dibattito ne abbia bisogno, prima ancora di individuare delle soluzioni.

Allora, sono diversi giorni che si parla di orsi per via di un fatto di cronaca, tragico, di cui immagino avrete sentito parlare. Comunque, ve lo riepilogo. Mercoledì scorso un giovane uomo trentino di 26 anni, che stava correndo per i boschi, è stato aggredito e ucciso da un orso. Nei giorni successivi Il presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, ha firmato l’ordinanza urgente per identificare e uccidere l’orso, e sta ragionando anche sull’uccisione di altri tre esemplari ritenuti pericolosi per l’uomo. La notizia ha fatto scalpore, sia perché è il primo caso conosciuto in Italia di una persona uccisa da un orso, sia perché sono nate polemiche sia da alcuni gruppi di abitanti del luogo che vorrebbero che la politica ordinasse abbattimenti selettivi, sia da alcune organizzazioni per la difesa dei diritti degli animali che invece chiede che nessun orso venga ucciso.

La polemica poi si è allargata a tutte le politiche di reintroduzione e gestione degli orsi in Trentino. 

Vediamo di vederci più chiaro aggiungendo qualche elemento secondo me necessario alla riflessione. E per farlo rispolveriamo la rubrica #Iononmirassocial perché alcuni dei contenuti più interessanti e delle analisi più puntuali che ho letto le ho trovate per l’appunto sui social, e non sui giornali.

Partiamo col dire che l’orso bruno in Trentino è stato reintrodotto dagli esseri umani, seguendo un piano ben preciso, un progetto finanziato dall’Ue nel 1996, che si chiamava Life Ursus e prevedeva che in 20-40 anni si arrivasse ad avere 40/50 orsi in tutta l’area del progetto (nelle zone del Trentino occidentale, Bolzano, Sondrio e Verona). Così fra il 99 e il 2002 furono introdotti 10 esemplari di orsi bruni dalla Slovenia. Solo che per una serie di fattori che non erano stati considerati (ad esempio alcune barriere costruite dall’uomo difficili da superare, hanno fatto sì che gli orsi restassero concentrati in poche zone e che diventassero più di quanti immaginati inizialmente. In totale, al momento, sono quasi 150 in 23 anni (almeno il triplo di quanto immaginato).

Come spiega la pagina Facebook divulgativa dell’autore Mirko Maccani, “Il fatto che siano quasi 150 e concentrati in poche zone provoca incontri frequenti fra orsi e persone ma anche nervosismo fra orsi. I maschi in lotta per il territorio si scontrano spesso e  le femmine invece, essendoci troppi maschi, sono nervose e preoccupate per i loro cuccioli, (i maschi uccidono i piccoli). I giovani maschi hanno paura dei vecchi, e cosi via. Tutto questo rende gli animali nervosi e sull’attenti, e ciò si puó anche trasformare in comportamenti strani, atipici e forse pericolosi”.

Non li si può nemmeno spostare perché le altre regioni non li vogliono. In Appenino non li puoi portare perché si incrociano con il marsicano, rischiando la perdita di quella specie unica e nemmeno in Slovenia li puoi riportare perché non vogliono orsi non nati li e comunque li è presente un piano di abbattimento per il controllo numerico”.

A tutto ciò aggiungiamoci una popolazione umana che invece non è più abituata alla convivenza con gli orsi. Lo era forse ottant’anni fa, ma in questi ottant’anni di parentesi in cui gli orsi non ci sono stati, le abitudini delle persone, le conformazioni dei centri abitati, le società umane sono cambiate moltissimo. 

In particolare, come spiega in un altro post lungo e approfondito un altro autore, Maurizio Vitale, in arte Jack Daniel, che al contrario di ciò che il nome lascerebbe intendere esprime pensieri a mio avviso molto lucidi, in Europa la natura che viviamo è il frutto di un processo di antropizzazione durato secoli, per cui siamo abituati a una natura molto addomesticata. Addomesticata dai nostri trisavoli, che la temevano al punto da distruggerne buona parte. La nostra generazione, assieme a parte della precedente, ha capito che quella strada non era più percorribile perché ci saremmo estinti anche noi assieme al resto della natura se avessimo continuato a distruggere gli ecosistemi, e allora sono nate le politiche di conservazione, basate però spesso su un’idea idilliaca e inoffensiva della natura.

