24 Feb 2023

Il biodiesel è una truffa? – #676

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Un nuovo biodiesel prodotto da Eni dichiara di essere sostenibile perché prodotto a partire da scarti. Cerchiamo di capire se è davvero così. Sempre a proposito di biocarburanti, parliamo di quello approvato negli Usa, la cui produzione emette sostanze tossiche altamente cancerogene. E poi, della situazione in Moldavia, della nuova stretta sull’immigrazione dell’amministrazione Usa e del più grande esperimento di sempre sulla settimana corta, condotto nel Regno unito, che ha dato risultati sorprendenti.

Un collega mi ha condiviso un articolo del Corriere della Sera sui biocarburanti di Eni. Parto dal leggervi l’articolo, a firma di Fausta Chiesa, poi allarghiamo il discorso e commentiamo.

“Il diesel al 100% rinnovabile di Eni Sustainable Mobility sbarca in 50 stazioni di servizio del gruppo. Il biocarburante è in vendita in 33 province — tra cui Roma, Firenze, Bologna, Genova e Torino — e da marzo arriverà in altre città per un totale di 150 punti vendita. Si chiama «HVOlution» ed è composto da Hvo puro (Hydrotreated Vegetable Oil, olio vegetale idrogenato), prodotto da materie prime di scarto e residui vegetali e da oli generati da colture non in competizione con la filiera alimentare. 

Prodotto nelle bioraffinerie di Venezia e Gela (Caltanissetta), costa dieci centesimi in più del diesel normale perché le materie prime hanno un prezzo maggiore e i costi di produzione sono più alti. È compatibile con le auto che riportano la scritta EN 15940 sul libretto di manutenzione (in linea di massima Euro 5 ed Euro 6).

«HVOlution — spiega Stefano Ballista, ceo di Eni Sustainable Mobility — già da oggi può dare un contributo importante alla decarbonizzazione della mobilità, anche del trasporto pesante. Questo prodotto arricchisce l’offerta nelle stazioni di servizio, affiancandosi all’attuale proposta di prodotti low-carbon, come le ricariche elettriche, e di servizi per le persone in mobilità: obiettivo di Eni Sustainable Mobility è integrare gli asset industriali e commerciali lungo tutta la catena del valore, dalla disponibilità della materia prima fino alla vendita di prodotti decarbonizzati al cliente finale».

In diversi Paesi dell’Africa tra i quali Kenya, Mozambico e Congo, Eni sta sviluppando una rete di agri-hub in cui verranno prodotti olii vegetali in grado di crescere in terreni marginali e aree degradate e non in competizione con la filiera alimentare e, al tempo stesso, di creare opportunità di lavoro sul territorio. Recentemente dal Kenya è arrivato nella bioraffineria di Gela il primo carico di olio vegetale prodotto nell’agri-hub di Makueni, mentre a Venezia è arrivato il primo carico di olii di frittura esausti. L’obiettivo è di coprire il 35% dell’approvvigionamento delle bioraffinerie Eni entro il 2025”.

Allora, partiamo dal fatto che l’articolo sembra un po’ una marchetta, non me ne vorrà la giornalista in questione, ma sembra una sorta di publiredazionale (ovvero articolo pagato da un’azienda per farsi pubblicità, in questo caso immagino Eni) non dichiarato. 

Al netto di ciò, la domanda è: un biocarburante come questo potrebbe aver senso? Di sicuro ci sono degli aspetti migliorativi, almeno a parole, in particolare il fatto che si dichiara di partire da prodotti di scarto. 

Personalmente ci vedo comunque diverse criticità: 1. Bisogna vedere se è vero. I paesi dalle economie più povere sono spesso utilizzati dalle grandi aziende come Eni anche perché hanno legislazioni più facili da aggirare. 2. Ma ammettiamo che sia effettivamente così: il biodiesel, è comunque una roba che viene bruciata dal motore e emette CO2. Meno del diesel normale, sicuramente e con un sistema in cui, almeno sulla carta, in un ciclo chiuso in cui la CO2 viene continuamente emessa e riassorbita dal ciclo delle coltivazioni. Ma siamo in una situazione di crisi climatica estrema, in cui non è più nemmeno sufficiente restare in un bilancio neutro, dobbiamo assorbire più CO2 di quanta ne emettiamo, in altre parole dobbiamo smettere di bruciare qualsiasi cosa. 

3. Non si stanno considerando le emissioni di tutto il processo di raffinazione e trasporto. E non solo le emissioni di CO2, ma anche altre eventuali emissioni inquinanti o nocive. 4. Infine, il fatto che questi scarti vengano presi da paesi africani mi fa pensare che questo modello non sia sostenibile perché significa che o quegli scarti da noi costano troppo, oppure non bastano e allora stiamo rubando le risorse a qualcun altro. Nessun modello di sostenibilità a medio-lungo termine può basarsi su risorse che arrivano dal di fuori del sistema.

Quindi, per concludere, mi sembra che anche HVOlution abbia una serie di forti limiti strutturali che non lo rendono una vera alternativa sostenibile ai carburanti tradizionali. Premesso ciò, una domanda che mi resta aperta è: cose come questa, su scala più piccola e in una fase di transizione, potrebbero aver senso per evitare di rottamare in massa milioni di auto a motore endotermico? Potrebbe essere una soluzione transitoria, tipo il retrofit? 

Su questo lascio un punto interrogativo aperto, con la spunta “da approfondire”.

Restiamo in tema biocarburanti, ma ci spostiamo negli Usa, per parlare di un recente caso sollevato da un’inchiesta del Guardian basata su una serie di documenti ottenuti assieme a ProPublica, una ong che investiga sugli abusi di potere, di un Biocarburante per aerei approvato dall’Agenzia di protezione ambientale americana la cui produzione sarebbe tossica a livelli incredibili. 

Scrive Sharon Lerner sul Guardian: “Di recente l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente ha dato il via libera a una raffineria della Chevron per la creazione di combustibile a partire da plastiche di scarto, nell’ambito di un’iniziativa a favore del clima per incrementare le alternative al petrolio. Ma, secondo i documenti dell’agenzia ottenuti da ProPublica e dal Guardian, la produzione di uno dei combustibili potrebbe emettere un inquinamento atmosferico così tossico che una persona su quattro esposta ad esso nel corso della vita potrebbe ammalarsi di cancro.

Questo rischio è 250.000 volte superiore al livello solitamente considerato accettabile dalla divisione dell’EPA che approva le nuove sostanze chimiche. Secondo l’EPA, la Chevron non ha ancora iniziato a produrre questo carburante per aerei. Quando l’azienda lo farà, l’onere del cancro ricadrà in modo sproporzionato sulle persone a basso reddito e di razza nera, a causa della popolazione che vive nel raggio di tre miglia dalla raffineria di Pascagoula, nel Mississippi.

Secondo la legge federale, l’EPA non può approvare nuove sostanze chimiche con gravi rischi per la salute o per l’ambiente a meno che non trovi il modo di ridurre al minimo i pericoli. E se l’EPA non è sicura, la legge consente all’agenzia di ordinare test di laboratorio che chiariscano i potenziali danni alla salute e all’ambiente. Nel caso di questi nuovi carburanti a base di plastica, l’agenzia non ha fatto nessuna delle due cose. Nell’approvare il carburante per jet, l’EPA non ha richiesto alcun test di laboratorio, monitoraggio dell’aria o controllo per ridurre il rilascio di inquinanti cancerogeni o l’esposizione delle persone a tali sostanze.

Nel gennaio 2022, l’EPA ha annunciato l’iniziativa di snellire l’approvazione delle alternative al petrolio in quello che un comunicato stampa ha definito “parte delle azioni dell’amministrazione Biden-Harris per affrontare la crisi climatica”. Se da un lato il programma ha autorizzato i nuovi carburanti ricavati dalle piante, dall’altro ha approvato i carburanti ricavati dalla plastica, anche se questi ultimi sono a base di petrolio e contribuiscono al rilascio di gas serra che riscaldano il pianeta”.