Insomma, per dirla con le parole del professor Giuseppe Barbiero, che spesso ci ha parlato di questi due concetti, c’è stata una prima fase in cui ha prevalso la biofobia, una seconda in cui ha prevalso la biofilia, ma probabilmente abbiamo bisogno di entrambi questi elementi dentro, per trovare il giusto equilibrio. Credo anzi che non ci possa essere una reale e consapevole biofilia senza una giusta biofobia.

Mi spiego meglio: per riuscire a tutelare realmente gli ecosistemi e la natura dobbiamo ricominciare a considerarci parte di essa, una specie fra le specie, in un disequilibrio dinamico all’interno di una intensa e a volte problematica rete di relazioni.

Mi sembra che vada in questa direzione, ad esempio, la proposta del WWF di introdurre, come avviene in altri paesi, uno strumento banale come lo spray al peperoncino antiorso, uno spray urticante da usare ovviamente solo in caso di aggressione, che infastidisce e mette in fuga l’animale senza danneggiarlo. Poi non lo so se questa è una misura sufficiente oppure no. 

Detto ciò, credo che la situazione sia questa. Se vogliamo sopravvivere come specie dobbiamo fare un passo indietro, ritirarci un po’ e lasciare più spazio alle altre specie. Questo è un dato di fatto. Questo vorrà dire ritrovare un equilibrio diverso con il resto degli ecosistemi, reimparare a interagirci, risviluppare anche una sana biofobia, e accettare il fatto che ogni tanto fatti come questo potranno accadere. 

Che è una cosa terribile, è una tragedia, figuriamoci. E ciò non vuol dire non fare tutto il possibile per prevenire il rischio, ci mancherebbe. Ma vivere, in sé, comporta una certa percentuale di rischio, e allocarlo da una parte potrebbe voler dire sottrarlo altrove. Vi faccio un esempio per farmi capire. Ieri sono andato a cercarmi, per curiosità un dato da paragonare alla casistica dell’orso. Da giorni i giornali parlano di un uomo ucciso da un orso mentre correva in un bosco. Un caso unico, che non ha precedenti di cronaca in Italia (poi per carità, sarà capitato nei secoli addietro, ma diciamo in era contemporanea). 

Ogni mese però circa 50 persone in Italia vengono uccise mentre passeggiano o corrono. Ogni mese. Non da un orso ma da una macchina. E nessuno dà la caccia alle macchine e i giornali ci fanno i titoli solo in casi molto particolari. Mi chiedo: perché consideriamo queste cose in maniere così distanti? Perché ci sembra normale che 50 persone al mese muoiano travolte da una macchina (e parlo solo di pedoni eh) e non che una persona in 20 anni muoia aggredita da un orso? Forse è colpa di quel nuovo bias cognitivo di cui parlavamo giorni fa chiamato cervello da auto? 

Ora immaginiamo un futuro auspicabile in cui abbiamo aiutato gli ecosistemi a riprendersi spazio. Ecco in questo futuro ci sono meno macchine e ogni mese muoiono solo 10 persone per via delle macchine e 1 attaccata da un orso o da un lupo. Come valuteremmo questo futuro, visto così?

Non è una domanda tendenziosa in questo caso, anche perché sono argomenti sensibili e le persone non sono numeri. Però credo che sia importante iniziare a riflettere in maniera più profonda su questi temi, meno antropocentrica, e mettere a nudo il doppio standard con cui osserviamo la realtà. Credo che questo dibattito ne abbia bisogno, prima ancora di individuare delle soluzioni.

Un altro argomento che sta tenendo abbastanza banco è quello relativo all’organizzazione della Cop 28, la ventottesima conferenza mondiale delle Nazioni Unite. la premessa è che l’incontro quest’anno si terrà ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, uno dei principali paesi estrattori di petrolio, quindi anche uno dei principali artefici della crisi climatica che stiamo vivendo. E il presidente della Cop sarà Sultan Al Jaber, che oltre a essere ministro dell’industria e della tecnologia del governo saudita è anche il CEO della Abu Dhabi National oil Company, un’enorme compagnia petrolifera pubblica. 