Mi fermo qui, l’articolo è ancora molto lungo ma vi lascio il link sotto FONTI E ARTICOLI se volete leggerlo tutto. L’aspetto che mi colpisce di più di questa vicenda è che sembrerebbe (almeno questa è la versione ufficiale, poi magari ci sono delle pressioni di Chevron di cui non siamo a conoscenza) che l’approvazione così superficiale da parte dell’EPA sia dovuta a delle procedure semplificate volute dall’amministrazione Biden per facilitare la transizione ecologica.

Il che è un controsenso, ovviamente. È importante non scambiare la fretta necessaria di cambiare modello economico e eliminare i combustibili fossili con l’idea che ogni soluzione va bene. La fretta maggiore, sana, che dovremmo avere è quella di cambiare profondamente i nostri stili di vita, i nostri sistemi produttivi, reimmaginare la nostra società e le nostre relazioni con gli ecosistemi. Non quella di inventare un nuovo biodiesel, o una nuova immaginifica tecnologia che ci permetterà di continuare a vvere nello stesso modo in cui abbiamo sempre fatto. Ecco, se la indirizziamo in quella direzione, la fretta diventa davvero una pessima consigliera.

A margine di questa storia, e in tema di fabbriche terribilmente inquinanti, vi segnalo di andarvi a vedere e leggere se non l’avete ancora fatto la bellissima e terribile storia di Alessandro Marescotti e Peacelink, ovvero la nostra storia “Io faccio così” della settimana, uscita ieri su Italia che Cambia.

Va bene, torniamo ad aggiornarci sulla situazione in Ucraina e dintorni. Negli ultimi giorni si è tornato a parlare molto di Moldova (o Moldavia che dir si voglia). Questo perché Putin ieri ha sospeso il decreto del 2012 con cui egli stesso aveva ufficializzato che la Russia sosteneva la sovranità della Moldavia. Vi leggo dall’articolo della redazione di Open: “Se in Ucraina è il Donbass, in Moldavia è la Transnistria il casus belli di Vladimir Putin. Dietro la revoca del decreto sulla sovranità di Chisinau – Chisinau sarebbe la capitale della Moldavia – c’è una lunga storia di conflitti geopolitici e un’opportunità. 

L’opportunità, spiega più avanti l’articolo, sarebbe quella di prendere militarmente l’aeroporto della capitale e poi usarlo come testa di ponte di una nuova invasione. “La minaccia velata serve a dare un segnale, l’ennesimo, all’Occidente. Il decreto presupponeva relazioni più strette tra la Russia, l’Europa e gli Stati Uniti. La decisione di revocarlo è stata presa per «garantire gli interessi russi in relazione ai cambiamenti nelle relazioni internazionali». Nella regione “contesa” sono già presenti un migliaio di soldati russi. E la presidente Maia Sandu ha confermato di aver ricevuto da Volodymyr Zelensky informazioni sui piani russi di creare una crisi. Per prendersi la Transnistria”.

Open cita anche le parole con cui Putin, 11 anni fa istruiva i suoi diplomatici su come trattare la Moldavia. Tra le aspirazioni di Putin c’era allora la creazione con l’Unione europea di «un unico spazio economico e umano dall’Atlantico all’Oceano Pacifico» e lo sviluppo delle «relazioni con la Nato». Ma anche il riconoscimento dell’integrità territoriale moldava. Messa in discussione dai separatisti filorussi della Transnistria, una fascia di territorio lungo il confine con l’Ucraina”. Un altro mondo, un’altra epoca.

L’autoproclamata repubblica di Transnistria si trova all’interno dei confini della Moldavia, lungo la frontiera con l’Ucraina sud-occidentale. Nel 1990 il Paese si dichiara indipendente in modo unilaterale con un referendum che ottenne quasi il 90% delle preferenze. Nel 1991 la Moldavia incamera tra i suoi possedimenti anche il territorio della repubblica separatista. E scoppia una guerra. Il conflitto scoppiò nei primi mesi del 1992. Tiraspol, con il determinante aiuto dei russi, sconfigge presto Chisinau. Il cessate il fuoco viene mediato da Mosca. Con la conseguente formazione di forze di peacekeeping con contingenti misti di Moldavia, Russia e Transnistria.

La tregua raggiunta nel luglio del 1992 stabilisce de facto non solo la separazione dei due Paesi. Ma anche la permanenza di 1.500 soldati russi nella base militare del villaggio di Cobasna. Qui sono immagazzinate armi che potrebbero rivelarsi fondamentali in un eventuale attacco verso la Moldavia. Oppure verso l’Ucraina. 

Transnistria a parte, oggi la Moldavia si trova in una situazione molto particolare. Ha un governo molto filoeuropeista, eletto democraticamente, ma la sua economia dipende ancora fortemente da Mosca. Dalla Russia arriva la maggior parte delle rimesse e il Paese ha un ruolo centrale nella fornitura di energia elettrica e di gas. 

I prossimi giorni e settimane ci diranno quali sono le reali intenzioni di Putin sulla regione.

Spostiamoci negli usa, dove l’amministrazione Biden ha appena scritto una brutta pagina sul tema immigrazione, che fa ripensare ai tempi di Trump. Scrive Marina Catucci sul manifesto: “Il dipartimento per la sicurezza interna e il dipartimento per la giustizia hanno divulgato il pacchetto dell’amministrazione Biden sulle nuove restrizioni riguardanti le richieste di asilo per chi tenta di attraversare il confine con il Messico. Le nuove regole negherebbero l’asilo alle persone che non lo richiedono prima ai paesi che devono attraversare per raggiungere gli Stati uniti”.

Che vuol dire? Sembra una cosa molto burocratica, all’apparenza, ma come spesso accade il diavolo si nasconde nei dettagli. In pratica le persone dovrebbero fare una richiesta di asilo per ogni paese che attraversano, cosa che richiede mesi di tempo e c’è un’alta probabilità di respingimento. 

“LA NUOVA PROPOSTA è dettagliata in 153 pagine, potrebbe interessare decine di migliaia di persone e prevede delle eccezioni solo per i bambini e per i minori non accompagnati. È, finora, il progetto di legge più restrittivo all’interno di un mosaico di mosse messe in atto dall’amministrazione Biden per cercare di gestire il confine tra Stati uniti e Messico e ricorda molto da vicino l’era Trump. Nel 2019 Donald Trump aveva cercato di far passare un divieto simile, ma era stato bloccato in tribunale.

Nonostante le evidenze i portavoce dell’amministrazione hanno respinto il paragone con la precedente, sostenendo che quello del presidente democratico non è un divieto categorico di asilo e sottolineando gli sforzi di Biden per espandere l’accesso ai percorsi legali negli Stati uniti. «Per essere chiari, questa non era la nostra prima preferenza e nemmeno la nostra seconda – ha detto ai giornalisti un funzionario dell’amministrazione – Queste misure temporanee vengono prese per necessità».

La necessità a cui si riferisce è lo scadere del Titolo 42, la restrizione sulle entrate dei richiedenti asilo applicata da Trump nel primo periodo della pandemia per ragioni sanitarie. Ora la norma proposta da Biden sarà pubblicata nel registro federale, dove resterà 30 giorni per un periodo di commento pubblico, poi passerà al Congresso per il voto. Se entrerà in vigore durerà due anni”.

Ho la sensazione, brutta, che questo clima di emergenza generalizzato stia generando dei nuovi mostri. Una delle poche cose positive della guerra fredda, come spiega sapientemente Naomi Klein in Shock economy, è che aveva costretto il capitalismo a mostrare la sua faccia più umana e suadente (quella ad esempio del welfare, del piano Marshall, ecc) per essere più attraente verso le masse. Oggi questo elemento è scomparso e anzi, le nuove emergenze sembrano spingere le amministrazioni e le nazioni a rinchiudersi verso nuovi autoritarismi o autarchie. Ricordiamoci però che possiamo sempre decidere di non cedere al ricatto dell’emergenza e continuare a usare la testa, il cuore e le mani.