Ovviamente la scelta dell’Arabia come paese ospitante ha abbastanza diviso l’opinione pubblica e gli addetti al settore con le due posizioni principali che posso riassumervi così: da un lato “è uno scandalo, così le Nazioni Unite fanno il gioco dei paesi che vogliono boicottare i negoziati e delle loro strategie di greenwashing”, dall’altro “proprio perché i paesi del golfo sono i principali produttori di petrolio è importante parlare con loro, convincerli, perché sono proprio loro a dover cambiare”.

Non entro qui nel merito delle due posizioni, ma vorrei raccontarvi un po’ di novità emerse negli ultimi giorni. Ad esempio un’inchiesta del Guardian ha svelato come nel giro dei prossimi 5 anni, la compagnia guidata Al Jaber, il presidente di Cop28, metterà sul mercato almeno 7,6 miliardi di barili di petrolio equivalente di nuova produzione. Di cui 9 su 10 dovrebbero restare sotto terra per dare al Pianeta una chance di non sforare la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento globale. Insomma, non delle ottime premesse. Sempre al Guardian Al Jaber ha rilasciato la sua unica intervista fin qui dopo aver ricevuto l’incarico di presiedere ela cop, intervista in cui afferma che “Il mondo ha bisogno di una “mentalità imprenditoriale” per affrontare la crisi climatica”. 

A tutto ciò aggiungeteci che, come racconta Giacomo Talignani su la Svolta, nel paese vige un clima di repressione molto forte. Un clima che in parte avevamo già assaporato in Egitto lo scorso anno e che quest’anno potrebbe persino acuirsi. Le premesse sono che ad un recente convegno tenutosi sempre ad Abu Dhabi su clima e sostenibilità, gli organizzatori hanno invitato i partecipanti a “non protestare” e “non criticare la società, l’Islam, il Governo degli emirati Arabi Uniti o singoli individui”. E in una nota della guida per i partecipanti si ribadiva che “comprendiamo che il cambiamento climatico può essere un argomento controverso e accogliamo con favore tutte le prospettive e le opinioni nei discorsi civili durante l’agenda del programma. Protestare è illegale negli Emirati Arabi Uniti e qualsiasi caso di protesta dirompente sarà gestito dalle autorità locali”, a ribadire una sorta di divieto di forme di dissenso”. Ribadisco il concetto: al netto di tutte le considerazioni fatte al principio, le premesse sono un po’ preoccupanti.

Sempre a riguardo dell’Arabia Saudita (e più in generale dei paesi del Golfo Persico), segnalo una notizia che non c’entra con la Cop 28 ma un po’ centra. Irpi Media, l’organizzazione europea di giornalismo d’inchiesta, ha pubblicato un’inchiesta che mostra come le aziende controllate dai fondi di investimento dei Paesi del Golfo si stanno comprando quote di aziende della filiera agroalimentare in tutto il mondo: dalla coltivazione fino al commercio. Lo scopo è duplice: fare investimenti redditizi e garantire la sicurezza alimentare in patria. Questo fenomeno, negli ultimi anni, è visibile soprattutto in Europa, Italia compresa.

Spiega l’articolo, a firma di Michael Bird e Razvan Zamfira che “In seguito alla crisi finanziaria globale del 2008, le aziende dei Paesi petroliferi hanno puntato sui terreni agricoli all’estero per garantirsi le forniture alimentari. Negli anni Dieci del 2000, i primi anni del land-grabbing, questi investimenti si sono concentrati sull’Africa orientale, ma si sono poi diversificati nelle Americhe, in Ucraina e in Australia. Negli ultimi anni, invece, le aziende sostenute da fondi sovrani si sono espanse in Europa e in Asia, dove gli investimenti valgono miliardi di dollari. Questa iniezione di denaro in alcune delle più importanti aziende agricole e alimentari del mondo ha provocato una situazione in cui i 60 milioni di abitanti complessivi degli Stati del Golfo – Oman, Emirati Arabi Uniti (EAU), Kuwait, Bahrain, Arabia Saudita e Qatar – hanno garantito la propria sicurezza alimentare mentre i loro vicini più poveri – come Siria, Libano e Yemen – soffrono la carestia.

Insomma, i paesi estrattori di petrolio, con i soldi del petrolio, si assicurano il cibo che sarà sempre più scarso pervia del fatto che stiamo bruciando petrolio. Ha un suo senso. Però, prima di gridare agli arabi brutti e cattivi, ricordiamoci comunque che il petrolio che i paesi del golfo estraggono, non è che lo utilizzano tutto loro, anzi. La stragrande maggioranza va a finanziare i nostri consumi, i nostri stili di vita, le nostre industrie e così via. Forse il modo migliore per far aderire l’Arabia Saudita agli accordi sul clima non è organizzare i negoziati in casa loro, ma iniziare a smettere di utilizzare il petrolio.

Qualche altra notizia al volo. Continua ad emergere materiale scottante dai file segreti del Pentagono finiti non si sa come online. Secondo un altro report degli 007 americani, rilanciato dal Washington Post, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, uno dei più stretti alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente e tra i principali beneficiari degli aiuti americani, ha recentemente ordinato ai suoi sottoposti di produrre in segreto fino a 40mila razzi da mandare in Russia.

Nel documento si evidenzia che lo scorso primo febbraio al-Sisi ha ordinato ai funzionari di mantenere segreta la produzione e la spedizione dei razzi “per evitare problemi con l’Occidente”. Anche in questo caso fonti ufficiali egiziane hanno immediatamente smentito tutto.

Per il resto l’altra notizia è che molti dei documenti originariamente diffusi sono ormai introvabili e fatti sparire dal web, per cui ho il sospetto che i giornali stiano un po’ giocando a filasciare gradualmente e centellinare le informazioni, per tenere alta l’attenzione sul caso. E non escludo che alcune delle notizie non verranno mai divulgate, magari per ragioni di interesse nazionale, o pressioni del governo. 

Altra notizia che ieri ha fatto il giro dei giornali di mezzo mondo è che l’azienda farmaceutica Moderna, diventata famosa per i vaccini a Mrna anti covid, ha annunciato che nei prossimi cinque-sette anni (entro il 2030) metterà in commercio vaccini contro i tumori, le malattie cardiovascolari e quelle autoimmuni. 

È una notizia freschissima, su cui sappiamo ancora poco e quindi è davvero difficile fare un commento sensato, per cui mi limito a dirvi in cosa consiste la notizia. In pratica si tratterebbe di vaccini a Mrna con un funzionamento molto diverso da quello tradizionale. Sarebbero “personalizzati” e terapeutici, quindi non preventivi. Funzionerebbero così: “come primo passo una biopsia sulle cellule tumorali identifica le mutazioni non presenti nelle cellule sane. Successivamente un algoritmo identifica quali mutazioni stanno determinando la crescita del tumore. Viene quindi creata una molecola di Rna messaggero (mRna) con le istruzioni per produrre gli antigeni che causeranno una risposta immunitaria. La mRna, una volta iniettata, si traduce in parti di proteine identiche a quelle presenti nelle cellule tumorali. Le cellule immunitarie li incontrano e distruggono le cellule tumorali che trasportano le stesse proteine”.

Due di questi “vaccini” Moderna sarebbero già a uno stadio abbastanza avanzato. La società, ha scritto il Guardian, sta lavorando a quelli contro il virus sinciziale e contro il melanoma, per entrambi i quali ha ottenuto dall’Fda americana la breaktrough therapy, ovvero la procedura accelerata di approvazione. 

Ultimo elemento interessante della notizia, pare che la grande sperimentazione dettata dalla pandemia di Covid abbia accelerato la ricerca scientifica sui vaccini a mRna in maniera incredibile “tanto che – leggo sull’articolo del Fatto – l’equivalente di 15 anni di progressi sono stati raggiunti in soli 12-18 mesi”. 

Di sicuro su questa notizia ci ritorneremo nei prossimi giorni, magari con qualche commento più approfondito, ma intanto mi sembrava importante dare la notizia.

L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che non mi è chiaro come questi farmaci possano essere considerati vaccini perché a) sono terapeutici e non preventivi e b) riguardano perlopiù malattie che non sono contagiose. Quindi mi pare che non abbiano niente del vaccino, se non il fatto di utilizzare la stessa tecnologia a mRna utilizzata dai vaccini anti covid.

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