Allora, ci sarebbe un’altra notizia un po’ deprimente, ma importante, sui Pfas, ma ce la teniamo di riserva per la settimana prossima. Invece voglio chiudere con una cosa più stimolante. Si è appena concluso il più grande esperimento mai realizzato sulla settimana corta e ha dato risultati ancora migliori delle aspettative. L’esperimento si è tenuto nel Regno Unito e ha coinvolto Nel Regno Unito, 2.900 dipendenti di 61 aziende, che hanno testato per sei mesi la settimana lavorativa di quattro giorni anziché cinque a parità di stipendio. 

Scrive Stefania Penzo su Lifegate: “Si tratta dell’esperimento più ampio al mondo condotto finora sull’argomento, che conferma alcune ipotesi già avanzate in studi precedenti: chi riduce l’orario di lavoro concilia meglio vita privata e professionale, ne guadagna in salute e produce lo stesso, in molti casi di più. Alla fine del test, che è iniziato a giugno e si è concluso a dicembre 2022, la maggior parte delle aziende ha dichiarato di voler mantenere questo modello. 

Lo studio è stato coordinato dall’organizzazione non profit 4 Day Week Global. L’iniziativa prevede che in ogni Paese aderente un gruppo di aziende partecipi a un progetto pilota di sei mesi basato sul modello 100:80:100. In pratica, cento per cento dello stipendio ai dipendenti che però lavorano l’80 per cento delle ore previste (di solito 32) e si impegnano a raggiungere gli stessi risultati che si conseguirebbero lavorando cinque giorni a settimana.

I dati “prima e dopo” mostrano che alla fine del processo  il 39 per cento dei dipendenti era meno stressato e il 71 per cento aveva livelli ridotti di burnout, la sindrome da stress lavorativo. Allo stesso modo, i livelli di ansia, affaticamento e problemi di sonno sono diminuiti, mentre la salute mentale e fisica è migliorata. Chi fa la settimana corta – spiegano i ricercatori del Boston College – tende a utilizzare il terzo giorno libero per appuntamenti dal medico o altre commissioni che altrimenti dovrebbe concentrare in una giornata lavorativa.

Per oltre la metà dei dipendenti è stato più facile conciliare il lavoro con la vita sociale e famigliare. È diminuito sensibilmente anche il numero di dipendenti che hanno lasciato le aziende partecipanti, registrando un calo del 57 per cento durante il periodo di prova.

E poi il risparmio economico: “Non hai idea della quantità di denaro che saremo in grado di risparmiare per l’assistenza dei bambini”, ha commentato il dipendente di una no-profit. Non si tratta di un caso isolato: secondo il Guardian, molte famiglie inglesi hanno scoperto che lavorando a tempo pieno mettono da parte meno soldi che lavorando part-time.

Per molti, gli effetti positivi di una settimana lavorativa di quattro giorni valevano più del loro peso in denaro. Il 15 per cento dei dipendenti ha affermato che nessuna somma di denaro li indurrebbe ad accettare un orario di cinque giorni oltre i quattro giorni settimanali a cui erano ormai abituati”.

Insomma, la cosa dei 4 giorni lavorativi sembra che stia prendendo piede. Poi, secondo me, c’è anche un discorso da fare sulla produttività, un po’ più ampio. Nel senso che fin qui l’incentivo per le aziende è stato vedere che la produttività è rimasta la stessa, quando non è aumentata. In realtà credo che una società sostenibile del futuro debba essere anche una società a bassa produttività, il che però ci mette di fronte a sfide ulteriori su come trasformare un modello socio-economico basato sulla crescita della produttività in un modello che ne preveda il calo. In questo senso lo strumento della settimana corta non è in sé sufficiente a cambiare i modelli di lavoro, ma di sicuro è un tassello molto importante del mosaico.

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